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Zénon | Yoga e Qi Gong

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interviste

Sensi soprannaturali: conversazione con Gioia Lussana sullo Yoga della bellezza

7 Gennaio 2022 Francesco Vignotto

foto di Gioia Lussana

Il sé è un danzatore
Il sé interiore è la scena
I sensi sono gli spettatori

Vasugupta, Gli Aforismi di Śiva

Lo yoga della bellezza di Gioia Lussana è uno dei testi più interessanti e originali degli ultimi anni sullo yoga. Il tema di fondo si sviluppa intorno a una intuizione del tantrismo del Kaśmīr medievale ancora poco esplorata, secondo cui lo stupore meravigliato di fronte all’opera d’arte è esperienza del sacro; sacro che attraverso questa breccia può essere colto in ogni aspetto della vita ordinaria.

Gioia Lussana è laureata cum laude in Indologia con Raniero Gnoli e Raffaele Torella ed è dottore di ricerca in Civiltà e Culture dell’Asia presso l’Università Sapienza di Roma. Il rigore con cui affronta le fonti non le impedisce il confronto, da un lato, con la tradizione filosofica e poetica occidentale e, dall’altro, con la sua esperienza di praticante e di insegnante di yoga, contribuendo a espandere gli orizzonti di ciò che intendiamo oggi con questo nome.

Anche per questo, era abbastanza inevitabile parlare direttamente con lei del suo ultimo libro.

Gioia Lussana

Due cose colpiscono subito l’occhio riguardo a Lo yoga della bellezza. La prima è il sottotitolo: “Spunti per una riformulazione contemporanea dello yoga del Kaśmīr”. La seconda è la doppia prefazione: di Raffaele Torella, ovvero uno dei più importanti esperti a livello internazionale di Tantrismo indiano; e di Eric Barét, riformulatore moderno dell’approccio del Kaśmīr come prima di lui Jean Klein (un ulteriore elemento di sorpresa, ma bisogna avere letto il libro, è il tuo contatto diretto con una forma di Haṭha-yoga tradizionale del Kaśmīr).
Per il senso comune, qualcosa che si richiama a una tradizione o vi aderisce letteralmente oppure suona un po’ sospetto; d’altro canto, le riletture contemporanee hanno sempre suscitato qualche alzata di sopracciglia tra gli studiosi. Qui, invece, sembra di trovarsi di fronte a un particolare caso di superamento degli opposti, e allora ti chiedo: cosa intendi con il termine riformulazione? E come può essere possibile riformulare una tradizione di cui, come spieghi, ci mancano ormai molti elementi operativi? Ma soprattutto: se una tradizione può (deve?) essere riformulata, che cosa intendiamo con la parola tradizione?

Ᾱgama, tradizione, in sanscrito è letteralmente un ‘flusso ininterrotto’. Ᾱgama è anche il nome dei testi tantrici śivaiti rivelatori di una visione rivoluzionaria del sacro. Voler dare nuova linfa a una fiorente e antica tradizione è rimanere nell’alveo del suo torrente e continuare a scorrere in esso. Si potrebbe dire mantenendo il ricordo della sorgente, ma attraversando nuovi paesaggi.

Come accenno nel mio libro, già all’inizio del secolo scorso, quando nacque in Kaśmīr Lakshmanjoo, considerato l’ultimo depositario per trasmissione diretta del lignaggio dei maestri medievali, si era persa la decodifica delle pratiche, spesso altamente esoteriche, descritte da Abhinavagupta nelle sue opere. Si potrebbe in ogni caso affermare che lo yoga del Kaśmīr non è uno yoga preminentemente ‘tecnico’, ma incentrato su un messaggio profondo. Ciò che era presentato per iscritto era già
nel X e XI secolo solo una traccia di ciò che veniva essenzialmente comunicato per
via orale da maestro a discepolo e costituiva la prassi vera e propria.

In virtù di ciò è tanto più lecito oggi tentare di riformulare, di interpretare in modo nuovo quel poco che risulta accessibile delle tecniche antiche, cercando soprattutto di non distaccarsi dalla trasmissione originaria – prettamente filosofica – che esse veicolavano attraverso il corpo. Una riformulazione moderna deve in qualche modo farsi carico dell’evoluzione di segno e di senso della visione filosofica originale, da trasporre in uno yoga non iniziatico e alla portata di un vasto pubblico. Uno yoga siffatto non è in ogni caso compatibile con le forme di gran parte dello yoga contemporaneo, classificabili come fenomeno di massa e con una valenza prettamente commerciale.

I maestri śivaiti non erano solo filosofi, retori e maestri di estetica, ma anche potenti yogin che sapevano incarnare creativamente la stupefacente visione filosofica che emerge dai testi. Si tratta oggi di riproporre in un linguaggio attuale il palpito vitale e la profondità concettuale che essi seppero trasfondere nel rito dello yoga.

Credo che riformulare oggi sia essenzialmente dare forma a uno yoga ‘generativo’, che non perda cioè la sua connotazione intuitiva, mai meccanica, sempre nuova, che scaturisce innanzitutto dal calore vitale e dal battito della vita in ognuno di noi, come da una fonte viva e nello stesso tempo cosciente. La tecnica non è che uno sviluppo ulteriore di questa percezione palpitante originaria.

Il modo di esprimersi dell’artista, del fruitore dell’arte e dello yogin prende le mosse da questo ‘bollore vibrante’ – la cifra della vita – e sgorga ispirato da pratibhā, l’intuizione dell’intima coerenza di ogni cosa, la bellezza di ‘ciò che è’.

Pratibhā, è quell’ingenium che ci fa presentire l’Assoluto. Ogni āsana, ogni gesto diviene allora il rito della bellezza e della sacralità dell’esistenza. L’arte dello yoga diviene in tal modo celebrazione della realtà in ogni sua manifestazione, che in quanto viva è allo stesso tempo auto-consapevole. Nei tantra śivaiti è rimarcata difatti la sorprendente omologia tra coscienza/sapienza e movimento della vita, che si riflettono nell’ordinario e nello straordinario con uguale splendore. Il rito dello yoga ha la funzione di intensificare ulteriormente tale ‘sapiente vividezza’.

