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Zénon | Yoga e Qi Gong

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respiro

Ridimensionando lo Iyengar che è in me

22 Ottobre 2018 Francesco Vignotto


Ovvero dell’autorità, dell’idealismo, dell’irrealizzabile perfezione che sfugge sempre più in là per chi cerca di allinearsi a un solo piano.

C’è un’immagine che mette a confronto il giovane B. K. S. Iyengar del 1934 e quello ottuagenario del 2003. Il titolo celebra quasi sovieticamente i progressi compiuti negli anni nel perfezionare Utthita Trikonāsana, la posizione estesa del triangolo:

Non possiamo conoscere ciò che è accaduto interiormente all’autorevole insegnante nel lasso di tempo che separa le due immagini. Quello però che risalta – e probabilmente è intenzione degli illustratori evidenziare – è che abbia esteso la posizione al limite della stabilità, che tutto sia, fisicamente parlando, ‘di più’ nel tentativo di oltrepassare i limiti fisiologici attraverso il corpo stesso.

L’insegnante di fama mondiale del 2003 sembra anzi quasi essere riuscito a realizzare la sua stessa direttiva, secondo cui in questa posizione “il dietro delle gambe, del petto ed i fianchi dovrebbero essere su una sola linea”.1B. K. S. Iyengar, Teoria e pratica dello Yoga (Light on Yoga), Mediterranee, 199 L’indicazione è anatomicamente improbabile e biomeccanicamente esasperata, ma è perfettamente rappresentativa, nel bene e nel male, della personalità di Iyengar; nondimeno, essa è presente in maniera più o meno letterale su moltissimi manuali di āsana che mi sia capitato di consultare, tanta è stata l’influenza del maestro di Pune.

A quanto mi sia dato sapere (ma sono pronto a essere smentito) non abbiamo raffigurazioni o descrizioni di questa posizione prima dello Yoga Posturale Moderno. Tuttavia, prima del paradigma imposto da Iyengar sembra che Trikonāsana fosse più simile alla versione del ’34 che a quella del 2003. Qui, ad esempio, il suo maestro Krishnamacharya:2La prima immagine è tratta dal suo Il nettare dello yoga, a cura di Marco Passavanti, Ubaldini, 2013

Tra le esecuzioni ‘alternative’ di Trikonāsana, quella di Swami Satchidananda appare particolarmente ‘involuta’ secondo gli standard odierni:

Secondo la testimonianza di una allieva (qui), nello Integral Yoga Institute fondato dallo stesso Satchidananda la posizione è oggi praticata in maniera più simile alla versione ‘estesa’ (Utthita) di Iyengar.

Non è intenzione di questo articolo stabilire cosa sia corretto e cosa sia sbagliato, anche perché il mio personale parere è che la stessa posizione offra ampi margini di creatività nel momento in cui viene suonata da strumenti diversi.

Tuttavia, sarebbe un vero peccato se una estrema varietà di approcci andassero persi nel tempo per uniformarsi a un modello dominante. E se vi è un paradigma che ha dominato nella pratica dello yoga moderno posturale è quello massimalista, secondo cui gli effetti (benefici) di una posizione sono proporzionali alla sua espressione fisica, alla sollecitazione quantitativa del corpo e alla definizione dettagliata dei suoi allineamenti.

Sicuramente, B.K.S. Iyengar è uno dei maggiori artefici e responsabili di questo filone. La sua autorità ha anzi assunto con gli anni un carattere prescrittivo spesso categorico. Iyengar ha anche alzato sensibilmente gli standard performativi, per cui tutto ciò che passa al di sotto dell’asticella alzata appare preparatorio e compensatorio, incompleto, ‘in vista di’ colmare l’handicap.

Per questo, oggi, da bravi studenti allevati a Light on Yoga (lo è stato anche chi scrive), quando vediamo la Trikonāsana di Krishnamacharya o di Satchidananda non possiamo evitare di notare la gamba destra leggermente flessa, il bacino visibilmente ruotato o la povertà nell’apertura delle gambe. Siamo abituati a un rigore formale assoluto, difficilmente ci sfiora l’ipotesi che quelle apparenti irregolarità o ristrettezze siano proprio ciò che rende vitale la posizione. Ma viverla, la posizione, non è possibile, quando è tutto posticipato a quando ogni particolare sarà al suo posto.

Intendiamoci: l’icona di Iyengar ha avuto un’importanza innegabile nella diffusione e nella evoluzione dello Yoga Posturale Moderno e sicuramente la sua eredità è imprescindibile. L’uomo che emerge dalle testimonianze e dal lavoro, anche al netto delle intemperanze di cui parleremo più sotto, è sicuramente in buona fede e dotato di una tempra e una determinazione non comuni  (ben più pesanti sono, ad esempio, le ombre che gravano sul suo co-allievo di gioventù e alter ego Patthabi Jois, recentemente al centro di un #metoo interno al mondo dello yoga che in Italia ha ricevuto poca eco).

