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yoga

La cognizione del dolore negli yogāsana

7 Novembre 2019 by Francesco Vignotto 3 commenti

…imponderabile in un mondo di pesi…
…………..
…dismisura in un mondo di misure…

Marina Cvetaeva

Avevamo parlato già qualche tempo fa, degli eccessi che provocano infortuni nello yoga, perché tutto ciò che può fare molto bene, può fare anche molto male. Soprattutto quando uno pensa, con molta leggerezza, che sia possibile piegare alle proprie pretese energie che sono tanto creative quanto potenzialmente distruttive, e molto più capillari di quanto si possa immaginare.

Proprio in questi giorni il sito della BBC ha pubblicato un articolo dal titolo Gli insegnanti di yoga ‘rischiano seri problemi alle anche’, che a dispetto del titolo sensazionalistico è piuttosto equilibrato nel fornire un quadro di una situazione-limite, anche se a livello aneddotico: Benoy Matthews, un fisioterapista specializzato, sostiene di avere ormai moltissimi insegnanti di yoga tra i suoi pazienti, parte dei quali necessitano semplici interventi fisioterapici, mentre altri sono costretti a ricorrere alla chirurgia per la sostituzione totale dell’anca.

Matthews individua la causa non nello yoga in sé, ma nell’attitudine diffusa a forzare ripetutamente il corpo in posizioni “prescritte”. In altre parole, quando l’āsana è uno standard assoluto a cui conformarsi (ne abbiamo già parlato qui) è molto facile entrare in conflitto con particolarità anatomiche del proprio corpo che non sono compatibili con quegli standard (e l’articolazione dell’anca è particolarmente soggetta a importanti differenze da corpo a corpo).

Il problema è quindi in primo luogo di attitudine, incoraggiata (è un parere mio) da un certo approccio massimalista allo yoga, per cui lo yoga farebbe bene a prescindere e che la pratica sia in grado di riparare ai suoi stessi danni (secondo una visione distorta della massima “practice and all is coming”), senza contemplare la necessità di aggiustare il tiro.

Per cui, il buon Matthews afferma che è molto facile per il praticante confondere il dolore articolare, che indica la necessità di arrestarsi, con la rigidità, contro cui si è stati educati a combattere.

Differenti gradi di torsione della testa del femore. Una delle tante variabili anatomiche che determina la mobilità dell’articolazione dell’anca.

L’articolo è molto interessante, perché aiuta a comprendere come la pratica degli āsana non sia un gioco innocuo e di come il praticante di yoga possa soffrire del male paradossale comune a molti sportivi: perdere la salute per eccesso di zelo facendo qualcosa che in realtà servirebbe a preservarla.

Ma se vogliamo andare oltre il più ovvio invito alla moderazione (esiste anche la pecca di eccessiva arrendevolezza, e per questo è difficile dare delle indicazioni assolute), possiamo cogliere l’occasione per indagare qualche aspetto più profondo, ovvero: la “via mediana” non intesa come mediocrità tra gli estremi, ma come la possibilità fattiva di penetrare negli interstizi delle cose.

La maggior parte delle persone (forse tutti, almeno nella cultura industrializzata occidentale, se non educati altrimenti) si percepisce e si regola solo tramite gli estremi. È facile abbuffarsi e non è nemmeno troppo difficile digiunare: basta mangiare fino a non poterne più, oppure non mangiare affatto. Proprio per questo, tutti noi sappiamo quanto richieda attenzione (un’attenzione che non tutti sono disposti a investire) mangiare invece il giusto, solo quando si ha veramente fame e smettere prima di essere satolli: bisogna sentirsi, non basta aspettare di collidere con il limite: è lo stesso motivo per cui – è l’emergenza del nostro tempo – anche le idee si appiattiscono spesso su posizioni estremistiche, perché è molto più difficile articolare un’opinione ponderata.

Così, tornando al nostro corpo, nel movimento percepiamo poco più del punto di partenza e di quello di arrivo, un po’ come quando si parcheggia urtando la macchina avanti e quella dietro. Tutte le gradazioni intermedie, tutte le zone grigie che non possono essere catalogate sotto uno o l’altro estremo sono delle frequenze al di fuori della nostra capacità percettiva. A meno che, ovviamente, non inciampiamo nel mezzo in qualcosa, in special modo di doloroso (con tutta la problematica che riguarda la definizione del dolore e il suo margine soggettivo di sopportazione).

Eppure, con buona pace dei massimalisti, le tecniche dello yoga si muovono proprio in quella zona di mezzo tra gli estremi, che solitamente è attraversata di fretta e sovrappensiero come un corridoio buio popolato di esseri ripugnanti. Ecco, lo yoga deve mostrare che il mostro è una leggenda.

Ciò richiede di non eccedere nella forza, con una certa nonchalance, ma nemmeno di rinunciare del tutto alla fisicità. Come il tocco del percussionista, se è troppo lieve non produce suono, se è troppo ‘materiale’ è un colpo sordo.

Molto di quello che si vede oggi sotto il nome yoga, purtroppo, è un colpo sordo. È un colpo sordo insegnare il modo più veloce per raggiungere lo stadio finale di una posizione, non il modo più in accordo con la propria fisiologia e con la possibilità di un ascolto approfondito, ma soprattutto è un colpo sordo non cogliere e non educare a discernere la differenza. Per cui, anche il praticante di yoga, finché non incappa nel fine corsa delle proprie possibilità – correndo il rischio di sviluppare, col tempo, dolore – non sarà portato a sentirsi e non avrà raffinato in alcun modo la propria capacità percettiva.

Occorre avere ben chiaro cosa è possibile fare, e cosa non lo è. Ma anche: perché dovrei farlo? Perché dovrei ‘aprire’ ulteriormente le mie anche? Non sto sostituendo forse il mezzo con il fine? La domanda è universale, ma è ancora più urgente per lo yoga, che è solo secondariamente un contenitore di mezzi, e ancora prima battuta un fine che non è un(a) fine.

Porre degli obiettivi, come eseguire una posizione o padroneggiare una tecnica, è certo un espediente: serve come scintilla di accensione, altrimenti non ci sarebbe spinta iniziale. Ma nello yoga tutti particolari che si presenteranno nel percorso, le necessarie deviazioni e gli adattamenti, persino la manifesta impossibilità di esecuzione possono essere in realtà la destinazione, perché yoga è esperire direttamente che la destinazione è in ogni punto.

A un certo punto, la posizione finale potrebbe essere persino dimenticata. Ciò che è limitante è che il limite sia considerato come una restrizione di cui necessariamente fare ammenda. Il limite si oltrepassa da sé quando le mie anche strette, la mia posizione imperfetta non impediscono il risvegliarsi dell’energia, che avviene per ragioni poco ponderabili, non in un momento prescritto né quando né perché sono stati fatti tutti i compiti. Allora la necessità di aprire le anche per sentirmi libero è come la necessità di acquistare un televisore da quaranta pollici per sentirmi felice.

Forse, se ci facciamo caso, nello yoga come nella vita, potremmo rintracciare infinite occasioni in cui un raccoglimento particolare mentre si cercava altro, un silenzio, una raffinata sensibilità sono stati calpestati sul nascere dall’improvviso pensiero che vi fosse una posizione, una sequenza ancora da portare a termine, una parola ancora da dire, una nota da cantare.

Sarebbe bello, se nelle lezioni di yoga si cadesse in questi silenzi come si cade addormentati.