Veniamo al tema centrale del libro, ovvero la stretta connessione tra l’esperienza estetica e l’esperienza religiosa. Per sgombrare il campo da equivoci naïf, il bello di cui parliamo non è per nulla ornamentale: si ha anzi l’impressione che la poesia (cito un altro termine-chiave) in questo caso abbia ben poco a che fare con l’evasione della realtà a cui il senso comune l’associa. Puoi parlarci di questo aspetto?
A ciò si collega un’altra domanda: da un approccio così radicalmente non-duale ci si aspetterebbe diffidenza nei confronti delle parole. Eppure nel tuo libro emerge la precisione chirurgica dei maestri del Kaśmīr nel descrivere ma soprattutto nell’evocare l’ineffabile, oltre a un tuo gusto particolare per l’etimologia anche nei confronti delle lingue europee. Evocare: in una riformulazione contemporanea, quanto è importante il linguaggio non solo per descrivere e istruire, ma per evocare una sensibilità straordinaria? Penso ad esempio a quando viene richiesto, nella riformulazione di Klein/Barét, di sentire il muro di fronte, o compiere un asana senza il corpo fisico. Anche qui abbiamo a che vedere con un uso poetico delle parole a tutti gli effetti creativo…

Nella concezione tradizionale la percezione della bellezza (rasāsvāda), investigata con estrema eleganza dai maestri kaśmīri e con suprema maestria in special modo da Abhinavagupta, si qualifica in sostanza come il vero laboratorio dell’esperienza religiosa o spirituale in senso lato: brahmāsvāda, connotata da un vivo assaporamento, intensificato rispetto alla fruizione ordinaria, che vede i nostri sensi spesso assopiti e resi opachi dalla routine. Le due esperienze, entrambe intensissime, scaturiscono dal terreno comune della vita ordinaria, che viene dissodata e resa fertile attraverso questi due vissuti straordinari in virtù di un risveglio che rende straordinario anche l’ordinario. La vita nella sua interezza e in tutte le sue forme acquista allora significato e sapore in quanto celebrazione gratuita, ‘generazione’, come accennavamo precedentemente, compiuta in se stessa. Il rito dello yoga, non confinato dunque a un ambito esclusivamente rituale, si qualifica come una estasiata espressione della vita in quanto tale.

Lo yoga del Kaśmīr, sia nella sua accezione tradizionale, sia nella sua riformulazione contemporanea, è fondamentalmente arte della contemplazione, in una parola bhāvanā, ‘attenzione generativa’, come potremmo tradurre questo termine complesso.

Nel Medioevo in Kaśmīr Bhaṭṭa Nāyaka considera bhāvanā come il ‘desiderio di espressione’ che genera la poesia, l’arte che si propone di alludere a ciò che per sua natura è indescrivibile: la bellezza, ovvero l’essenza della realtà. Lo yoga kaśmīro incarna la capacità creativa che il termine bhāvanā contiene in sé. È risvegliare la presenza consapevole, gustandola attraverso la contemplazione. Uno yoga ‘filosofico’ dunque e altamente ‘poetico’, in quanto si propone di evocare nientemeno che il sacro attraverso la postura, il gesto, l’immagine, il suono.

Per conservare la sua vitalità ispiratrice il linguaggio della pratica deve oggi a mio avviso accendere un significato, tradurre la filosofia in poesia e la poesia in āsana. Lo yoga si assume quindi il compito di suscitare l’intima natura del reale, esprimendo in modo rituale la sua sacralità naturale. Il suono e il gesto conservano in tal modo la loro matrice energetica, prima che discorsiva o intellettuale. Parole e immagini rese ‘corporee’, che non diminuiscono, anzi intensificano la verità delle cose.

Lakshmanjoo

I sensi e in particolar modo il tatto, o meglio la tattilità, altrove considerati una distrazione da cui ritirarsi, sono qui invece lo strumento principale di indagine. Anche in questo caso lo yoga del Kaśmīr sembra da un lato andare in controtendenza rispetto allo yoga classico (viene in mente la famosa critica di Abhinavagupta allo yoga di Patanjali, citato da Torella: “Ritirare i sensi dai loro oggetti porta a rafforzare il legame invece di allentarlo”1R Torella, “Abhinavagupta’s Attitude towards Yoga” in Journal of the American Oriental Society 139.3 (2019)); dall’altro siamo ben distanti anche dalle celebrazioni della positività del corpo-fatto-di-cibo che animano molto yoga contemporaneo. I sensi sembrano qui anzi già appartenere a territori che altrove sarebbero definiti soprannaturali. Puoi dirci qualcosa di più rispetto a questa particolarità?

Rasāsvada, la percezione estetica, è l’esperienza unitaria del sentire attraverso l’uso dispiegato dei sensi, o meglio quella qualità alla base di ogni specifica conoscenza sensoriale: l’assaporamento. Non riguarda semplicemente il senso del gusto, ma quella completezza che deriva dall’usare fino all’estremo uno qualunque di tutti i sensi. Rasa come gustazione denota in generale la primordiale presa di coscienza che tutti i sensi attivano. Sensi che nello śivaismo kaśmīro sono ‘le Dee, le signore dei sensi’ (karaṇeśvarī o svasaṃvid-devī), potenti divinità che risvegliano la capacità di comprendere, di conoscere ovvero di assaporare intensamente la realtà. Sapere è in primis ‘gustare’.

La cifra di questo yoga è sempre l’intensità, fiammante, nuova, per certi versi sempre un po’ spiazzante in quanto contemplazione smisurata e senza inibizioni di quello che c’è, senza omissioni né aggiunte. Questo, come dicevamo, è uno yoga contemplativo. Contemplare la bellezza, anche in ciò che ci spiazza, ci addolora o ci scuote dalle fondamenta.

Contrariamente alla visione del Pātañjala-yoga o yoga classico e di gran parte del pensiero filosofico indiano, dove emozioni, passioni e desideri vengono demonizzati o considerati pericolosi nemici, nel tantrismo non duale del Kaśmīr lo yogin, come l’artista o il fruitore dell’arte, è un rasika, un ragavan o un sahṛdaya ovvero una persona ‘sensibile’, appassionata, che partecipa ‘con tutti i sentimenti’ a ciò che gli è dato di vivere o sperimentare. Potremmo affermare che lo yogin del tantrismo non duale ‘sente esteticamente’, rifacendoci al significato del greco aisthánomai, che è un sentire, comprendere attraverso l’emozione e il sentimento. Lo stato di coscienza estetico è in qualche modo ‘estatico’ per il particolare tipo di gioia che produce nel soggetto, completamente indipendente da un’utilità personale.

L’intensità di un cuore attento e partecipe (heartful potremmo dire, prima che mindful), pur essendo spontanea, a volte richiede un allenamento per attivarsi e incrementarsi. Lavorare la mente-cuore rappresenta un livello specifico di yoga, forse il più diffuso nelle scuole non duali, interessate a dissodare la mente dai suoi impedimenti più che a potenziare la struttura muscolare del corpo. Il training della mente-cuore è in ogni caso un lavoro ‘tattile’, concreto, come impastare il pane o smuovere la terra per seminarla. Richiede la stessa cura, costanza, dedizione. Richiede non soltanto una mente pronta, ma anche un cuore vibrante e un corpo disponibile ad accogliere e custodire l’intensità. Ed è il calore vitale, come dicevamo, e l’emozione della vita in noi che si genera da questo calore, a creare la forma dell’āsana e a originare la dinamica del corpo nello spazio. Il movimento in queste scuole diventa radianza di luce e calore, in ultima analisi, gioia. Espansione del cuore, danza del cuore.

Inevitabile non notare quanto qui sia decentrato il ruolo della tecnica, al contrario di quanto avvenga nello yoga classico e in quello contemporaneo, dove sembrerebbe che il riconoscimento della propria reale natura – o, a essere più modesti, i vari benefici dello yoga – derivino dall’esecuzione di procedure definite e dalla loro ripetizione. Nello yoga del Kaśmīr i rapporti causali sembrano capovolti, o forse sarebbe meglio dire sconvolti da cause di forza maggiore: prima c’è il riconoscimento e poi la tecnica. Anche per le nostre menti contemporanee, dominate dalla tecnica (penso ad esempio all’attributo intelligente riferito a un algoritmo), può sembrare di trovarsi di fronte a un koan: com’è possibile anche solo chiedere di realizzare qualcosa senza realizzarlo?