Tuttavia, proprio perché l’influenza di Iyengar è stata unidirezionale verso un ‘di più’ dal quale sembra difficile far ritorno (e anche le varie modalità restorative lo sono in riferimento al suo standard), ritengo che vi siano alcuni aspetti del suo lascito da storicizzare e da leggere nel quadro della sua biografia, invece che in quello atemporale della autorità indiscussa (il famoso ‘because Iyengar’, che indica qualsiasi direttiva ormai entrata nella prassi comune yogica che non ha alcuna altra evidenza tranne l’autorità del maestro di Pune).

È insomma legittimo domandarsi se davvero la sua Trikonāsana sia il punto di arrivo, o ciò che è desiderabile per il corpo di ognuno.

Un contorsionista di inizio ‘900 a confronto con B. K. S. Iyengar. I complessi rapporti tra lo Yoga Posturale Moderno e la cultura fisica indiana e occidentale sono stati affrontati da Mark Singleton in Yoga Body: the origin of modern postural practice (2010, di prossima pubblicazione in italiano presso Mediterranee), da cui queste immagini sono tratte.

“Su una sola linea”

Quando si afferma che Iyengar ha portato la pratica delle āsana a livelli mai prima raggiunti, occorre considerare che ciò è spesso stato tragicamente.

In primo luogo, perché la preminenza abnorme della āsana nello yoga, che oggi si imputa spesso alle commercializzazioni occidentali, ebbe proprio in Iyengar il principale artefice. Fu solo in un secondo momento che Iyengar sovrappose al proprio metodo di lavoro la soteriologia degli Yoga Sutra di Patanjali, che di per sé non si occupano di āsana se non fugacemente e in modo preliminare,  e che Iyengar lesse solo negli anni Sessanta, quando iniziò la stesura di Light on Yoga (il celebre Teoria e Pratica dello Yoga).

Iyengar non fu l’unico ad appellarsi all’autorità di Patanjali senza variare l’approccio essenzialmente posturale – come ha notato Singleton si tratta anzi di un tòpos molto comune nello yoga moderno per autolegittimarsi e rivendicare l’appartenenza alla tradizione – ma la sua enorme influenza ha contribuito più di altri a creare uno scollamento tra teoria e pratica gravido di dissonanze.3Vedi Eric Shaw, Seizing The Whip, citato più oltre, ma anche, per quanto riguarda il clima culturale in cui Iyengar ricevette la propria formazione, il fondamentale Yoga Body di Mark Singleton.

Scuola Iyengar di Pune, 2006, da Michael O’Neill, Sullo Yoga: l’architettura della pace, Taschen, 2015

In secondo luogo, l’avanzamento iyengariano fu tragico perché impose un’idea di allineamento intrinseco delle āsana (è il corpo che si deve adattare alla posizione) basata su principi che non trovano riscontro nella realtà biomeccanica del corpo umano. Alcuni mesi addietro, Leslie Kaminoff,  autore del celebre Yoga Anatomy, propose una revisione di questa nozione di allineamento, anche a fronte del non-più-segreto numero crescente di insegnanti di yoga che ogni anno si sottopongono a operazioni di sostituzione dell’anca:

Negli ultimi 62 anni in America, un sistema di insegnamento delle āsana – quello di Iyengar – ha mantenuto un monopolio virtuale nella conversazione su ciò che costituisce il corretto allineamento nelle āsana. Dal mio punto di vista, i tempi sono maturi per mettere in discussione l’assunto che le direttive idealizzate e geometriche siano lo scopo ultimo delle āsana yogiche. Se non vi sono linee rette nel corpo, perché cerchiamo sempre di “squadrare il bacino” o “mettere i piedi in parallelo”?

Come Kaminoff osserva, tale impostazione rispondeva al punto di vista adottato da Krishnamacharya negli anni Trenta del secolo scorso, durante la formazione di Iyengar; ironicamente (e l’ironia apparirà feroce alla luce di quanto narrato in seguito), negli anni Sessanta, proprio durante l’ascesa mondiale di Iyengar, lo stesso Krishnamacharya cambiò radicalmente prospettiva (è la pratica che si deve adattare alla persona), dedicandosi unicamente all’insegnamento individuale.

Ovviamente, nello yoga esistono molte pedagogie, ognuna delle quali si basa su presupposti differenti e potenzialmente discutibili, e il metodo Iyengar codificato negli anni ha elaborato le sue strategie e i suoi protocolli per adattare la pratica a un vasto pubblico da parte di insegnanti qualificati.

Tuttavia – sia concessa un’altrettanto discutibile osservazione – l’adozione di protesi e supporti, in questo quadro di riferimento, non parte dai migliori dei presupposti, ovvero che il comune praticante sia in partenza menomato di fronte all’archetipo irraggiungibile della postura.