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Yoga, o la (re)invenzione di una tradizione: intervista a Marco Passavanti

11 Dicembre 2018 by Francesco Vignotto 2 commenti


Per questa intervista ho voluto rispolverare L’invenzione della tradizione, lettura che risale ai miei ormai lontani anni come studente universitario, perché è un titolo che ricorre spesso nella mia mente quando si parla delle origini dello yoga e dei suoi spesso fumosi rapporti con la pratica odierna.

La raccolta di saggi curata da Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger narrava come negli ultimi due secoli le tradizioni ritenute antiche fossero spesso utilizzate per stabilire una continuità con il passato e rafforzare l’identità e il senso di appartenenza. Nel contesto delle società di massa, tuttavia, erano svuotate dei significati originari. E, particolare di non secondaria importanza, sia le tradizioni, sia il passato a cui si ricollegavano erano spesso il frutto di un’invenzione recente, dal cerimoniale della monarchia britannica ai kilt che contraddistinguevano i clan scozzesi.

Potremmo dire che qualcosa di simile, da un certo punto di vista, è accaduto anche allo yoga moderno? Fino a pochissimi anni fa, lo yoga era ritenuto – fatta eccezione per le derive ‘commerciali’ dello yoga occidentalizzato – un prodotto astorico giunto a noi direttamente dall’antichità vedica. Oggi, grazie agli studi pionieristici degli ultimi anni, sappiamo che le cose non sono andate esattamente così.

Eppure, anche relegare lo yoga come un ennesimo caso di ‘invenzione della tradizione’ è ancora una verità parziale. La realtà che emerge dagli studi in corso è molto più complessa e siamo ben lontani dal poter giungere a conclusioni definitive; si sollevano questioni molto delicate che riguardano temi come l’appropriazione culturale, la spiritualità come mercato, le dissonanze cognitive nella traduzione tra diverse culture ma anche i nuovi significati che nel frattempo lo yoga ha assunto (temi esemplarmente esposti già una decina di anni fa da Federico Squarcini e Luca Mori in Yoga: tra storia, salute e mercato).

Una delle vere novità, nel frattempo, è che questi studi, pur destabilizzando parecchie delle idee sullo yoga, una volta tanto non sembrano allontanare e contrapporre il mondo dei praticanti e il mondo degli studiosi. Ne abbiamo parlato con Marco Passavanti, che può essere considerato uno degli esempi di questo avvicinamento.

Marco è dottore di ricerca in civiltà, società ed economia del subcontinente indiano presso la Facoltà di studi orientali dell’Università ‘La sapienza’ di Roma. Marco ha conseguito il diploma in  lingua e cultura tibetana presso l’IsIAO di Roma ed è autore di diversi studi sulle tradizioni del buddhismo indo-tibetano, tra cui Ippolito Desideri, un gesuita tra i lama del Tibet (2014). Nel 2019, uscirà presso Ubaldini la sua traduzione di Roots of Yoga di James Mallinson e Mark Singleton.

Parallelamente alla formazione accademica, Marco ha coltivato sin da giovanissimo la pratica dello yoga, formandosi con Claude Marèchal, allievo diretto di T. K. V Desikachar, e pioniere della diffusione della tradizione del Viniyoga in Occidente. Attualmente si dedica alla formazione di insegnanti nell’ambito di diversi percorsi formativi presso l’AYCO di Roma e Il Mondo Yoga di Parma.

Marco Passavanti

Perché è importante, oggi, lo studio anche accademico delle tradizioni legate allo yoga, per insegnanti e praticanti? Fino a qualche tempo fa (e in parte anche ora) si rischiava di essere accusati di essere ‘troppo mentali’…

Occorre innanzitutto chiarire un punto: quello che definiamo studio accademico dello yoga consiste principalmente nell’analisi rigorosa dei testi, delle testimonianze storiche e dei discorsi relativi allo yoga, allo scopo di tracciarne le origini, gli sviluppi e gli esiti. Ovviamente, le conclusioni a cui giungiamo non sono mai definitive; nuovi studi, nuovi documenti, nuovo materiale possono mettere in discussione le conclusioni precedenti o aprire nuovi percorsi di ricerca.

Questo metodo di studio aperto e inquisitivo spesso è in conflitto con le narrazioni dogmatiche e le credenze settarie di guru o di istituzioni che si riallacciano a concezioni religiose hindu o buddhiste. Tale conflitto vede a volte contrapposti gli «scholars» e i «practitioners», entrambi diffidenti gli uni degli altri. A mio modo di vedere queste due etichette hanno sempre meno senso oggi: molti studiosi sono anche praticanti, o interessati alla dimensione filosofica ed esistenziale dell’oggetto che studiano, e molti praticanti sono anche studiosi, o quantomeno conoscono e apprezzano gli studi accademici sullo yoga, e in generale sulle religioni e le filosofie dell’Asia. Per quanto riguarda l’Italia, siamo ancora indietro rispetto al mondo anglofono o francofono: molte opere fondamentali sullo yoga e la sua storia sono in attesa di essere tradotte e pubblicate. Ritengo però che la situazione sia destinata a cambiare a breve.

È significativo che in molti corsi di formazione è ormai una consuetudine acquisita includere moduli di introduzione al pensiero indiano tenuti da studiosi accademici. Il detto secondo cui lo yoga è «novantanove percento pratica e un per cento teoria» andrebbe radicalmente ripensato: chi insegna yoga oggi in Occidente non può fare a meno di una solida formazione intellettuale che prevede lo studio dei testi e della storia dello yoga, nonché una riflessione critica sugli sviluppi dello yoga nella modernità.

A mio giudizio, la figura dell’insegnante di yoga dovrebbe essere quella di un operatore culturale a cui spetta il compito delicato di divulgare correttamente concetti, pratiche e dottrine provenienti da un contesto culturale molto differente dal nostro.

Una delle novità più rilevanti di questi ultimi anni per praticanti e insegnanti è il concetto di Modern Yoga o Modern Postural Yoga, ovvero che lo yoga che oggi pratichiamo – compreso quello che rivendica la fedeltà a una tradizione – presenta dei caratteri fortemente innovativi e ibridi rispetto allo yoga premoderno. La domanda però è inevitabile: che cosa è lecito (o plausibile) chiamare yoga e cosa non lo è, oggi? 

Negli ultimi decenni molti studiosi hanno messo in luce, con argomenti difficilmente contestabili, quanto molte forme di yoga praticato in India nel tardo periodo coloniale e oggi in Occidente siano lontane dai modelli premoderni: se uno yogin di duemila, mille, o anche soltanto di duecento anni fa potesse partecipare a uno yoga festival faticherebbe non poco a riconoscere qualcosa di familiare in quello che chiamiamo comunemente yoga.

Se nei modelli antichi è soprattutto l’aspetto della meditazione (dhyāna) a definire lo yoga, oggi «fare yoga» significa nella gran parte dei casi eseguire una serie di posture (āsana), molte delle quali non sono descritte in nessun testo premoderno. Inoltre, quelle poche posture che possono vantare una storia millenaria o centenaria hanno spesso scopi e funzioni che non sempre corrispondono a quelli descritti nei manuali contemporanei.

Lo yoga praticato attualmente in Occidente (e in misura sempre crescente anche in India) è stato perciò definito «yoga posturale moderno», dato che si basa quasi interamente sulla pratica degli āsana. A complicare il quadro c’è il fatto che molti guru o figure di spicco dello yoga posturale moderno rivendicano una fedeltà assoluta al modello tradizionale, richiamandosi a figure come Patañjali.