Rāga, desiderio, anziché vairagya, distacco (letteralmente ‘scoloramento del rosso’ ovvero del desiderio) e kṣana, istante, anziché abhyāsa, ripetizione nel tempo, sono i pilastri dello yoga non duale rispetto al Pātañjala-yoga. Lo yoga del Kaśmīr valorizza lo slancio (udyama) anziché lo sforzo o la coazione a ripetere. Come spiego nel mio libro, quella dello yogin è un’azione vitale spontanea (akṛtaka) che nella pratica si traduce in presenza consapevole e partecipazione emotiva, espansività, la direzione privilegiata dello yoga non duale.

Abhinavagupta chiama camatkāra quel particolare assaporamento meravigliato e consapevole in cui il soggetto lascia sgorgare dall’interno il gesto yogico. Non si tratta di un appagamento per aver finalmente ottenuto un oggetto desiderato o aver raggiunto un obiettivo, ma una felicità del tutto diversa e autosufficiente, non dipendente dall’esterno, ma riconducibile all’intima sensazione di essere vivi, consapevoli dell’inesauribile desiderio della vita di esprimersi come da una fonte che zampilla e irrora tutto lo spazio del corpo e oltre il corpo. Tale attitudine interna è, come dicevamo, l’aspetto centrale di questo yoga, anziché la tecnica, relegata al livello di yoga più grossolano o minimale, ānava-upāya. Ma nella visione di Abhinavagupta anche uno yoga ‘meramente tecnico’ conduce in ultima analisi all’insight che ‘ognuno di noi è Śiva’…. Ognuno di noi è già perfetto così com’è. E ogni livello di yoga conduce naturalmente e imperiosamente a questa evidenza.

Lo slancio, la smisuratezza, il traboccare, il fuori scala sembrano essere cifre caratteristiche di questo yoga. Se ci fermassimo qui potremmo pensare a uno yoga di gesti eclatanti e di supersforzi. E invece, l’attenzione viene più spesso orientata alla sensibilità minuta, del momento liminale, dello spazio tra due cose/due esperienze, allo ‘stare per’ o al morire di un’esperienza. Anche qui sembra che venga chiesto l’impossibile: come si possono intraprendere due direzioni apparentemente divergenti, l’esuberanza e l’estremamente piccolo?

Il traboccamento (antarucchalana) del gesto e del cuore in uno slancio smisurato non contraddice in effetti l’attenzione minuta dello yogin verso ciò che è liminale, indefinito, evanescente.

La non contraddizione sta nel fatto che niente viene fatto ‘per se stessi’, ma in una modalità per così dire ‘generalizzata’ ovvero neutrale. Le stesse famigerate citta-vṛtti (modi della coscienza che comprendono cognizioni/emozioni) non portano a schiavitù se vissute ‘in modalità estetica’ ovvero lasciate libere di dispiegare la loro carica energetica prima che la mente razionale se ne appropri, asservendole ai propri bisogni. Esse diventano ostacoli quando il contenuto emotivo è al servizio dell’ego. Tale attitudine non appropriativa, comune peraltro a tutte le grandi tradizioni mistiche, purifica ogni desiderio dalla sua componente di avidità accaparratrice e trabocca come ‘desiderio aperto’, pronto ad accogliere e ad amare esattamente quello che c’è, così com’è, come ben sapevano e mettevano in pratica gli stoici nella nostra tradizione occidentale. Secondo questa visione non soltanto ciò che è sottile o liminale, ma anche ciò che è doloroso o negativo trova posto nella mente-cuore dello yogin, dove tutto senza esclusione ha la sua ragion d’essere.

Mark Dyczkowski, Daniel Odier, Christopher Wallis: cito tre nomi tra i tanti legati, in modo molto diverso tra loro, al tantrismo del Kaśmīr. Quali sono le affinità e le divergenze con l’approccio de Lo yoga della bellezza?

Tutti e tre gli autori che citi hanno contribuito in diversa misura alla diffusione e alla conoscenza della tradizione del Kaśmīr medievale. Non mi risulta però che nessuno di loro abbia particolarmente approfondito la produzione estetica dei maestri kaśmīri, riscoperta invece e valorizzata sulle orme di Raniero Gnoli da uno dei più insigni interpreti della tradizione manoscritta medievale, Raffaele Torella.

La traduzione dei testi di estetica medievali è in ogni caso un fenomeno relativamente recente, di cui Gnoli alla fine degli anni’50 fu uno dei primi al mondo ad interessarsi. Negli ultimi vent’anni stanno emergendo in traduzione delle vere e proprie perle di questa visione estetica, un filone estremamente promettente che getta una nuova luce interpretativa anche sul significato stesso di yoga in generale e dello yoga non duale in particolare. Qui la percezione della bellezza gioca il ruolo di vero e proprio laboratorio dell’esperienza religiosa in senso lato e yogica in senso specifico. Qui si può a ragion veduta concepire uno yoga ‘estetico’ che si contrappone a uno yoga ‘ascetico’ dominante in tutta la ben nota tradizione dello Haṭha-yoga.

Nel tuo libro non risparmi connessioni con il pensiero e la poesia occidentale, da Platone a Bachelard, da Leopardi a Weil e Candiani. Sembra di intravedere che, sebbene l’idea di una philosophia perennis non goda più di grande popolarità, sia tuttavia possibile almeno trovare un terreno comune di dialogo, che vi sia un referente comune, per quanto per sua natura ineffabile, che altri, altrove, hanno intuito con formulazioni diverse. Cosa ne pensi?

Già nel Vangelo di Giovanni – su cui si fonda tutta la tradizione mistica occidentale a seguire – il primato della vita in tutte le sue diverse accezioni è la matrice concreta della spiritualità nelle sue forme più elevate. È allora lecito riscoprire in contesti tra loro anche molto diversi, dalla poetica all’estetica fino alla prassi yogica o alla fenomenologia husserliana tratti di un filo comune che unisce il vasto campo delle esperienze umane. La percezione/emozione della nostra vitalità interna può essere considerato questo fil rouge.

Eric Barét

Nel tuo libro precedente, La dea che scorre, resoconto dei tuoi studi sul campo in Assam, accenni a un probabile contatto tra la tradizione tantrica indiana e quella taoista. In effetti, e non è solo una mia impressione, osservando la pratica e la gestualità di Eric Barét o di Nathalie Delay è difficile non notare un’affinità con il Qi Gong e con le arti marziali ‘interne’ (che del resto, mutatis mutandis, implicano un approccio intimamente tattile all’energia vitale), più che con le varie filiazioni dello Haṭha–yoga moderne e premoderne. Ho parlato di gestualità volutamente, in quanto sia in Barét che in Delay sembra quasi una forma di Qi Gong spontaneo. Cosa ne pensi?