Intemperanze

Per comprendere meglio l’origine della psicologia iyengariana e la sua popolarizzazione, è interessante andare a rileggere il documentato ritratto di Eric Shaw, basato sulle memorie stesse di Iyengar, in cui emerge il travagliato rapporto proprio con il mentore e maestro Tirumali Krishnamacharya (d’ora in poi indicato anche come K.).

Quale marito di sua sorella, nel 1934 Krishnamacharya accettò di prendere sotto la propria tutela l’allora quindicenne Iyengar e divenne la sua sola figura paterna. A quell’epoca, K. era al servizio del maharaja Navaldi Wadiyar di Mysore per il quale svolgeva opera di educazione e propaganda della cultura fisica indiana, di cui il neo haṭhayoga dell’epoca era espressione.

K. in quegli anni era noto tra i suoi studenti per avere un carattere molto difficile. Poteva chiedere di assumere qualsiasi āsana in qualsiasi momento, e l’allievo era costretto a obbedire. Se commetteva un errore, le punizioni andavano dalle percosse al digiuno forzato. Ma la violenza di K. poteva manifestarsi benissimo senza alcun motivo apparente. Secondo le testimonianze di numerosi allievi dell’epoca, Iyengar compreso, il suo comportamento era del tutto imprevedibile, e questo alimentava ancor di più il clima di terrore che lo circondava.

B. K. S. Iyengar e Krishnamacharya, da adulti.

Iyengar, vivendo con lui ed essendo obbligato ad obbedirgli secondo gli stringenti vincoli familiari indiani, non disponeva di margini per sfuggire alle sue angherie, che si prolungavano anche tra le mura domestiche, tanto che in una occasione tentò il suicidio.

In realtà, Krishnamacharya concesse a Iyengar solo pochissime lezioni effettive, tutte incentrate sulle āsana. Secondo lo stesso Iyengar, il maestro non scese mai negli aspetti più sottili della disciplina, né in dettagli filosofici. Più tardi, pur riconoscendo K. come suo maestro, rivendicò che il proprio insegnamento fosse frutto di ciò che aveva imparato da solo.

Nonostante avesse ricevuto poche istruzioni dal maestro, Iyengar, grazie al suo impegno infaticabile e solitario, venne coinvolto nelle innumerevoli dimostrazioni pubbliche che K. teneva per conto del proprio mentore. Shaw riporta che nel 1935, a Madras,

Krishnamacharya gli chiese di eseguire Hanumāsana, la spaccata frontale completa, ma Iyengar protestò che la sua biancheria intima non glielo permetteva. “Era stata cucita con tanta fermezza dai sarti che nemmeno il dito di una mano poteva attraversarla.” K. rimase inamovibile e chiese delle forbici. La biancheria fu tagliata. Iyengar eseguì la posa. Si strappò entrambi i muscoli posteriori delle cosce: “Non potei camminare per due anni”.

Secondo Shaw, gli abusi di Krishnamacharya furono perdonabili e di natura minore, imputabili al carattere difficile e autoritario del maestro. Tuttavia, “ebbero riverberi duraturi nello Yoga Moderno attraverso i loro effetti sul suo allievo più famoso”.

La tesi di Shaw è infatti che il tormentato rapporto con Krishnamacharya avrebbe alimentato il perfezionismo maniacale del giovane Iyengar, che dedicandosi alla pratica delle āsana per dieci ore al giorno (“Asana is my deity” dichiarerà più tardi4Iyengar, B. K. S., 2000-08, Astadala Yogamala (Collected Works), vols. 1, 5, 6, 7 : Articles, Lectures, Messages, New Delhi: Allied Publishers Limited) cercava così di ricevere l’approvazione dell’esigente e venerato maestro.

Iyengar ebbe modo di sfuggire alla violenta figura paterna proprio quando, di lì a poco, gli si offrì l’occasione di assumere lo stesso ruolo del proprio aggressore, ossia di diventare un insegnante di yoga e di guadagnarsi da vivere attraverso questa mansione, cosa che all’epoca era tutt’altro che comune.

Ma anche quando si allontanò dal maestro, superandolo addirittura dal punto di vista delle capacità fisiche, il perfezionismo ossessivo nelle āsana rimase il suo marchio di fabbrica. È peraltro da notare come esistano numerose testimonianze (tra cui quella di Gabriella Cella5”Ho seguito le lezioni di Iyengar, ammirata dalla sua forza marziale […] anche se il bastone che batteva vigorosamente sulle ginocchia degli allievi in una Trikonāsana imperfetta e le cinghie con cui legava le gambe per mantenere Padmāsana, non mi davano proprio l’idea di un percorso yoga” da G. Cella Al-Chamali, I segreti dello Yoga: manuale pratico di Yoga Ratna, Rizzoli, 2011) delle spigolosità caratteriali che Iyengar ereditò dal maestro, elaborandole in un approccio spesso intimidatorio e violento, di cui il filmato che segue, risalente con probabilità agli anni ’90, mostra un esempio.