Per rispondere alla domanda su cosa sia lecito chiamare yoga oggi, bisogna innanzitutto lasciare andare l’idea che esista uno yoga perenne, immutabile, svincolato dalla storia: lo yoga posturale rappresenta uno sviluppo, un adattamento e in certi casi un completo stravolgimento, di modelli indiani precedenti, a loro volta esito di processi lunghissimi di evoluzione.

Non si può comprendere lo yoga di oggi se non si ha un quadro chiaro di cosa è successo in India negli ultimi duecento anni. Lo yoga premoderno (primo tra tutti l’haṭhayoga) ha infatti subito un processo di adattamento e ripensamento nel contatto con idee provenienti dal mondo occidentale: il razionalismo scientifico, l’occultismo e la teosofia, le forme di cultura fisica europee, le idee e le pratiche salutistiche, le medicine alternative e la psicanalisi, la controcultura degli anni sessanta, la new age, eccetera.

Le pratiche di āsana proposte oggi in uno yoga studio di New York o di Milano possono certamente essere definite «yoga», a patto però di rinunciare all’idea che esse rispecchino fedelmente le forme tradizionali. Rispetto al passato sono mutati radicalmente il contesto sociale e gli scopi stessi della pratica. Alcune tecniche sono rimaste quasi invariate, altre sono scomparse, alcune hanno cambiato forma e scopo, o sono state rimpiazzate da pratiche ginniche, calisteniche o sportive di varia provenienza.

Pochissimi yogin occidentali sono asceti casti che vivono di elemosine e aspirano alla realizzazione di poteri sovrannaturali (siddhi) e alla liberazione dal ciclo opprimente delle rinascite (saṃsāra); la maggior parte vive in contesti urbani, ha un profilo su Instagram, un lavoro stressante, una vita affettiva e sessuale, disagi psicologici più o meno importanti, frequenti mal di schiena, e desidera superare indenne la prova costume.

Nel migliore dei casi questo yoga va incontro alla ricerca di senso e alle aspirazioni legittime di chi lo pratica: oggi come ieri esalta il valore di una serie di scelte etiche, di una mente vigile, amorevole e silenziosa, e l’importanza del respiro e del corpo come strumento di lavoro su di sé. Nel peggiore dei casi questo yoga è una delle mille forme di intrattenimento che il mercato propone; un intrattenimento vagamente spirituale ed esotico, o un workout alla moda, destinato prima o poi a essere accantonato o soppiantato da nuovi prodotti, come ogni merce.

L’approccio visivo ha avuto un’importanza capitale sia nella formazione dello yoga moderno, sia nel boom di questi ultimi vent’anni, con una drastica accelerazione dovuta ai social network. Quali pensi siano le ripercussioni di questo fenomeno? Tu ad esempio vieni da una scuola che è in netta controtendenza con questo… 

È innegabile che il successo di molte tradizioni di yoga posturale moderno sia il risultato diretto di un approccio visivo. Per accorgersene basta sfogliare un testo come Light on Yoga di B. K. S. Iyengar, uno dei primi manuali di pratica degli āsana, dove ciascuna delle centinaia di immagini che contiene è divenuta oggi un’icona pop.

I mezzi di comunicazione non fanno che accentuare questa tendenza, con il risultato che lo yoga viene identificato da milioni di persone con l’esecuzione di posture complesse, acrobatiche, che richiedono doti fisiche non comuni e che al tempo stesso, non si capisce bene come, hanno anche una dimensione «spirituale».

La sensazione è che una gran parte degli yogin contemporanei viva come davanti a uno specchio, finendo per essere costantemente impegnata a osservarsi dall’esterno e a essere osservata, nel tentativo faticoso di imitare modelli pressoché irrealizzabili di forza e flessibilità, di allineamento e perfezione estetica.

Dietro tutto questo fenomeno si avverte la tensione e la frustrazione tipica del mondo globalizzato tardo capitalista: la modella e yoga-celebrity che esegue alla perfezione rājakapoṭāsana in un elegante resort a Bali, dall’alto del suo Olimpo ricorda ogni giorno a milioni di persone quali sono le priorità e cos’è la felicità. Il colmo è quando la stessa modella, nei suoi post su facebook, ci esorta ad «accettarci così come siamo», oppure a «realizzare il nostro vero sé», magari con un oṃ śānti finale.

T. K. V. Deiskachar

La tradizione del Viniyoga di Krishnamacharya, trasmessa da suo figlio Desikachar, nella quale mi sono formato e in cui mi sento a casa, rappresenta per molti versi una tendenza contraria: raramente l’insegnante mostra le posture (quasi sempre chiede l’aiuto di un’altra persona), e la pratica degli āsana si basa essenzialmente su posture ordinarie non particolarmente «spettacolari» (anche se in linea generale non sono escluse le posture dette viśeṣa, o «straordinarie»).

Nell’approccio del Viniyoga viene data grande importanza allo yoga individuale, e benché sia dato ampio spazio alla pratica collettiva, si sottolinea sempre la necessità imprescindibile della pratica «solitaria», svolta in uno spazio intimo e appartato. A ben vedere, questo è il modo in cui la pratica dello yoga è stata intesa per millenni: alcuni passi della Haṭhapradīpikā o della Gheraṇḍasaṃhitā (per menzionare solo i testi più noti) raccomandano allo yogin di praticare in reclusione, lontano da occhi indiscreti e distrazioni sociali, e forniscono istruzioni dettagliate sullo spazio della pratica. Siamo lontanissimi dai megaraduni a Times Square e dalle pose su Instagram o Facebook.

L’approccio visivo induce a un’altra riflessione: è plausibile un esoterismo di massa, o il massimo che abbiamo ottenuto è un po’ di inevitabile folklore?

Un esoterismo di massa è di per sé un ossimoro. L’esoterismo per definizione presuppone un’élite di «iniziati» e una massa di «profani». È indubbio che lo yoga sia nato in un contesto esoterico, o quantomeno sia stato elaborato e trasmesso all’interno di gruppi ristretti ed esclusivi, spesso vincolati a voti di segretezza.

Helena Petrovna Blavatsky

Le opere di teosofi come Blavatsky, Bailey e Leadbeater, di figure come Guénon, Vivekananda, Aurobindo, Jung, Avalon, Eliade, Evola, Osho, di tantissimi altri autori appartenenti alla galassia new age o della «nuova spiritualità», hanno fatto conoscere a un pubblico vastissimo idee e pratiche esoteriche tramandate all’interno delle tradizioni religiose asiatiche, contribuendo in modo significativo a orientare e spesso a distorcere la percezione che oggi abbiamo di esse.

In molti casi si tratta di fenomeni di appropriazione culturale: si colgono elementi decontestualizzati di un’altra cultura, si interpretano selettivamente i documenti (spesso basandosi su pessime traduzioni), e si organizza il materiale secondo una propria agenda, o seguendo le mode culturali del momento. L’inevitabile «folklore» che ne scaturisce balza subito agli occhi degli osservatori più attenti: gli onnipresenti Gaṇeśa negli yoga studio, il tantra per coppie, lo yoga sciamanico, il karma e la legge di attrazione, le frasi che il Buddha non ha mai detto, gli oṃ sulle magliette, i namastè, i saponi e i profumi abbinati ai cakra, i trattamenti «energetici», i kirtan mal pronunciati e mal tradotti, eccetera, eccetera. Uno dei contributi fondamentali delle discipline accademiche che studiano le culture asiatiche è stato quello di aver messo in luce questi fenomeni, dimostrando quanto i processi di appropriazione culturale abbiano condizionato la nostra percezione.