Fin dalla prima volta che incontrai lo yoga di Eric Baret dodici anni fa, mi resi conto che si trattava di uno yoga per così dire ‘prāṇico’, che lavorava essenzialmente un corpo fatto di calore vitale, respiro e spazio, relegando a un costrutto mentale il corpo denso, muscolare, generalmente considerato protagonista dello yoga più diffuso. Lavorare la dimensione energetica in una percezione del corpo allargata a comprendere tutta la vastità in cui il corpo è inscritto è una peculiarità dello yoga del Kaśmīr contemporaneo e senz’altro presenta notevoli affinità con il Qi gong tradizionale cinese, che io stessa ho avuto la fortuna di praticare in prima persona con un maestro taoista.

In uno yoga siffatto l’āsana diventa una ‘forma senza forma’. Una forma che attraverso il silenzio e l’immobilità viva che la costituiscono, lascia che i suoi contorni scolorino fino ad abbracciare tutto lo spazio intorno. Scompare allora la percezione fisica della postura in cui si dimora e rimane soltanto ‘il soffio interno’, la calda e vibrante sensazione della vita in noi, che i kaśmīri chiamavano spanda e i taoisti Qi.

Vorrei concludere con tre suggestioni che mi hanno suscitato la lettura del tuo libro. La prima è di un poeta a me molto caro, Yves Bonnefoy: “Ciò che non ha pace è ancora la pace”.
La seconda è di un poeta a me ancora più caro, Milo De Angelis, che abbiamo intervistato qualche tempo fa proprio su questo sito: “L’infinito appare nel poco/come l’ultima nota di un grido/che si dilegua”.
L’ultima suggestione viene dall’ultimo capitolo de Gli imperdonabili di Cristina Campo, intitolato guarda caso “Sensi soprannaturali”. L’ambito sembrerebbe essere proprio distante, infatti si parla di una supplica del mistico greco medievale Simeone Metafraste, ma anche per questo la connessione spicca in modo bruciante: “È perfettamente apparente […] come l’acquisizione dei sensi soprannaturali importi l’oblazione dei naturali: questi gettati in quelli, accesi e consumati in quelli, come le resine preziose nella mischianza del santo crisma. […] Che si possa parlare qui di repressione o di sublimazione è degradante al solo ricordo, e persino una parola del tutto canonica, mortificazione, appare in qualche modo mortificante.”

Bellissime le tre suggestioni che riporti nella tua ultima domanda.
‘Ciò che non ha pace è ancora la pace’ mi ricorda una mattina in Kaśmīr, quando arrivai completamente fradicia alla piccola casa del maestro, in fondo al villaggio. Una tempesta di pioggia mi aveva sorpreso sulla strada fangosa e al mio arrivo venni scaldata e rifocillata con latte caldo. Quindi il maestro mi scrisse queste poche parole su un pezzo di carta: ‘Non c’è pace senza intensità’. In questa breve frase c’è una bella sintesi della visione non duale. La pace può essere assaporata in ogni cosa o situazione, anche in mezzo al freddo di una tempesta di pioggia, anche in mezzo alla ‘non pace’. La pace è intensità.

La quiete è sempre qualcosa di vivo, vibrante come un cuore che batte. In mezzo a quel battito si può dimorare, indisturbati, in āsana.

E allora l’infinito ‘appare nel poco….” per riprendere le parole di Milo De Angelis. In una forma circoscritta – l’āsana appunto – custodita in un corpo immobile, si può avere la percezione dell’immensità di ogni cosa, che si estende ben oltre il nostro limitato orizzonte ordinario.

E a proposito di ‘sensi sovrannaturali’, questa è proprio l’indicazione dello śivaismo kaśmīro. Lo yogin fermo in āsana, dopo aver assaporato pienamente la realtà con tutti i sensi dispiegati, accede a una conoscenza non più sensoriale o forse ‘ultra-sensoriale’. Arriva a intuire l’essenza luminosa e cosciente delle cose, la loro intima bellezza, gratuita e svincolata da giudizi, pregiudizi e conclusioni della mente intellettuale, senza dover più ricorrere ai sensi, ma sviluppando un presentimento, un sentore spirituale. Attraverso l’arte o il rito dello yoga si arriva a presentire, gustandolo, ciò che non è altrimenti conoscibile, poiché ben al di là del nostro campo esperienziale.


Piccola nota finale

Non potevamo ovviamente approfondire qui l’argomento per ragioni di spazio e di tempo, ma anche il precedente libro di Gioia Lussana merita di essere menzionato: La dea che scorre. La matrice femminile dello yoga tantrico, che come accennato più esplora sul campo l’antichissimo culto della dea Kāmākhyā in Assam, tutt’oggi vivo, da cui emergono elementi molto arcaici del fenomeno tantrico che possono contribuire ad allargare ulteriormente gli orizzonti sullo yoga stesso.

Note[+]

Note
↑1 R Torella, “Abhinavagupta’s Attitude towards Yoga” in Journal of the American Oriental Society 139.3 (2019)
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Archiviato in: Articoli, interviste, Yoga Contrassegnato con: asana, Eric Baret, Gioia Lussana, qi gong, tantra, yoga

India immensa idea: intervista con Milo De Angelis

21 Maggio 2020 Francesco Vignotto

La linea di confine tra l’Essere e in Non-essere impressiona e spaventa l’intelletto, perché su quel confine l’intelletto scompare. Questo limite è detto il Maha Yoga. (…)
Tu devi stare su quel confine, quel limite che è detto Maha Yoga. Devi scoprire la profondità di quello stato che porta il nome di “nascita”.

Nisargadatta Maharaj

Ciò che stupisce di Milo De Angelis – ed è il motivo per cui lo interpelliamo su queste pagine – è come attraverso lo scavo poetico abbia sondato la profondità di quel confine indicato dal suo amato Nisargadatta, soglia o ferita a seconda dei punti di osservazione, senza mai perdere lo stupore di chi apre gli occhi per la prima volta, e assumendosi tutti i rischi di constatare la finitezza dell’io di fronte all’ignoto. Certo, lo fa ‘laicamente’, e forse proprio per questo con inaudita autenticità.

Tra i più importanti poeti italiani degli ultimi cinquant’anni, milanese, insegnante in un carcere di massima sicurezza, profondamente radicato nella cultura greco-latina, da sempre affascinato – anche nella pratica – dal gesto atletico e dalle arti marziali: a queste eterogenee vene biografiche e poetiche nell’opera di Milo De Angelis si affianca il vasto orizzonte del pensiero indiano, grazie non solo a un appassionato studio, come emerge da tre capitoli del suo saggio appena ristampato Poesia e destino, ma soprattutto all’urgenza di confrontarsi con un mondo inconoscibile e non delimitabile dalle categorie del pensiero, l’advaita.

E sono proprio questi “contrasti magistrali” tra una Milano suburbana, la Grecia e l’India, che ci permetteranno di parlare assieme a lui senza soluzione di continuità di campi di atletica e di infinito, di Mahābhārata e di Leopardi, di arti marziali e di Dostoevskij. Ringraziandolo per l’estrema gentilezza e la disponibilità ad approfondire con noi questi temi (ringraziamo anche Viviana Nicodemo per la foto di copertina).