In occasione della sua morte, nell’agosto del 2014, il Times of India lo descrisse

sempre incollato al suo credo molto criticato – che il corpo ha bisogno di amore duro per essere spinto a calci nella consapevolezza. Alcuni dei suoi studenti americani hanno scherzato sul fatto che le sue iniziali BKS fossero “beat, kick and slap”. Ma era una linea seguita dalla maggior parte degli insegnanti della scuola di Iyengar. Gli studenti dovevano lasciare il loro ego alla porta e se non riuscivano a superare l’abuso, smettevano. Non sorprendentemente, il livello di attrito nelle prime classi era alto. Ma per coloro che hanno imparato lo zen a forza di pugni, i suoi metodi erano avvincenti.

“Non è con voi che mi arrabbio, non siete voi che prendo a calci. È il ginocchio, la schiena, la mente che non stanno ascoltando”, avrebbe detto durante i suoi discorsi stracolmi in occasioni festive.

Per sfuggire al proprio aggressore, Iyengar lo aveva introiettato incorporandone gli aspetti più fanatici ed erigendoli a sistema. Scrive ancora Shaw:

L’impegno di Iyengar lo ha trasformato in un’icona inattaccabile per la perfezione del suo lavoro.
Idealismo e ortoprassi definiscono il suo metodo.

La ristrettezza di questa visione ha modellato il suo stile di insegnamento e le sue convinzioni, e il suo approccio pedagogico, colorato dalla sua esperienza con Krishnamacharya, fu trasferito a legioni di seguaci.
A causa del profondo potere della personalità di Iyengar e dell’autorità che ha
guadagnato dalla sua lunga, fedele e singolare attenzione, ha ridefinito lo yoga come postura allineata per gran parte del mondo dello yoga moderno.

Afferrando la frusta

Scuola Iyengar di Pune, 2006, da Michael O’Neill, Sullo Yoga: l’architettura della pace, Taschen, 2015

Ora, cominciamo a calare il sipario su Bellur Krishnamachar Sundararaja Iyengar. Il reale argomento di questo articolo non è infatti lo Iyengar in sé, ma lo Iyengar in me (e in te, e in lui, e in lei: in tutti noi). Non a caso, il saggio di Shaw è intitolato Seizing the whip, ispirato al celebre racconto-aforisma kafkiano in cui l’animale “strappa di mano la frusta al padrone e si frusta da sé per diventare padrone e non sa che questa è soltanto una fantasia prodotta da un nuovo nodo nella correggia della frusta del padrone”.

Oggi, ovviamente, i metodi di insegnamento appena descritti non sono proponibili. Tuttavia, la tentazione di frustarsi da sé nell’illusione di diventare padroni esercita ancora una notevole attrattiva.

Lo è, se pensiamo alla indefessa disciplina a cui si sottopongono milioni di praticanti che ogni giorno documentano attraverso i social network i propri progressi, inseguendo il mito di un allineamento sempre più definito e una postura sempre più ‘avanzata’. Non dimentichiamo che Iyengar fu essenzialmente, per tutta la sua vita, un uomo eminentemente di spettacolo, perennemente sotto i riflettori tra pubbliche esibizioni e servizi fotografici che ne hanno documentato le performance persino negli ultimi giorni di vita, come se sopravvivesse un riflesso condizionato dell’ambiente altamente competitivo in cui si trovò in un primo tempo a insegnare, penalizzato dall’assenza di qualifiche e dalla povera estrazione sociale, che ricordò così:

La vanità era nei miei allievi e in me. Se dovevo dimostrare la mia superiorità, naturalmente dovevo dimostrare la mia vanità ancora di più… potevo vedere che i miei allievi riuscivano meglio di me, e ciò mi diede la motivazione per fare ancora meglio6Iyengar, B. K. S., 2009, Yoga Wisdom and Practice, New York: D. K. Publishing

Questa foto e quella di copertina sono di Aditya Kapoor e sono le ultime immagini di B. K. S. Iyengar prima del suo decesso nell’agosto 2014, all’età di 95 anni.

La tentazione dello Iyengar-in-me di afferrare la frusta è viva nel presupposto che nella pratica delle āsana il di più, in senso lineare e idealizzato, sia per forza più efficace, a discapito delle micro- e macro- lesioni, dei dolori cronici che sempre più praticanti accumulano negli anni, pur continuando indefessi a praticare e proporre le stesse procedure che li hanno provocati.

Ma la tanto agognata e irrealizzabile perfezione nel corpo, sempre posticipata un po’ più in là, il mai essere pronti ad accedere al livello ulteriore, stanno lì, a dimostrare che la frusta è ancora saldamente nelle mani del padrone, e stai saltando secondo il ritmo da lui dettato.