Provo a esagerare un po’: la salute totale, la perfetta simmetria del corpo, la rimozione dell’impuro, il rilassamento e la meditazione per essere più efficienti e sopportare più stress al lavoro, il controllo delle emozioni, il controllo del respiro, il controllo dei pensieri, il controllo degli sfinteri. Quanto è alto il rischio che lo yoga di massa – e le motivazioni che lo alimentano – producano generazioni di nevrotici che sanno fingere più o meno bene di non esserlo? 

È una domanda complessa a cui non è facile dare una risposta. Non c’è dubbio che l’aspetto del controllo sia una parte fondamentale della disciplina yogica sin da tempi remoti: molte tecniche dello yoga sembrano voler andare in una direzione opposta al corso delle cose, controllando il respiro, la postura, i sensi, la mente, il processo della morte, a volte sfidando le leggi stesse della natura.

Nello yoga premoderno, come praticato ad esempio in India o in Tibet, questo aspetto del controllo, dell’«aggiogare», ha tuttavia una precisa funzione soteriologica ed è posto all’interno di una cornice più ampia, di una precisa visione del mondo. Al contrario, nello yoga contemporaneo transnazionale questo aspetto del controllo è spesso decontestualizzato, e i suoi scopi variano notevolmente rispetto a quelli tradizionali.

L’odierno lifestyle yogico, fatto di salutismo, veganesimo, pensiero positivo, apertura del cuore, terapie alternative e routine quotidiane è un fenomeno dalle mille sfaccettature. C’è chi giustamente aspira a vivere una vita sana e a ritrovare la salute, c’è chi non si arrende al grigio e vuole sentirsi vivo, o ancora c’è chi cerca di combattere lo stress e di trovare, almeno per un’ora, un po’ di tranquillità, per quanto relativa. A volte però il ricorso a tecniche yogiche o meditative si rivela un cavallo di troia che può nascondere ogni genere di nevrosi, trasformandosi in un rituale giornaliero ossessivo e narcisistico, o in una ricerca spasmodica di visibilità, o ancora in una dose quotidiana di endorfine.

Baba Ramdev, il perfetto rappresentante dello yoga come soft power nell’India contemporanea

Lo Yoga è oggi anche un formidabile strumento di propaganda da parte del governo nazionalista indiano. Quando vedo insegnanti di yoga leggere durante l’IYD il messaggio del Primo Ministro Modi ho un brivido… Credi che esista il pericolo per i praticanti di fare da grancassa all’hindutva, nell’ingenua convinzione che tutto ciò che arriva dall’India sia buono? 

Credo sia un rischio concreto e decisamente sottovalutato. È evidente che l’attuale governo indiano usi lo yoga in chiave identitaria, arrogandosi il diritto di stabilire cosa sia il «vero yoga» tramite il Common Yoga Protocol. È un’operazione che implica una radicale idealizzazione dell’India vedica, e in generale della tradizione hindu. Ci si rifà al «buon tempo antico», quando la società indiana era rigidamente e armoniosamente divisa in classi e aderiva ai principi del sanātanadharma, non c’erano mussulmani, buddhisti, inglesi e comunisti, tutti praticavano lo yoga, si curavano con l’āyurveda ed eseguivano la sequenza del sūryanamaskāra ogni mattina.

Ovviamente quest’India non è mai esistita; è un mito identitario al pari della Roma dei Cesari sotto il fascismo. Purtroppo, è un mito a cui credono ingenuamente anche molti occidentali poco informati e affascinati dall’India, immaginata come una terra di eterna saggezza dove tutto è «spirituale» (anche il sesso!), lontanissima dal gretto Occidente cristiano, corrotto e materialista.

Parliamo del corpo sottile: lo yoga moderno lo implica e ne disquisisce spesso come di una realtà anatomica di cui siamo dotati per nascita – spesso stabilendo rapporti più o meno plausibili con l’anatomia fisica. D’altro canto, gli studi sulle tradizioni tantriche ci mostrano una realtà più complessa, simbolica e iniziatica. È possibile un punto di incontro, oppure i modelli epistemologici sottostanti alle pratiche tradizionali sono inservibili al praticante di yoga moderno?  

Il tema del «corpo sottile» (sarebbe più corretto definirlo «immaginale» o «yogico») è un ambito in cui vediamo all’opera quelle dinamiche di appropriazione culturale di cui abbiamo appena parlato. Nelle tradizioni yogiche tantriche e nel successivo haṭhayoga il corpo immaginale è un sistema che ha senso solo se teniamo conto delle concezioni metafisiche e dottrinali delle diverse scuole; si tratta a tutti gli effetti di un modo di «incarnare» la propria tradizione di riferimento.

Il corpo yogico è infatti una realtà che viene creata dallo yogin nel rituale e nella meditazione, e si basa su un complesso processo di evocazione meditativa (bhāvanā). Nello yoga moderno questo tema viene completamente reinterpretato e spesso stravolto, secondo una modalità creativa e in certi casi dilettantistica.

In Occidente le concezioni relative al corpo sottile hanno di fatto cominciato a vivere di vita propria, svincolandosi quasi completamente dalle concezioni premoderne. Una serie di autori, a cominciare dai teosofi e da molti guru neo-hindu, hanno utilizzato il modello dei cakra, delle nāḍī, del prāṇa e della kuṇḍalinī, ed esposto in una manciata di testi antichi, come un’utile griglia simbolica che può includere ogni sorta di associazioni.

È utile dare una scorsa alla bibliografia contenuta nei manuali sui cakra oggi più venduti: oltre all’immancabile Arthur Avalon, si tratta sempre di letteratura secondaria, di autori occidentali e di guru indiani moderni, quasi mai di testi antichi. In sostanza ci si basa su una catena di interpretazioni di altre interpretazioni per operare una sorta di bricolage esoterico in cui ciascuno è libero di assemblare come meglio crede elementi eterogenei dalle provenienze più disparate: cakra, note musicali, ghiandole endocrine, tarocchi, divinità pagane, rune, arcangeli, pietre e cristalli, eccetera.

Il sistema a sette cakra, divenuto il modello oggi universalmente riconosciuto

Il sistema del corpo sottile è qui concepito, nelle sue versioni più ingenue, come un sistema perenne, innato, legato soltanto in modo accidentale alla cultura che lo ha prodotto. Si tratta di un’operazione tutto sommato innocua se si ha ben chiaro che si tratta di evoluzioni moderne che hanno soltanto una vaga relazione con i modelli antichi.

Se però riteniamo che i bestseller di Anodea Judith o di Deepak Chopra riflettano «l’antica scienza dei cakra» stiamo prendendo un grosso abbaglio. Cosa dovremmo fare dunque se volessimo praticare oggi le tecniche tradizionali di evocazione del corpo yogico? Provo a dare una risposta riferendomi alla tradizione che conosco meglio, quella del Vajrayāna, così come praticato oggi nelle scuole tibetane. È innanzitutto necessario un guru competente che, dopo averci insegnato una serie di pratiche preliminari (che richiedono anni), impartisca iniziazioni e istruzioni, e che ci guidi in un complesso processo meditativo, che solitamente comprende lunghi periodi di pratica intensiva (non basta qualche seminario di un weekend).