 (...) Nessun uomo
saprà imbrattare la salvezza
di questa India che mi ossessiona:
non è una vela né un mantra, certo, ho già
fatto chilometri verso nord, ho già saputo
che morirò in periferia, con l'intelligenza minerale
e un gettone per tacere: ma ciò
che soffrivo non ero io, né la vetta offuscata
toglie ai viandanti lo slancio verso la civiltà.
“Ronefor”, da Terra del viso

Intervista a Milo De Angelis

Che cos’è – o cosa è stata – l’India per Milo De Angelis, soprattutto in confronto-contrasto con altri due luoghi della sua poesia: Milano e la Grecia? 

La Grecia, Milano e l’India costituiscono per la mia poesia una sorta di triangolo sacro, come quello di Pitagora. Ognuno dei tre lati percorre un determinato arco temporale: la Grecia è il passato remoto, Milano è il presente dei versi e l’India è il futuro dell’utopia, la creatura a cui tendo da sempre senza poterla raggiungere, il luogo del silenzio e dell’infinito, la sillaba in cui entra il mondo, come dice la Māṇḍūkya Upaniṣad. Non posso nemmeno immaginare la mancanza di uno dei lati. La Grecia e il suo universo regolare e circoscritto si spalanca negli abissi indiani. E dentro il terzo lato – ossia dentro l’archetipo della città – confluiscono il dramma inquieto e singolare della civiltà ellenica e il soffio cosmico di quella vedica.

Nisargadatta Maharaj

Ricorre l’idea – e non solo nel pensiero indiano – che l’essenziale non possa essere espresso a parole. Qual è il rapporto tra la poesia e ciò che non può essere detto? (Nota: questa domanda mi è venuta in mente leggendo le riflessioni sull’andare a capo: “(…) una spaccatura improvvisa, incatenata a quella storia e al tempo stesso ignara di essa (…)”).1Milo De Angelis, Poesia e destino, Crocetti, 2019

Hai toccato un punto cruciale. Se l’India costituisce un luogo di infinita attrazione e al tempo stesso di infinita distanza, è proprio per la questione della parola, che in molti pensatori orientali viene svalutata o addirittura sentita come un ostacolo nel cammino verso la verità. Per me naturalmente è impensabile un universo separato dal suo alfabeto e questo lo dico in quanto poeta ma anche in quanto allievo di Lacan e del suo perentorio rifiuto di credere a una realtà non verbale, come afferma il suo celebre aforisma che definisce ciascuno di noi “un effetto del linguaggio”. Devo dire comunque che ci sono eccezioni e differenze tra le varie Upaniṣad e che i miei maestri indiani più importanti sono creature appassionate alla parola nelle sue varie forme: tagliente e affilatissima in Nisargadatta, poetica e fiabesca in Krishnanurti.

“Adesso quello che ho vissuto diventa/imprevedibile come quello che vivrò”.  Vorrei che ci parlassi del tempo, che nella tua poesia è tutt’altro che addomesticabile a un principio lineare. 

I versi che hai citato sono tra quelli che sento più biografici. Nella mia esistenza, da sempre, il passato ha avuto la violenza di una valanga che precipita nel tempo attuale, lo travolge e lo sconvolge. Tutto è così remoto da diventare imminente. Tutto è così perduto da accadere tra un istante. I tempi nella mia poesia e nelle mie giornate si intrecciano e si feriscono continuamente, ed è la violenza di questo impatto a farmi paura: passato prossimo che si fa remoto e poi trapassato e poi infinito presente, con urti, sangue e ferimenti di un tempo contro l’altro, un gioco al massacro. E oltre a questo c’è il sentimento dell’eterno. Non in senso cristiano, cioè pacificato, ma in un senso vicino a Leopardi, ateo e attonito, solitario e sbigottito di fronte alla distesa degli astri. Questo mi allontana dal mondo greco-latino e dalla sua fisica tendente alla misura, dal suo horror infiniti. E mi avvicina ancora una volta all’Oriente, che sull’eternità ha fatto precipitare la forza della sua speculazione e dei suoi miti. Ricorderò sempre le parole del Mahābhārata: “Tu mi chiedi cosa è l’eternità? Mi chiedi di farti capire la sua potenza e la sua durata? Ebbene, sappi che al di là delle ultime montagne c’è una grande pianura e in questa pianura c’è un cubo di granito di mille chilometri per lato e ogni mille anni giunge un uccellino che dà un colpo di becco a questo cubo. Ecco, quando tutto il cubo verrà disfatto, allora sarà passato un giorno dell’eternità”.

Jiddu Krishnamurti

Cosa hanno significato per te Nisargadatta Maharaj e Jiddu Krishnamurti?

Nisargadatta Maharaj ha rappresentato per me l’impossibile. Mi ha costretto a un’impresa superiore alle mie forze ma entusiasmante, mi ha portato a misurarmi con un’altissima forma di pensiero: questo sapiente di Bombay, questo umile tabaccaio illuminato compie una scalata formidabile e arriva al culmine dell’advaita-vedanta, monismo assoluto e senza concessioni, così assoluto da far impallidire Berkeley, Spinoza o qualunque forma di panteismo di nostra conoscenza. Comprendere il suo messaggio e la sua invulnerabile certezza è una sfida suprema per chiunque si sia formato sul pensiero greco-latino. E così è stato per me quando l’ho letto per la prima volta nel 1981, sfogliando le pagine limpide e al tempo stesso misteriose di Io sono Quello, che il benemerito Elémire Zolla ha fatto pubblicare in Italia2Nisargadatta Maharaj, Io sono quello, Rizzoli, 1981. in un periodo difficile, quando parlare di queste visioni “esoteriche” era severamente proibito dall’ideologia corrente. Quanto a Jiddu Krishnamurti, ho voluto conoscerlo di persona insieme a uno dei suoi maggiori studiosi italiani – Giovanni Turchi delle edizioni Aequilibrium – dopo avere letto La sola rivoluzione, il suo libro più poetico.3Jiddu Krishnamurti, La sola rivoluzione, Astrolabio-Ubaldini, 1973. E ho incontrato a Saanen un uomo cristallino e identico alle sue parole, capace di slanci lirici e di adesioni sensitive alle cose del mondo, specialmente nei suoi libri “monodici” (più che nei dialoghi, spesso trascritti da altri) come quello che ho citato poco fa; e in seguito, negli anni ottanta, Taccuino e Diario.

Da Quell’andarsene nel buio dei cortili

Il gesto atletico, le arti marziali, l’haṭhayoga: sono tre vie che utilizzano il corpo e che, almeno nei primi due casi, sono una presenza costante nella tua poesia. Ritieni che siano mondi inconciliabili? Penso ad esempio a “Ecco l’acrobata della notte” dove l’atleta al tempo stesso è presentato come un asceta. 

Tutt’altro che inconciliabili. C’è nella mia visione del gesto atletico un aspetto agonistico e battagliero, impegnato in una sfida con l’altro, ma c’è anche l’aspetto ascetico che tu hai detto, la solitudine e lo scavo interiore attraverso lo scavo nel corpo, come quando il funambolo amico di Zarathustra entra in uno stato di trance fuori dal tempo, dove tutto è corporeo e insieme immateriale, fisico e insieme impermanente. E l’acrobata della notte racconta questa sospensione del flusso cronologico, come le grandi figure nietzschiane del danzatore e dell’equilibrista sospeso nel vuoto.