Alignment is enlightment è un motto molto popolare nell’ambiente olistico moderno, e lo Iyengar-in-me ha la propensione a prenderlo terribilmente alla lettera. Ma siccome in questo mondo l’allineamento non arriverà mai, anche l’illuminamento rimane tantalicamente negato. Chissà perché, le verità espresse in rima, oltre che essere spesso intraducibili in altre lingue, lo sono anche nella realtà.

Note[+]

Note
↑1 B. K. S. Iyengar, Teoria e pratica dello Yoga (Light on Yoga), Mediterranee, 199
↑2 La prima immagine è tratta dal suo Il nettare dello yoga, a cura di Marco Passavanti, Ubaldini, 2013
↑3 Vedi Eric Shaw, Seizing The Whip, citato più oltre, ma anche, per quanto riguarda il clima culturale in cui Iyengar ricevette la propria formazione, il fondamentale Yoga Body di Mark Singleton.
↑4 Iyengar, B. K. S., 2000-08, Astadala Yogamala (Collected Works), vols. 1, 5, 6, 7 : Articles, Lectures, Messages, New Delhi: Allied Publishers Limited
↑5 ”Ho seguito le lezioni di Iyengar, ammirata dalla sua forza marziale […] anche se il bastone che batteva vigorosamente sulle ginocchia degli allievi in una Trikonāsana imperfetta e le cinghie con cui legava le gambe per mantenere Padmāsana, non mi davano proprio l’idea di un percorso yoga” da G. Cella Al-Chamali, I segreti dello Yoga: manuale pratico di Yoga Ratna, Rizzoli, 2011
↑6 Iyengar, B. K. S., 2009, Yoga Wisdom and Practice, New York: D. K. Publishing
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Yoga: Spazio: Silenzio

18 Gennaio 2018 Zénon

Guarda una tazza o un recipiente senza vederne le pareti o la materia. In breve tempo, prendi coscienza dello spazio.

Vijnabhairava Tantra, 59

La pratica dello Yoga rischia spesso di trasformarsi in una lotta contro sé stessi, inseguendo l’idea di dover conquistare qualcosa: una posizione, un movimento sinuoso, il controllo del respiro o della mente.
 
Tuttavia, ogni vittoria è destinata a durare fino al riaffiorare del conflitto, della stessa tensione sotto altre spoglie: voler diventare qualcos’altro, il rifiuto di ciò che è.

In questo seminario daremo quindi una chance all’idea opposta: che lo Yoga sia piuttosto lasciarsi conquistare. Che l’accento possa cadere sugli spazi invece che sui ‘pieni’, ovvero su quelle sensazioni di apertura percepibili anche nell’incontro con il limite, se lo si accetta invece di volerlo normalizzare.

L’ascolto del corpo come spazio e della contiguità con lo spazio esterno potrà così maturare nel presentimento di uno spazio ‘anteriore’, sottostante, in cui il gesto, il soffio o il pensiero non sono più disturbo o negazione di un silenzio da difendere, ma parte stessa del silenzio fondamentale che non può essere scalfito.

Accanto all’approfondimento di āsana e prāṇāyāma, presenteremo per la prima volta in un seminario a Zénon la pratica del Tandava, in cui il movimento è dettato non dalla memoria di un percorso predeterminato, ma dall’ascolto tattile del contatto con lo spazio, danzando attraverso il sottilissimo confine tra movimento e quiete.


Il programma della giornata

9:30 – 11:30 Il corpo come spazio: pratica corporea e percezione del vuoto.
11:45 – 13:00 Lo spazio del respiro. Prāṇāyāma.
15:00 – 16:00 Danzare con lo spazio. Tandava.
16:15 – 18:00 Dal Prāṇāyāma al silenzio. Meditazione.

Per la partecipazione, è richiesta un’esperienza di base nella pratica dello Yoga.


Gli insegnanti

Il seminario sarà tenuto dall’insegnante di Zénon Francesco Vignotto.


Contributo di partecipazione

Il costo della giornata è di 80 €.


Per iscriversi e per informazioni

Ci puoi contattare al 349 246 2987.
Oppure puoi scriverci con questo modulo:

[contact-form-7 id=”7311″ title=”Seminario Yoga Spazio Silenzio”]

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Prāṇāyāma, questo sconosciuto

31 Ottobre 2017 Francesco Vignotto


L’inalazione e l’esalazione sono più o meno delle sovrapposizioni a ciò che è costante. Perciò il silenzio, l’intervallo dopo l’espirazione, non è assenza di attività, ma assenza di funzione. È presenza. All’inizio, la nostra attenzione è focalizzata sull’atto di inspirare e di espirare. Ma poi arriva un momento in cui diventiamo indifferenti all’inspiro e all’espiro. È il momento in cui il corpo prende in carico la respirazione, ed enfatizziamo il silenzio, l’intervallo tra le due attività. È un modo spirituale di utilizzare il controllo del respiro e il respiro stesso, ma il controllo del respiro può essere anche utilizzato per dirigere, per orchestrare l’energia in noi.