Questo processo prevede complesse ed elaborate visualizzazioni, il controllo del respiro e la recitazione di mantra. Ci sono molti occidentali che hanno scelto di intraprendere queste pratiche, ma in questo caso si tratta di un salto culturale notevole, dal momento che implica la conversione a una religione, e l’adesione totale a un sistema di valori.

Roots of Yoga, che hai tradotto e che uscirà in italiano nel 2019, è importante non solo per le strade che ha aperto nel rintracciare l’origine dello Yoga premoderno (oltre ad aver sfatato il mito di un’unica origine e un’unica tradizione ininterrotta), ma anche per quelle che non ha indagato o ha appena accennato. Quali sono secondo te le direzioni e le tradizioni che potrebbero essere ulteriormente indagate?

L’importanza di un’opera come Roots of Yoga è stata quella di svecchiare di almeno cinquant’anni il panorama degli studi sullo yoga, divulgando una mole enorme di traduzioni di testi originali finora noti soltanto a pochi specialisti, e includendo nella sua sterminata bibliografia tutti i migliori studi oggi disponibili sullo yoga. Si tratta di un libro che manda definitivamente in pensione testi come Yoga, immortalità e libertà di Eliade, che al confronto appare ormai irrimediabilmente datato. Mi ritengo fortunato ad avere avuto l’onore e il piacere di tradurre questo libro, dal quale non smetto di trarre suggestioni e spunti di riflessione e ricerca.

Come è ovvio, lo yoga è un fenomeno troppo complesso per poter essere trattato in modo esaustivo nell’arco di cinquecento pagine. L’opera si concentra molto sulle tradizioni medievali dell’haṭhayoga, e trascura in parte le tradizioni buddhiste (soprattutto quelle della scuola Yogācāra) che, com’è ormai assodato, hanno dato un contributo fondamentale all’evoluzione delle dottrine yogiche.

Affresco del Tempio Segreto dei Lama del Dalai vicino al Palazzo del Potala, Lhasa, Tibet.

Tu sei un tibetologo, oltre a essere un indologo. Vi sono dei collegamenti possibili tra la tradizione dello haṭhayoga e quella tibetana? Penso ad esempio a quello che oggi è chiamato Yantra Yoga (che, suppongo, nelle versioni popolarizzate abbia subito l’influenza dello yoga moderno di origine indiana)…

Così come un latinista è per forza anche un grecista, un tibetologo è per forza anche un indologo, dato che la cultura e la religione del Tibet affondano le loro radici in India. Lo yantra yoga, in tibetano trulkhor (‘phrul ‘khor), è un sistema (o meglio una serie di sistemi) di yoga fisico, che prevede l’esecuzione di differenti posture dinamiche, di tecniche respiratorie e di manovre che in alcuni casi ricordano gli āsana, i kumbhaka e le mudrā dell’haṭhayoga. Il rapporto tra i due sistemi non è affatto chiaro, e i pochi studiosi che se ne occupano non sembrano ancora essere giunti a conclusioni definitive.

Lo yantra yoga è una pratica a tutt’oggi segreta, legata alle fasi più avanzate dello yoga tantrico, e come tale riservata agli iniziati, che si impegnano a non divulgarne i dettagli. Alcuni pionieri, come Namkhai Norbu e Tenzin Wangyal, hanno deciso di insegnare a un pubblico più vasto almeno una parte di questi esercizi, ma in molte altre scuole (come ad esempio le scuole Kagyu) sono ancora pratiche vincolate rigidamente al segreto iniziatico. So che nel 2019 verrà pubblicato uno studio di Ian Baker, intitolato Tibetan Yoga, che probabilmente chiarirà alcuni punti oscuri e farà certamente discutere. In un futuro più o meno prossimo molte tradizioni di pratica dello yantra yoga avranno certamente una diffusione più ampia, e forse seguiranno il destino di molte pratiche yogiche indiane, che sono uscite ormai da tempo dalla dimensione esoterica e iniziatica.

Sarà interessante osservare questa fase di passaggio, e le eventuali trasformazioni e adattamenti che subirà la pratica nel momento in cui a coltivarla non saranno più yogin buddhisti in ritiro ma praticanti laici occidentali. Chissà se anche in quel caso ci sarà una corsa al marchio registrato…

Un’ultima domanda: ci sarebbe quella faccenda delle campane tibetane… 

…le famose campane tibetane che i tibetani non conoscono! L’ambiente dello yoga e delle spiritualità alternative, il mondo olistico e i centri benessere risuonano costantemente delle loro «vibrazioni». Un fatto è certo: queste campane non sono utilizzate né hanno una funzione particolare all’interno dei rituali o delle pratiche religiose tibetane tradizionali. Sfido chiunque a dimostrare il contrario.

Si tratta ancora una volta di un fenomeno innocuo e tutto sommato divertente di appropriazione culturale: oggetti di fabbricazione nepalese (penso fossero usate come ciotole) hanno catturato l’immaginario occidentale con il loro esotico tintinnio, e frotte di hippie di ritorno da Kathmandu le hanno fatte conoscere al mondo.

Attribuire a questi manufatti una remota antichità, immaginare che venissero usate nei monasteri del «mistico Tibet» per espandere la coscienza, impiegarle nei «massaggi sonori», magari collegandole ai vari cakra (rigorosamente sette, anche se i tibetani utilizzano in genere sistemi di quattro), può giustificare in parte il loro prezzo esorbitante, e permette di aggiungere al nostro bricolage spirituale un elemento esotico di sicuro impatto.

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Se non sai stare seduto, non hai mai praticato yoga

22 Agosto 2018 by Francesco Vignotto Lascia un commento


Sono belle le inversioni, gli equilibrismi sulle mani, il fluire delle sequenze con l’alternarsi del respiro, le argute soluzioni posturali. Ma se la pratica non porta a sentirsi comodi nella posizione seduta, riposando in sé stessi, rimarrà ben poco nella fretta di rialzarsi.

Le posizioni sedute sono le āsana più antiche dello yoga. A quanto ne sappiamo (ne abbiamo parlato altrove), il termine stesso āsana indicava originariamente un modo di sedersi per la meditazione e il controllo del respiro, e solo successivamente il termine avrebbe incluso posture che hanno scopi terapeutici e preparatori.

Sedersi è l’alfa e l’omega e contiene in sé tutti i suoni dell’alfabeto dello yoga. Tutta la pratica e la sua efficacia dipende da come ci si siede prima, dopo e durante.  Forse non ha nemmeno tanta importanza quale tra le posizioni meditative codificate scegliere, e varrebbe lo stesso stare su una sedia: conta il gesto, essenziale, di stare. Né distesi nell’abbandono passivo alla terra, né nel farsi attivo della posizione: stare seduti è, corporalmente, l’equivalente della pausa nel respiro. Se non vi fosse ascolto a questa fase, tutto si risolverebbe in un rimbalzo tra inspiro ed espiro, non rimarrebbe spazio per l’intuizione dello spazio.

Eppure, incontriamo molto spesso praticanti con diversi anni di esperienza – e con notevole mobilità – che non sono in grado di sedersi per pochi minuti, anche se con facilitazioni: al netto delle difficoltà fisiche, la loro mente, come tutte le menti, ha bisogno di un corpo che si muove. Solo, non è stato insegnato loro a osservare questo fenomeno invece di perdervi la testa, e a non credere alla fase acuta dell’insofferenza, perché il gioco dell’anticipazione mentale prelude all’inaspettato, all’ascolto reale.