L’idiota di Dostoevskij

Mi ha colpito molto, ma non sorpreso, che in Poesia e destino tu abbia visto l’India nel Principe Myskin. Puoi parlarcene?

Il Principe Myskin è un uomo interamente puro, incapace di calcolo o doppiezza, portato a comprendere le verità di chi gli parla anche quando sono sepolte in una grotta profonda. Ed è un uomo capace di sorprendersi più di ogni altro, di rimanere incantato per il movimento minimo di una foglia o di un cuore umano. Questo fa di Myskin un maestro vicino all’Oriente, ossia un uomo che accoglie l’infinita varietà del mondo flettendosi come un giunco e non opponendosi frontalmente all’impatto, come insegnano le arti marziali. E tale maestria lo rende nel medesimo tempo uno Specchio dell’altro, una creatura dove ognuno di noi trova l’immagine di se stesso di fronte ai propri occhi, come intuisce Rogožin quando gli parla del suo amore folle per Nastasja Filippovna e con lui – e soltanto con lui – accetta di vegliare il suo corpo per una notte intera.

“L’infinito appare nel poco/come l’ultima nota di un grido/che si dilegua”. Forse è un po’ azzardato, ma questi versi, oltre a essere bellissimi in sé, mi sono sembrati una sorta di maturazione di quella che probabilmente è la tua chiusa più celebre: “In noi giungerà l’universo,/quel silenzio frontale dove eravamo/già stati”. Cosa ne pensi?

C’è un sotterraneo legame tra i versi di Millimetri e i versi che hai citato. In un lungo dialogo sul tema del silenzio 4Il Silenzio. Milo De Angelis intervistato da Corrado Benigni. “Doppiozero”, 21 marzo 2020. https://www.doppiozero.com/materiali/il-silenzio-intervista-con-milo-de-angelis. ho raccontato che i primi nacquero vicino a un campo di atletica dove andavo ad allenarmi per i campionati regionali. Restavo sempre colpito, guardando gli atleti del salto in alto, da quei pochi centimetri tra il corpo e l’asticella che sancivano la riuscita del loro gesto, quella minima striscia di luce che portava la buona novella del salto riuscito. Ed ecco che l’infinito si profilava già allora in un luogo piccolissimo, una manciata di atomi e di istanti, come se l’intero universo convergesse in quella fettina di spazio e la riempisse di un significato favoloso. D’altra parte è proprio della poesia dire qualcosa di immenso con un pugno di parole, concentrandole fino al loro nucleo essenziale, riunendo in una sola frase mille esperienze e mille incontri e trasformando così quella lieve entità in un tempo originario, il tempo in cui eravamo già stati.

Il tuo prossimo libro si intitola “Linea intera, linea spezzata”, puoi dirci qualcosa a riguardo (e qualcosa sul titolo)? 

Dirò innanzitutto che il titolo ha un legame con l’Oriente e si riferisce all’antica sapienza cinese dell’I Ching, il Libro dei Mutamenti, dove la figura divinatoria a noi destinata risulta da un insieme di tre linee, che possono essere intere o spezzate. Detto questo, il titolo dovrebbe poi camminare per conto suo (almeno spero) e portare con sé altre immagini, altre allusioni e altri significati, con tutto il campo simbolico percorso da un aggettivo come “intero” e da un aggettivo come “spezzato”, tanto che l’ultima sezione è dedicata alla linea interrotta di coloro che si sono tolti la vita ed è un lungo viaggio nel girone terreno e ultraterreno dei suicidi, con incontri a volte drammatici e a volte sorprendenti, portatori di verità sconosciute.

Nota bio-bibliografica

La raccolta di tutte le poesie uscita nel 2017

Milo De Angelis è nato nel 1951 a Milano e ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: Somiglianze (Guanda, 1976); Millimetri (Einaudi, 1983, ristampato da Il Saggiatore nel 2013); Terra del viso (Mondadori, 1985); Distante un padre (Mondadori, 1989); Biografia sommaria (Mondadori, 1999); Tema dell’addio (Mondadori, 2005); Quell’andarsene nel buio dei cortili (Mondadori, 2010) e Incontri e agguati (Mondadori, 2015). Ha scritto un racconto fantastico (La corsa dei mantelli, Guanda, 1979, ristampato da Marcos y Marcos nel 2011) e un volume di saggi (Poesia e destino, Cappelli, 1982, ristampato da Crocetti nel 2019). Nel 2017 tutte le sue poesie sono state raccolte in un unico volume con l’aggiunta di una sezione di poesie giovanili inedite (Tutte le poesie 1969-2015, Mondadori, 2017).

Il suo prossimo libro, Linea intera, linea spezzata, è previsto per la fine di quest’anno.

Note[+]

Note
↑1 Milo De Angelis, Poesia e destino, Crocetti, 2019
↑2 Nisargadatta Maharaj, Io sono quello, Rizzoli, 1981.
↑3 Jiddu Krishnamurti, La sola rivoluzione, Astrolabio-Ubaldini, 1973.
↑4 Il Silenzio. Milo De Angelis intervistato da Corrado Benigni. “Doppiozero”, 21 marzo 2020. https://www.doppiozero.com/materiali/il-silenzio-intervista-con-milo-de-angelis.
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Yoga, o la (re)invenzione di una tradizione: intervista a Marco Passavanti

11 Dicembre 2018 Francesco Vignotto


Per questa intervista ho voluto rispolverare L’invenzione della tradizione, lettura che risale ai miei ormai lontani anni come studente universitario, perché è un titolo che ricorre spesso nella mia mente quando si parla delle origini dello yoga e dei suoi spesso fumosi rapporti con la pratica odierna.

La raccolta di saggi curata da Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger narrava come negli ultimi due secoli le tradizioni ritenute antiche fossero spesso utilizzate per stabilire una continuità con il passato e rafforzare l’identità e il senso di appartenenza. Nel contesto delle società di massa, tuttavia, erano svuotate dei significati originari. E, particolare di non secondaria importanza, sia le tradizioni, sia il passato a cui si ricollegavano erano spesso il frutto di un’invenzione recente, dal cerimoniale della monarchia britannica ai kilt che contraddistinguevano i clan scozzesi.

Potremmo dire che qualcosa di simile, da un certo punto di vista, è accaduto anche allo yoga moderno? Fino a pochissimi anni fa, lo yoga era ritenuto – fatta eccezione per le derive ‘commerciali’ dello yoga occidentalizzato – un prodotto astorico giunto a noi direttamente dall’antichità vedica. Oggi, grazie agli studi pionieristici degli ultimi anni, sappiamo che le cose non sono andate esattamente così.

Eppure, anche relegare lo yoga come un ennesimo caso di ‘invenzione della tradizione’ è ancora una verità parziale. La realtà che emerge dagli studi in corso è molto più complessa e siamo ben lontani dal poter giungere a conclusioni definitive; si sollevano questioni molto delicate che riguardano temi come l’appropriazione culturale, la spiritualità come mercato, le dissonanze cognitive nella traduzione tra diverse culture ma anche i nuovi significati che nel frattempo lo yoga ha assunto (temi esemplarmente esposti già una decina di anni fa da Federico Squarcini e Luca Mori in Yoga: tra storia, salute e mercato).