Jean Klein, The Book Of Listening

Con l’essenzialità che gli è propria, in queste poche battute Jean Klein racchiude tutto il prāṇāyāma, ossia quell’area dello yoga che attraverso il respiro persegue un apparente doppio fine: raffinare l’energia vitale e accompagnare la mente verso la meditazione.

Siccome altrove ho accostato l’argomento per i massimi sistemi (Prāṇāyāma, vita, respiro, morte e miracoli) o in relazione al delicato rapporto con il respiro spontaneo (Non saper respirare), mi sembra utile partire proprio da qui per una sintesi che vada al cuore della questione.

Le tecniche yogiche di prāṇāyāma comprendono un certo numero di alterazioni del ritmo, dell’ampiezza, della modalità, e del suono del respiro: respiri come mantici da fucina, ruggiti di leoni e ronzare di calabroni, sibili attraverso la glottide e riconfigurazioni dei flussi tra la narice destra e sinistra. Le fasi respiratorie sono quindi regolate secondo estensioni e proporzioni variabili, e attraverso i tre controlli principali: il diaframma toracico, il diaframma perineale e il reticolo (la contrazione alla base del collo).

Tuttavia, tutto questo estendere e sospendere, intensificare e rendere estremamente sottile, tutto questo disciplinare l’azione del respiro (compresa la sua sospensione) per abbandonare ogni controllo, converge verso il silenzio.

Come spesso viene sottolineato nella letteratura yogica, infatti, il controllo del respiro ha in realtà lo scopo di lasciar emergere ciò che è nello sfondo di questa stessa attività, e che in condizioni normali rimane offuscato da essa.

Lo Jiva [l’anima individuale] che si trova sotto l’influenza di Prana e Apana [l’inspiro e l’espiro] va su e giù. 1Come emerge dal mio precedente articolo Prāṇāyāma…, tradurre i termini Prana e Apana come ‘inspiro’ ed ‘espiro’ è piuttosto approssimativo, ma ai fini di questa esposizione dovremmo sacrificare qualche grammo di precisione alla chiarezza.
Lo Jiva a causa del suo muoversi continuo sul percorso destro e sinistro, non è visibile. Proprio come una palla percossa (sulla terra) salta in alto, così Jiva sempre lanciato da Prana e Apana non è mai a riposo.
Conosce lo Yoga chi sa che Prana sempre si trae da Apana e Apana trae da Prana, come un uccello (allontanandosi e tuttavia non liberandosi) dalla stringa (a cui è legato).

Dhyana Bindu Upanishad, 58-61a

L’inalazione e l’esalazione sono una funzione, che ritma ed è al tempo stesso ritmata dall’attività mentale e dalle funzioni vitali. Come queste ultime, è un’attività transitoria che appare nello sfondo senza di per sé turbarlo, ma celandolo.

Intendiamoci: inspiro ed espiro sono funzionali alla vita, quindi l’oggetto in questione non è tanto l’opportunità di respirare o meno (come a volte iperbolicamente sembrerebbe emergere dalla letteratura yogica), quanto lo slittamento della coscienza dall’atto al campo in cui il ciclo del respiro avviene.

Da Tantra Song, raccolta di dipinti dal Rajasthan a cura di Franck André Jamme.

Ciò che è nello sfondo, d’altro canto, non è attività. Non è funzione. A dire il vero, non si potrebbe nemmeno chiamare “ciò”. Non si tratta di qualcosa che appare e scompare negli intervalli tra un respiro e l’altro: è costantemente presente anche durante l’attività, ma la consapevolezza nell’intervallo è un escamotage che ci permette inizialmente di prenderne coscienza.

Cessando il respiro, tutte le funzioni seguono, più o meno: occorre che ‘stiamo’ con quella presenza.

Ma se l’obiettivo è nello sfondo, perché allora lavorare sul respiro, ossia sulle ‘sovrapposizioni’ e non direttamente su ciò che è costante? Perché non affrontare la questione alla radice invece di sottoporsi a complicati addestramenti respiratori?

Perché il normale groviglio di respiro, mente e funzioni vitali solitamente non ne concede la possibilità: nella maggioranza dei casi ci troviamo avviluppati in una fitta rete senza apparenti spiragli. Come due litiganti che vogliono avere ragione, inspiro ed espiro si sovrappongono senza mai lasciarsi giungere al pieno compimento e senza mai scendere in profondità. Non è pressoché possibile che si verifichino intervalli se non in caso di malfunzionamenti o a costo sforzi che rischiano molto spesso di essere controproducenti.

Le uniche occasioni in cui si può aprire uno spiraglio si verificano in momenti di forte stupore o di shock improvvisi: si tratta però di ‘esperienze di picco’ che non possono essere costanti e che raramente possono essere integrate nella vita ordinaria. Oppure, ancora, in momenti di inerzia come nel sonno profondo, quando però il livello di coscienza è generalmente troppo ottuso perché ve ne sia consapevolezza.