Con il dovuto tatto e la dovuta decisione, riteniamo che il compito dell’insegnante è dimostrare che il mostro non esiste, più che creare nuove distrazioni per far sì che l’allievo guardi dall’altra parte. Il problema è che spesso queste posizioni vengono percepite – in primo luogo dagli insegnanti stessi – come ‘tempi morti’ tra una cosa e l’altra da fare, sottovalutandone peraltro gli effetti psicofisici addirittura superiori rispetto agli altri e più giovani āsana.

In realtà, tutto ciò che è essenziale nello yoga accade proprio ora, forse proprio perché sono momenti che il comune modo di pensare ritiene morti. È tutt’altro che una glorificazione dell’ozio, è come accorgersi che lo spazio che si riteneva vuoto è invece vivo. Perché se non si capovolge prima la prospettiva, care yogini e cari yogi, è del tutto inutile che capovolgiate il corpo.

Per questo, a chi ci domanda cosa fare quando è solo, ci sentiamo di dire: siedi in una qualunque posizione a gambe incrociate o sui talloni (quella nella foto è siddhāsana, ma puoi anche allentare le gambe). Usa anche un cuscino o due se ti può aiutare. Come detto, può anche andare bene una sedia, purché la schiena non si appoggi. Possibilmente, il peso che scivola verso la zona genitale e le cosce, la testa sopra il bacino, spalle e scapole a riposo, che scivolano naturalmente aprendo un leggero spazio nel petto. Rimani qualche istante ad ascoltare, senza cercare di elevarti volitivamente, e senza accasciarti: in equilibrio tra il peso deposto nel suolo e l’aria in cui si erige la colonna. Non correggere nulla. Tutto ciò che arriva può essere ascoltato, compresa la voglia di muoversi.

Quando non c’è più alcuna differenza tra andare e restare, allora può arrivare il momento di muoversi verso qualcos’altro. Ma se non sai stare in una posizione seduta, non hai mai fatto yoga.

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Se nello yoga cerchi l’onnipotenza

17 Maggio 2018 by Francesco Vignotto Lascia un commento

Sono alto 6 metri e tutto è importante
Sono alto 9 metri e tutto è più che importante
Sono alto 12 metri e tutto è inconcepibile
Nutri il mio ego!
Nutri il mio ego!
Nutri il mio ego!
Nutri il mio ego a go go

Einstürzende Neubauten, Yu Gung

Qualche anno fa, una persona mi confessò di aver abbandonato lo yoga quando la sua insegnante morì di cancro, perché non riusciva ad accettare che una persona così devota alla pratica e così attenta a un’alimentazione sana avesse potuto soccombere alla malattia.

Le aspettative nello yoga possono essere molto alte – anche se non sempre così alte – in particolar modo riguardo alla salute, ma in generale alla capacità di andare oltre i limiti, che viene sempre esaltata.

Quando si intrecciano con poca chiarezza aspirazioni spirituali e tensione verso il benessere, slanci morali e istanze igieniche, è facile cedere alla suggestione che ci si possa sottrarre al normale decorso della vita, così come alle regole di comune convivenza o alle leggi della fisica. La delusione di tali aspettative implica spesso una vera e propria perdita di fede, o, specularmente, il rifiuto dell’evidenza. Come alla morte dello Starec Zosima nei Karamazov, si domanda al proprio cadavere di non puzzare.

L’idea che lo yoga comporti una superdotazione, come vedremo, è probabilmente antica come lo yoga stesso. Certo, oggi in pochi pretendono miracoli eclatanti come l’ubiquità o la possibilità di attraversare i le pareti. Ma poco cambia che si tratti della felicità che tanta iconografia giuliva suggerisce, del successo materiale o della potenza sessuale, della liberazione dei potenziali umani e del superamento dei propri limiti, o ancora, come accennato, della guarigione fisica o spirituale: il calcolo che la benedizione valga bene una messa è inevitabile, ma non è la questione cruciale.

Il problema, a monte, è stabilire se l’oggetto di ricerca dello yogi possa essere considerato un oggetto. Alzando leggermente il livello, anche la ricerca di autorealizzazione – qualunque cosa si inserisca in questo contenitore: santità, unione con l’assoluto, successo personale e sbandamento dei nemici – non muta i termini della questione, se non si rimette in discussione grammaticalmente il soggetto che cerca.

In altre parole, se l’obiettivo è qualcosa, fosse anche la dissoluzione stessa dell’ego, si finisce per dare per acquisita e prendere troppo sul serio la sostanza del chi, rinforzandone anche i tratti patologici in proporzione all’investimento di energie. Alcune possibili conseguenze sono ben descritte in un articolo di Christopher Wallis dal titolo molto eloquente: How yoga can turn a jerk into an even bigger jerk.

In altri termini, se l’obiettivo è qualcosa di oggettivabile, lo yoga può essere strumentalizzato indipendentemente dall’orientamento – e per orientamento si intende qui la chiarezza di una direzione, non garantita dalle chiacchiere su osservanze e astinenze di cui ci si ama ornare come di un ciondolo di Ganesha o di un tatuaggio della sillaba OM.

Il tema è arduo in un’epoca che non contempla ciò che non produce e non è impugnabile come strumento di autoaffermazione. Si ricorre spesso nel paradosso dell’attore di successo che folgorato dalla non dualità concede interviste in cui afferma di non esistere, diventando l’idolo della sempre più vasta nicchia degli intenditori di spiritualità.

Le esigenze e le manifestazioni dello yoga globalizzato potranno quindi sembrare forse triviali e prosaiche rispetto a quanto esposto di seguito, che riguarda prevalentemente la tradizione premoderna, da cui ci separa un contesto socioculturale del tutto diverso e, probabilmente, una tempra non comparabile.

Eppure, il dilemma che emerge è lo stesso, stessa è la tentazione o l’abbaglio di reificare e di appropriarsi dei risultati dello yoga, e non sempre, come giustamente osserva Wallis nell’articolo citato più sopra, i testi hathayogici esprimono una posizione chiara sull’orientamento, concentrandosi sull’esposizione di tecniche e su compensi iperbolici, quasi si trattasse per il singolo praticante di conquistare o di distruggere il mondo a proprio piacere premendo i tasti giusti.

È perciò proprio in questa ambiguità che ci muoveremo, un’ombra che cammina da lungo tempo accanto allo yoga, ad avvertirci che non c’è nessuna tecnica che in sé può chiarificare e integrare le oscurità che ognuno reca in sé. Nessuna pillola può aiutarci in questo, nessuna mudra e nessuna ripetizione di mantra, finché c’è qualcuno che dà se stesso per scontato.

Contenuti

  • Le siddhi, ovvero, a un passo dall’onnipotenza
  • L’ardore
  • Esibire le siddhi
  • La perfezione del corpo, lo yoga come spettacolo
  • Conclusioni

Le siddhi, ovvero, a un passo dall’onnipotenza

Il termine siddhi indica etimologicamente un conseguimento, uno stato di perfezione. La siddhi suprema è la realizzazione dello yoga e in alcuni casi essa coincide con l’abbandono volontario del corpo. In termini più ristretti, siddhi può indicare la perfezione di una tecnica, oppure uno dei tanti poteri sovrannaturali che emergono dalla pratica.