Una delle vere novità, nel frattempo, è che questi studi, pur destabilizzando parecchie delle idee sullo yoga, una volta tanto non sembrano allontanare e contrapporre il mondo dei praticanti e il mondo degli studiosi. Ne abbiamo parlato con Marco Passavanti, che può essere considerato uno degli esempi di questo avvicinamento.

Marco è dottore di ricerca in civiltà, società ed economia del subcontinente indiano presso la Facoltà di studi orientali dell’Università ‘La sapienza’ di Roma. Marco ha conseguito il diploma in  lingua e cultura tibetana presso l’IsIAO di Roma ed è autore di diversi studi sulle tradizioni del buddhismo indo-tibetano, tra cui Ippolito Desideri, un gesuita tra i lama del Tibet (2014). Nel 2019, uscirà presso Ubaldini la sua traduzione di Roots of Yoga di James Mallinson e Mark Singleton.

Parallelamente alla formazione accademica, Marco ha coltivato sin da giovanissimo la pratica dello yoga, formandosi con Claude Marèchal, allievo diretto di T. K. V Desikachar, e pioniere della diffusione della tradizione del Viniyoga in Occidente. Attualmente si dedica alla formazione di insegnanti nell’ambito di diversi percorsi formativi presso l’AYCO di Roma e Il Mondo Yoga di Parma.
Marco Passavanti

Perché è importante, oggi, lo studio anche accademico delle tradizioni legate allo yoga, per insegnanti e praticanti? Fino a qualche tempo fa (e in parte anche ora) si rischiava di essere accusati di essere ‘troppo mentali’…

Occorre innanzitutto chiarire un punto: quello che definiamo studio accademico dello yoga consiste principalmente nell’analisi rigorosa dei testi, delle testimonianze storiche e dei discorsi relativi allo yoga, allo scopo di tracciarne le origini, gli sviluppi e gli esiti. Ovviamente, le conclusioni a cui giungiamo non sono mai definitive; nuovi studi, nuovi documenti, nuovo materiale possono mettere in discussione le conclusioni precedenti o aprire nuovi percorsi di ricerca.

Questo metodo di studio aperto e inquisitivo spesso è in conflitto con le narrazioni dogmatiche e le credenze settarie di guru o di istituzioni che si riallacciano a concezioni religiose hindu o buddhiste. Tale conflitto vede a volte contrapposti gli «scholars» e i «practitioners», entrambi diffidenti gli uni degli altri. A mio modo di vedere queste due etichette hanno sempre meno senso oggi: molti studiosi sono anche praticanti, o interessati alla dimensione filosofica ed esistenziale dell’oggetto che studiano, e molti praticanti sono anche studiosi, o quantomeno conoscono e apprezzano gli studi accademici sullo yoga, e in generale sulle religioni e le filosofie dell’Asia. Per quanto riguarda l’Italia, siamo ancora indietro rispetto al mondo anglofono o francofono: molte opere fondamentali sullo yoga e la sua storia sono in attesa di essere tradotte e pubblicate. Ritengo però che la situazione sia destinata a cambiare a breve.

È significativo che in molti corsi di formazione è ormai una consuetudine acquisita includere moduli di introduzione al pensiero indiano tenuti da studiosi accademici. Il detto secondo cui lo yoga è «novantanove percento pratica e un per cento teoria» andrebbe radicalmente ripensato: chi insegna yoga oggi in Occidente non può fare a meno di una solida formazione intellettuale che prevede lo studio dei testi e della storia dello yoga, nonché una riflessione critica sugli sviluppi dello yoga nella modernità.

A mio giudizio, la figura dell’insegnante di yoga dovrebbe essere quella di un operatore culturale a cui spetta il compito delicato di divulgare correttamente concetti, pratiche e dottrine provenienti da un contesto culturale molto differente dal nostro.

Una delle novità più rilevanti di questi ultimi anni per praticanti e insegnanti è il concetto di Modern Yoga o Modern Postural Yoga, ovvero che lo yoga che oggi pratichiamo – compreso quello che rivendica la fedeltà a una tradizione – presenta dei caratteri fortemente innovativi e ibridi rispetto allo yoga premoderno. La domanda però è inevitabile: che cosa è lecito (o plausibile) chiamare yoga e cosa non lo è, oggi? 

Negli ultimi decenni molti studiosi hanno messo in luce, con argomenti difficilmente contestabili, quanto molte forme di yoga praticato in India nel tardo periodo coloniale e oggi in Occidente siano lontane dai modelli premoderni: se uno yogin di duemila, mille, o anche soltanto di duecento anni fa potesse partecipare a uno yoga festival faticherebbe non poco a riconoscere qualcosa di familiare in quello che chiamiamo comunemente yoga.

Se nei modelli antichi è soprattutto l’aspetto della meditazione (dhyāna) a definire lo yoga, oggi «fare yoga» significa nella gran parte dei casi eseguire una serie di posture (āsana), molte delle quali non sono descritte in nessun testo premoderno. Inoltre, quelle poche posture che possono vantare una storia millenaria o centenaria hanno spesso scopi e funzioni che non sempre corrispondono a quelli descritti nei manuali contemporanei.

Lo yoga praticato attualmente in Occidente (e in misura sempre crescente anche in India) è stato perciò definito «yoga posturale moderno», dato che si basa quasi interamente sulla pratica degli āsana. A complicare il quadro c’è il fatto che molti guru o figure di spicco dello yoga posturale moderno rivendicano una fedeltà assoluta al modello tradizionale, richiamandosi a figure come Patañjali.

Per rispondere alla domanda su cosa sia lecito chiamare yoga oggi, bisogna innanzitutto lasciare andare l’idea che esista uno yoga perenne, immutabile, svincolato dalla storia: lo yoga posturale rappresenta uno sviluppo, un adattamento e in certi casi un completo stravolgimento, di modelli indiani precedenti, a loro volta esito di processi lunghissimi di evoluzione.

Non si può comprendere lo yoga di oggi se non si ha un quadro chiaro di cosa è successo in India negli ultimi duecento anni. Lo yoga premoderno (primo tra tutti l’haṭhayoga) ha infatti subito un processo di adattamento e ripensamento nel contatto con idee provenienti dal mondo occidentale: il razionalismo scientifico, l’occultismo e la teosofia, le forme di cultura fisica europee, le idee e le pratiche salutistiche, le medicine alternative e la psicanalisi, la controcultura degli anni sessanta, la new age, eccetera.

Le pratiche di āsana proposte oggi in uno yoga studio di New York o di Milano possono certamente essere definite «yoga», a patto però di rinunciare all’idea che esse rispecchino fedelmente le forme tradizionali. Rispetto al passato sono mutati radicalmente il contesto sociale e gli scopi stessi della pratica. Alcune tecniche sono rimaste quasi invariate, altre sono scomparse, alcune hanno cambiato forma e scopo, o sono state rimpiazzate da pratiche ginniche, calisteniche o sportive di varia provenienza.