A questo punto, quando nel cielo il sole e la luna scompaiono, l’illuminato
rimane lucido mentre l’essere umano ordinario sprofonda nell’incoscienza.

Spandakarika, 25

Osservare e controllare (o meglio condurre) l’inspiro e l’espiro sono quindi un passaggio obbligato per addomesticare respiro, corpo e mente.

Da Tantra Song, raccolta di dipinti dal Rajasthan a cura di Franck André Jamme.

Il lavoro su inspiro ed espiro, progressivamente, viene integrato con lo sviluppo delle pause. In effetti, l’haṭhayoga ha sempre enfatizzato il prāṇāyāma come ritenzione del respiro (si veda, ancora, Prāṇāyāma…).  Tuttavia, lo sviluppo volontario delle fasi respiratorie è ancora un’attività che prepara il terreno per la ritenzione spontanea, nei cui confronti il termine controllo è del tutto inadeguato: possono arrivare momenti in cui stare nell’intervallo non è più una scelta.

Proprio come la tecnica di meditazione non è di per sé la meditazione, il controllo del respiro non è il prāṇāyāma nel senso più ultimo, ma una preparazione. Almeno fin quando la tecnica di meditazione e il prāṇāyāma – anche nello sviluppo estremo delle pause – rimangono delle funzioni.

Ma poi arriva un momento in cui diventiamo indifferenti all’inspiro e all’espiro. È il momento in cui il corpo prende in carico la respirazione, ed enfatizziamo il silenzio, l’intervallo tra le due attività.

A un certo punto, non è nemmeno importante se si stia respirando o meno. Il respiro torna ad essere quello che è sempre stato, sovrapponendosi a ciò che è costante in perfetta trasparenza, proprio come un rumore che cessa di essere un disturbo e si integra nel silenzio.

Lo scarto tra il punto di partenza e il punto di arrivo, come tutto ciò che è essenziale, è imponderabile. Il silenzio non è una cosa tra le altre.

Note[+]

Note
↑1 Come emerge dal mio precedente articolo Prāṇāyāma…, tradurre i termini Prana e Apana come ‘inspiro’ ed ‘espiro’ è piuttosto approssimativo, ma ai fini di questa esposizione dovremmo sacrificare qualche grammo di precisione alla chiarezza.
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Non saper respirare

27 Giugno 2017 Francesco Vignotto

Vorrei che, alla fine della lettura di questo articolo, il suo titolo non suonasse più come un rimprovero, a differenza di quanto possa sembrare. Non intendo insomma somministrare la solita predica su quanto ognuno respiri male, perché proprio questi rimproveri sono responsabili di ancora più debiti di ossigeno di quanti ne intendano saldare.

A causa anche di questo, molte persone si presentano a un corso di yoga con il capo già cosparso di cenere e confessano con un certo senso di colpa di non saper respirare. Il respiro, al solo nominarlo, evoca spesso una competenza elementare che non si è acquisita abbastanza a suo tempo e che ci si vergogna di non padroneggiare, proprio come una regola grammaticale o le divisioni in colonna.

Oppure, il respiro suscita il fantasma di un impedimento oggettivo: io vorrei respirare, ma c’è qualcosa – un sigillo, una inadeguatezza fisiologica, una paura – che me lo impedisce.

La buona notizia è che, escludendo le vere e proprie condizioni patologiche, gran parte delle sommarie autodiagnosi da “diaframma bloccato” o da incapacità respiratoria non derivano affatto da un impedimento oggettivo o da scarsa padronanza tecnica, bensì da una soggettiva tendenza a mettersi i bastoni tra le ruote da soli. In altre parole, non ci manca niente per poter respirare, semmai c’è del troppo.

Perché non è possibile non saper respirare, per il semplice fatto che è il corpo a farlo per noi. E se respiriamo male (non troppo male da mettere a repentaglio la nostra vita ma abbastanza da comprometterne la qualità) è perché a quell’abile non sapere del corpo si è sovrapposto qualcosa di estraneo.

L’insegnante di yoga – o chiunque abbia a che fare con il respiro, il proprio o l’altrui – non può evitare di partire da questo dato: non ha senso mettere in pratica uno sforzo attivo, quando non si è ancora attivata l’attenzione al respiro fisiologico.

In caso contrario, nuovi condizionamenti andranno a sovrapporsi a quelli vecchi: il risultato sarebbe un corpo e un respiro doppiamente condizionati, ed è questa la situazione che è possibile osservare in molti praticanti di yoga, anche tra coloro che possono vantare numerosi anni di pratica: i muscoli addominali e il diaframma lavorano molto intensamente, la gabbia toracica si espande e contrae al massimo delle sue capacità, ma la quantità di respiro è appena una goccia che cade da un rubinetto aperto con grande fatica.