Ma quando sono assorti nello yoga (yukta), gli yogi, che sono superiori a noi, che ricevono la grazia di una qualità prodotta dallo yoga, assumono la capacità di vedere correttamente la natura del proprio sé e degli altri, etere, spazio, tempo, aria, atomi e menti, di qualità, azioni, universali e particolari che sono inerenti in queste cose, e dell’inerenza.

Inoltre, gli yogi che sono eccezionalmente impegnati nello yoga (viyukta), come risultato di una capacità che sorge grazie a una qualità prodotta dallo yoga dopo il disegno di quattro fattori, possono percepire cose che sono sottili, nascoste o lontane.1Praśastapāda’s Padārthadharmasaṃgraha commentary on Vaiśeṣikasūtra 8.12.2.1. 24, in J. Mallinson – M. Singleton, Roots of Yoga, Penguin, 2017

È tuttavia riduttivo relegare le siddhi nell’ambito dei poteri magici o della capacità di compiere miracoli. Al di là delle credenze popolari e degli elementi fantastici in cui sono immerse le figure leggendarie degli yogin, le siddhi rientrano nel loro particolare modo di integrarsi nel mondo e di conoscerlo,2Vedi Gioia Lussana, ‘Come lo yogi conosce il mondo’, in La dea che scorre: la matrice femminile nello Yoga tantrico, OM edizioni, 2017 di farsi compendio vivente di macrocosmo e microcosmo, trascendendo le normali leggi naturali.

In ogni caso, nella letteratura yogica premoderna, è raro che si metta in discussione che lo yoga comporti l’insorgere di qualità straordinarie. È una tuttavia una preoccupazione ben più costante stabilire se tali qualità siano un obiettivo plausibile della pratica dello yoga, o una loro premessa, oppure un loro sottoprodotto più o meno desiderato e desiderabile.

Patanjali, ad esempio, pur elencando ampiamente nel libro III degli Yoga Sutra numerose siddhi che insorgono dalla concentrazione su svariati oggetti, nel sutra 37 avverte che i poteri sono tali solo quando insorgono in una mente attiva, mentre sono ostacoli quando lo yogi è assorbito nel samadhi.

In ambito tantrico, del resto, è comune la distinzione tra coloro che cercano i poteri – anche per la soddisfazione di desideri personali – e coloro che cercano la liberazione. I primi generalmente sono asceti, mentre i secondi sono laici. Non deve stupire che la maggior parte dei testi tantrici siano rivolti a questi ultimi e contengano descrizioni estese di metodi diretti per ottenere poteri sovrannaturali. Come afferma Abhinavagupta nel Tantraloka:

Coloro dunque che hanno dedicato i loro esercizi ai vari principi come la terra, ecc., conseguono soltanto i vari poteri ( siddhi ) [ad essi collegati]. La frequentazione dei luoghi sacri serve invece alla liberazione.

L’ardore

Le più antiche testimonianze sulle siddhi non possono essere scisse dalla nozione tapas (letteralmente, ‘ardore’), ovvero dalle pratiche di austerità di cui offrono testimonianze il Mahabharata, il Ramayana e i purana, e grazie alle quali gli asceti si avvicinano agli dèi e talvolta destano in questi ultimi preoccupazione.

Queste pratiche possono contemplare tanto il voto del silenzio, quanto mantenere un braccio sollevato anche per diversi anni (perdendone l’uso), trascorrere molte ore al giorno in acqua o in posizioni complesse sotto il sole, digiunare o cibarsi di sola frutta. Le austerità, come rilevano gli studi etnografici in corso di Daniela Bevilacqua per lo haṭhayoga Project,3Daniela Bevilacqua, Let the Sādhus Talk. Ascetic practitioners of yoga in northern India sono tutt’oggi un elemento fondante dello haṭhayoga presso i sadhu appartenenti alle tradizioni più antiche.

Il concetto di tapas non si riferisce solamente alla prassi in sé, ma anche all’attitudine di offrirsi interamente alla pratica, mossi dalla volontà di bruciare le impurità e l’ignoranza a qualsiasi costo. Pertanto, il tapas può essere trasposto anche nella ritenzione del respiro o nella meditazione. Queste pratiche sono altrettanto foriere di siddhi.

Esibire le siddhi

Yogi Pullavar levita, 1936

Se da grandi rinunce derivano grandi poteri, da grandi poteri è difficile non essere irretiti. Non solo perché, come abbiamo già visto, le siddhi possono essere una distrazione in relazione agli autentici obiettivi dello yoga; il problema si complica quando il potere è pubblicamente esibito.

Il Dattātreyayogaśāstra, uno dei primi trattati dedicati interamente allo haṭhayoga, raccomanda di evitare la pubblica esibizione delle siddhi, e di mostrarsi tra la gente come una persona semplice.

“Altrimenti, [lo yogi] sicuramente acquisirà molti discepoli, e costoro si sentiranno obbligati a chiedere a quel signore tra gli yogi di risolvere i loro vari problemi. Occupato a risolverli, egli [lo yogi] dimenticherà la propria pratica. Trascurando la sua pratica diventerà un uomo ordinario.”4Dattātreyayogaśāstra 99–107, in J. Mallinson – M. Singleton, Roots of Yoga, Penguin, 2017

Più possibilista, il Pañcārthabhāṣya ammette che le siddhi possano essere utilizzate per attrarre gli allievi, anche se mette in guardia dal diffondere l’idea che possano essere acquistati per denaro.5Pañcārthabhāṣya, 1.20.26

Di quali e quanti avvertimenti possiamo far tesoro oggi, quando la linea tra il mostrare e l’esibire non è mai stata così sottile e la sovraesposizione del corpo degli insegnanti non ha mai avuto così tanti strumenti a disposizione; dove i pericoli di un rapporto disfunzionale tra insegnante e allievi non sono più limitati a ristrette cerchie; e dove, infine, la compravendita di doti straordinarie, di poteri terapeutici e di attestazioni direttamente ‘da antiche conoscenze’ è prassi comune?

Ma per trovare l’anello mancante tra i poteri sovrannaturali delle siddhi e il carisma che emana dalle abilità eminentemente fisiche nello yoga globalizzato occorre procedere per ordine e cogliere un tassello mancante.

La perfezione del corpo, lo yoga come spettacolo

Strana sorte quella degli yogin. Tra il medioevo e il XIX secolo furono noti soprattutto come temibili asceti combattenti che insidiavano le rotte del commercio nell’India del Nord.

Alla fine dell’800, la figura dello hathayogi era popolarmente associata al mendicante che si esibiva in contorsioni e altre stravaganze, come sdraiarsi su un letto di chiodi o farsi seppellire vivo. Tali esibizioni suscitavano sentimenti misti di curiosità e di disprezzo sia da parte degli occidentali, sia da parte della cultura hindu ufficiale.

Era difficile prevedere che, di lì a poco, con il risorgere del sentimento nazionale indiano, la fisicità dello haṭhayoga sarebbe tornata in auge proprio in risposta allo stereotipo coloniale, che rappresentava l’intera popolazione indiana spiritualmente e fisicamente inferiore, e per questo bisognosa della guida britannica.