Respirare “come si respira nello Yoga” (come ci hanno detto di respirare) oppure come si respira nel Pilates, o con le maschere antigas, non fa molta differenza. Finché il respiro rimane qualcosa da fare, e non una presenza costante da interrogare e con cui interagire, finché non lo si ascolta visceralmente e al tempo stesso come fosse il respiro di un’altra persona, non si respira, e non si fa.

Modificare il respiro in queste condizioni è come pretendere di guidare un’auto bendati, ritenendo che sia sufficiente aver studiato la mappa stradale e che dare un’occhiata alla plancia di controllo sia superfluo. Peggio ancora, quando crediamo alla mappa per semplice autorità, perché qualcuno ce l’ha raccontata.

Spesso si sente dire nello yoga che il problema è che non siamo consapevoli del nostro respiro. Questo è verissimo, se per respiro consapevole intendiamo non un atto di controllo del respiro, bensì la consapevolezza del respiro fisiologico. Saper discernere il respiro dalla respir-azione (mi si perdoni il gioco di parole) è il primo passo perché anche la tecnica possa essere un esercizio fruttuoso di dialogo – non di coercizione – con il respiro. Per questo il sapere come respirare deve sempre radicarsi nella consapevolezza che non si sa respirare.

Respiro consapevole e controllo della respirazione

Krishnamacharya che pratica pranayama con un una allieva

Un esempio della doppia faccia delle tecniche di controllo del respiro, di come possano essere abilitatrici oppure condizionanti, è il celeberrimo ujjaiy che caratterizza la pratica dello yoga.

L’ujjayi è una tecnica di respiro tipica dello yoga. La forma più comune in uso oggi consiste in una leggera restrizione dell’epiglottide, che produce un leggero suono sibilante, simile a un bisbiglio – che deve essere omogeneo e continuo – tra la gola e la cavità nasale e viene applicata sia come parte di altri pranayama, sia nella pratica degli asana, sia in alcune tecniche di meditazione.

L’ujjayi permette di estendere le fasi di inspiro e di espiro proprio perché regola il passaggio dell’aria, aumentando la pressione intrapolmonare e regolando di riflesso numerose funzioni. Può essere utilizzato sia per produrre intensità, sia per produrre rilassamento e concentrazione regolarizzando le fasi del respiro.

Il problema è quando l’ujjayi viene imposto senza aver dedicato del tempo all’ascolto di quel respiro. Siccome poi la regione della gola è sede di numerose tensioni, l’ujjayi diventa molto spesso un amplificatore di tensione. Il suo suono dovrebbe essere sottile come una lama che taglia la continuità dei pensieri, ma il più delle volte diventa rumore che cerca di coprire altro rumore. Rumore che si emette per non sentire, per non ascoltare, oltre che per non respirare. Sia quando si esegue una asana impegnativo, sia quando ci si siede a meditare.

Ogni controllo ha una fine

Lo Hathapradipika (1, 15) cita tra le cause che distruggono lo Yoga anche l’aderire alle regole. Questo è un aspetto che troppo spesso dimentichiamo e il respiro ne è un ottimo esempio. Tutte le tecniche di pranayama hanno come scopo non tanto il respiro, quanto la sua sospensione.

A sua volta, la sospensione del respiro volontaria, in ritenzione interna o esterna, è solo una preparazione alla vera sospensione che avviene spontaneamente. Non la si può controllare: può accadere – ma non è detto – al termine di una tecnica, ma anche in un attimo di stupore.

Tuttavia, anche senza addentrarci in percorsi fin troppo avanzati (eppure non così inaccessibili), rimane un fatto che dovrebbe essere chiarito fin da subito al principiante come al praticante esperto: il respiro non si controlla, se non per brevi tratti e in modo relativo. Pensare di controllare il respiro è assurdo quanto credere di controllare le maree navigando. Perché in fondo è di questo che si tratta: cavalcare il respiro, non possederlo.

A quanto detto è necessario inoltre aggiungere un corollario: in ogni tecnica di respiro, anche la più innocente e semplice, bisogna educarsi anche alla fase di abbandono. Abbandonare la tecnica è anzi importante almeno quanto saperla eseguire, altrimenti la tecnica diventa inconscia, il meccanismo si stabilisce sopra il meccanismo. Quando applico l’ujjayi, o qualsiasi altra tecnica, respiro in ujjayi. Ma quando cesso di applicarlo, devo abbandonarlo completamente e lasciare che il respiro naturale riprenda il suo corso.

Altrimenti, non si può evitare lo sgomento che coglie il meditante quando gli viene tolto l’ultimo sostegno, nella meditazione, del controllo del respiro: non sa più cosa fare, e si arrabatta tra respiri smorzati e tensioni.

Chi o cosa respira? Da dove origina il soffio? Le risposte tecniche e fisiologiche, a un certo punto, vanno accantonate. Bisogna, in altre parole, accettare che non sappiamo come respirare, e va benissimo così.

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