La nuova siddhi sarebbe diventata la perfezione del corpo: forza fisica, estrema flessibilità, salute. Le influenze di discipline fisiche indigene ed esotiche, di allenamenti militari e della medicina occidentale ebbero un ruolo non secondario in ciò, come documentato da Mark Singleton in The Yoga Body.6Mark Singleton, Yoga Body: The Origins of Modern Posture Practice, Oxford University Press, 2010

Proprio all’alba di questa rinascita, negli anni ‘20 del secolo scorso, troviamo il suo principale protagonista, Tirumalai Krishnamacharya. Il futuro maestro del palazzo di Mysore fatica a trovare studenti ed è impiegato in una piantagione di caffè, ma viaggia di continuo per dare pubbliche dimostrazioni e lezioni di yoga. Fernando Pagéz Ruiz, in un articolo del 2007 su Yoga Journal, rievocò quel periodo:

Krishnamacharaya cercò di popolarizzare lo yoga dimostrando le siddhi, le facoltà supernormali del corpo yogico. Queste dimostrazioni, pensate per stimolare l’interesse verso una tradizione in declino, includevano la sospensione del battito cardiaco, fermare macchine con le mani nude, eseguire āsana complesse e sollevare oggetti con i suoi denti. Per insegnare alla gente lo yoga, Krishnamacharya riteneva di dover prima avere la loro attenzione.

Alla luce degli elementi innovativi e spesso circensi che Krishnamacharya introdurrà negli anni Trenta, Singleton giudica altamente probabile che “l’elevata spettacolarizzazione delle āsana praticata dai suoi allievi maggiori negli anni a seguire avesse una funzione similare e rientrasse nel diffuso tema del ‘moderno uomo forte’.”

Gli ‘allievi maggiori’ di Krishnamacharya furono BKS Iyengar e Pattabhi Jois; mentre Krishnamacharya si dedicò in seguito a una forma di insegnamento più intima e privata, i contributi di Iyengar e Jois sono la matrice di ciò che negli anni a seguire, con un altro colpo di scena imprevedibile, sarebbe diventato lo yoga globalizzato che oggi conosciamo.

Conclusioni

Kino MacGregor, una delle più famose star dello yoga globalizzato.

Ritengo che questa parziale e incompleta panoramica sulle siddhi, vere o presunte, in senso stretto o lato, tenute nascoste o esibite, ci possa aiutare a riflettere. Molti sono gli interrogativi che possono essere attualizzati e trasposti, mutatis mutandis, anche nel contesto della pratica e dell’insegnamento odierno.

Oggi il pubblico dello yoga non è più una selezionatissima platea pronta a tutto, e per questo, sotto diversi aspetti, è più vulnerabile all’idea di affidarsi a scorciatoie che possano risolvere i propri problemi.

Ai complessi e ancora poco esplorati rapporti con le dottrine di origine, si aggiunge una relazione non sempre funzionale con il paradigma medico scientifico e con il principio di autorità (vedi i dettagliati elenchi di effetti terapeutici che i manuali elencano con invidiabile sicurezza, ma con scarse o nulle evidenze), oltre che con i modelli estetici propri della cultura fisica e con le esigenze di pubblicità e di spettacolarizzazione.

Tuttavia, proprio perché lo yoga sfiora oggi tutti questi campi ma è anche – o soprattutto – qualcos’altro, proprio perché, almeno negli intenti, abbraccia trascendenza e immanenza al tempo stesso, l’ideale di superdotazione rimane ancora un sogno mostruosamente inconfessabile, un abbaglio perennemente possibile.

Un sonoro bagno di realtà è sempre una benedizione, finché persiste l’illusione di essere padroni del proprio destino, finché i sogni di onnipotenza non si dissolvono nel riconoscimento della propria impotenza, in cui davvero tutto diviene possibile, ma non come previsto.

Note[+]

Note
↑1 Praśastapāda’s Padārthadharmasaṃgraha commentary on Vaiśeṣikasūtra 8.12.2.1. 24, in J. Mallinson – M. Singleton, Roots of Yoga, Penguin, 2017
↑2 Vedi Gioia Lussana, ‘Come lo yogi conosce il mondo’, in La dea che scorre: la matrice femminile nello Yoga tantrico, OM edizioni, 2017
↑3 Daniela Bevilacqua, Let the Sādhus Talk. Ascetic practitioners of yoga in northern India
↑4 Dattātreyayogaśāstra 99–107, in J. Mallinson – M. Singleton, Roots of Yoga, Penguin, 2017
↑5 Pañcārthabhāṣya, 1.20.26
↑6 Mark Singleton, Yoga Body: The Origins of Modern Posture Practice, Oxford University Press, 2010
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Yoga: Spazio: Silenzio

18 Gennaio 2018 by Zénon

Guarda una tazza o un recipiente senza vederne le pareti o la materia. In breve tempo, prendi coscienza dello spazio.

Vijnabhairava Tantra, 59

La pratica dello Yoga rischia spesso di trasformarsi in una lotta contro sé stessi, inseguendo l’idea di dover conquistare qualcosa: una posizione, un movimento sinuoso, il controllo del respiro o della mente.
 
Tuttavia, ogni vittoria è destinata a durare fino al riaffiorare del conflitto, della stessa tensione sotto altre spoglie: voler diventare qualcos’altro, il rifiuto di ciò che è.

In questo seminario daremo quindi una chance all’idea opposta: che lo Yoga sia piuttosto lasciarsi conquistare. Che l’accento possa cadere sugli spazi invece che sui ‘pieni’, ovvero su quelle sensazioni di apertura percepibili anche nell’incontro con il limite, se lo si accetta invece di volerlo normalizzare.

L’ascolto del corpo come spazio e della contiguità con lo spazio esterno potrà così maturare nel presentimento di uno spazio ‘anteriore’, sottostante, in cui il gesto, il soffio o il pensiero non sono più disturbo o negazione di un silenzio da difendere, ma parte stessa del silenzio fondamentale che non può essere scalfito.

Accanto all’approfondimento di āsana e prāṇāyāma, presenteremo per la prima volta in un seminario a Zénon la pratica del Tandava, in cui il movimento è dettato non dalla memoria di un percorso predeterminato, ma dall’ascolto tattile del contatto con lo spazio, danzando attraverso il sottilissimo confine tra movimento e quiete.


Il programma della giornata

9:30 – 11:30 Il corpo come spazio: pratica corporea e percezione del vuoto.
11:45 – 13:00 Lo spazio del respiro. Prāṇāyāma.
15:00 – 16:00 Danzare con lo spazio. Tandava.
16:15 – 18:00 Dal Prāṇāyāma al silenzio. Meditazione.

Per la partecipazione, è richiesta un’esperienza di base nella pratica dello Yoga.


Gli insegnanti

Il seminario sarà tenuto dall’insegnante di Zénon Francesco Vignotto.


Contributo di partecipazione

Il costo della giornata è di 80 €.


Per iscriversi e per informazioni

Ci puoi contattare al 349 246 2987.
Oppure puoi scriverci con questo modulo:

[contact-form-7 id=”7311″ title=”Seminario Yoga Spazio Silenzio”]

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[SERATA A INGRESSO LIBERO] Il Mantra OM

19 Dicembre 2017 by Zénon Lascia un commento

Giovedì 21 dicembre alle ore 19:30 presso Zénon in via XXIII marzo 1849, 17 a Novara terremo una serata dedicata al mantra OM, tra canto e meditazione, con una introduzione su respiro e ascolto del suono.

La serata è a ingresso libero, ma è richiesta la prenotazione.

[contact-form-7 id=”3950″ title=”Danzaterapia”]

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