Pochissimi yogin occidentali sono asceti casti che vivono di elemosine e aspirano alla realizzazione di poteri sovrannaturali (siddhi) e alla liberazione dal ciclo opprimente delle rinascite (saṃsāra); la maggior parte vive in contesti urbani, ha un profilo su Instagram, un lavoro stressante, una vita affettiva e sessuale, disagi psicologici più o meno importanti, frequenti mal di schiena, e desidera superare indenne la prova costume.

Nel migliore dei casi questo yoga va incontro alla ricerca di senso e alle aspirazioni legittime di chi lo pratica: oggi come ieri esalta il valore di una serie di scelte etiche, di una mente vigile, amorevole e silenziosa, e l’importanza del respiro e del corpo come strumento di lavoro su di sé. Nel peggiore dei casi questo yoga è una delle mille forme di intrattenimento che il mercato propone; un intrattenimento vagamente spirituale ed esotico, o un workout alla moda, destinato prima o poi a essere accantonato o soppiantato da nuovi prodotti, come ogni merce.

L’approccio visivo ha avuto un’importanza capitale sia nella formazione dello yoga moderno, sia nel boom di questi ultimi vent’anni, con una drastica accelerazione dovuta ai social network. Quali pensi siano le ripercussioni di questo fenomeno? Tu ad esempio vieni da una scuola che è in netta controtendenza con questo… 

È innegabile che il successo di molte tradizioni di yoga posturale moderno sia il risultato diretto di un approccio visivo. Per accorgersene basta sfogliare un testo come Light on Yoga di B. K. S. Iyengar, uno dei primi manuali di pratica degli āsana, dove ciascuna delle centinaia di immagini che contiene è divenuta oggi un’icona pop.

I mezzi di comunicazione non fanno che accentuare questa tendenza, con il risultato che lo yoga viene identificato da milioni di persone con l’esecuzione di posture complesse, acrobatiche, che richiedono doti fisiche non comuni e che al tempo stesso, non si capisce bene come, hanno anche una dimensione «spirituale».

La sensazione è che una gran parte degli yogin contemporanei viva come davanti a uno specchio, finendo per essere costantemente impegnata a osservarsi dall’esterno e a essere osservata, nel tentativo faticoso di imitare modelli pressoché irrealizzabili di forza e flessibilità, di allineamento e perfezione estetica.

Dietro tutto questo fenomeno si avverte la tensione e la frustrazione tipica del mondo globalizzato tardo capitalista: la modella e yoga-celebrity che esegue alla perfezione rājakapoṭāsana in un elegante resort a Bali, dall’alto del suo Olimpo ricorda ogni giorno a milioni di persone quali sono le priorità e cos’è la felicità. Il colmo è quando la stessa modella, nei suoi post su facebook, ci esorta ad «accettarci così come siamo», oppure a «realizzare il nostro vero sé», magari con un oṃ śānti finale.

T. K. V. Deiskachar

La tradizione del Viniyoga di Krishnamacharya, trasmessa da suo figlio Desikachar, nella quale mi sono formato e in cui mi sento a casa, rappresenta per molti versi una tendenza contraria: raramente l’insegnante mostra le posture (quasi sempre chiede l’aiuto di un’altra persona), e la pratica degli āsana si basa essenzialmente su posture ordinarie non particolarmente «spettacolari» (anche se in linea generale non sono escluse le posture dette viśeṣa, o «straordinarie»).

Nell’approccio del Viniyoga viene data grande importanza allo yoga individuale, e benché sia dato ampio spazio alla pratica collettiva, si sottolinea sempre la necessità imprescindibile della pratica «solitaria», svolta in uno spazio intimo e appartato. A ben vedere, questo è il modo in cui la pratica dello yoga è stata intesa per millenni: alcuni passi della Haṭhapradīpikā o della Gheraṇḍasaṃhitā (per menzionare solo i testi più noti) raccomandano allo yogin di praticare in reclusione, lontano da occhi indiscreti e distrazioni sociali, e forniscono istruzioni dettagliate sullo spazio della pratica. Siamo lontanissimi dai megaraduni a Times Square e dalle pose su Instagram o Facebook.

L’approccio visivo induce a un’altra riflessione: è plausibile un esoterismo di massa, o il massimo che abbiamo ottenuto è un po’ di inevitabile folklore?

Un esoterismo di massa è di per sé un ossimoro. L’esoterismo per definizione presuppone un’élite di «iniziati» e una massa di «profani». È indubbio che lo yoga sia nato in un contesto esoterico, o quantomeno sia stato elaborato e trasmesso all’interno di gruppi ristretti ed esclusivi, spesso vincolati a voti di segretezza.

Helena Petrovna Blavatsky

Le opere di teosofi come Blavatsky, Bailey e Leadbeater, di figure come Guénon, Vivekananda, Aurobindo, Jung, Avalon, Eliade, Evola, Osho, di tantissimi altri autori appartenenti alla galassia new age o della «nuova spiritualità», hanno fatto conoscere a un pubblico vastissimo idee e pratiche esoteriche tramandate all’interno delle tradizioni religiose asiatiche, contribuendo in modo significativo a orientare e spesso a distorcere la percezione che oggi abbiamo di esse.

In molti casi si tratta di fenomeni di appropriazione culturale: si colgono elementi decontestualizzati di un’altra cultura, si interpretano selettivamente i documenti (spesso basandosi su pessime traduzioni), e si organizza il materiale secondo una propria agenda, o seguendo le mode culturali del momento. L’inevitabile «folklore» che ne scaturisce balza subito agli occhi degli osservatori più attenti: gli onnipresenti Gaṇeśa negli yoga studio, il tantra per coppie, lo yoga sciamanico, il karma e la legge di attrazione, le frasi che il Buddha non ha mai detto, gli oṃ sulle magliette, i namastè, i saponi e i profumi abbinati ai cakra, i trattamenti «energetici», i kirtan mal pronunciati e mal tradotti, eccetera, eccetera. Uno dei contributi fondamentali delle discipline accademiche che studiano le culture asiatiche è stato quello di aver messo in luce questi fenomeni, dimostrando quanto i processi di appropriazione culturale abbiano condizionato la nostra percezione.

Provo a esagerare un po’: la salute totale, la perfetta simmetria del corpo, la rimozione dell’impuro, il rilassamento e la meditazione per essere più efficienti e sopportare più stress al lavoro, il controllo delle emozioni, il controllo del respiro, il controllo dei pensieri, il controllo degli sfinteri. Quanto è alto il rischio che lo yoga di massa – e le motivazioni che lo alimentano – producano generazioni di nevrotici che sanno fingere più o meno bene di non esserlo? 

È una domanda complessa a cui non è facile dare una risposta. Non c’è dubbio che l’aspetto del controllo sia una parte fondamentale della disciplina yogica sin da tempi remoti: molte tecniche dello yoga sembrano voler andare in una direzione opposta al corso delle cose, controllando il respiro, la postura, i sensi, la mente, il processo della morte, a volte sfidando le leggi stesse della natura.

Nello yoga premoderno, come praticato ad esempio in India o in Tibet, questo aspetto del controllo, dell’«aggiogare», ha tuttavia una precisa funzione soteriologica ed è posto all’interno di una cornice più ampia, di una precisa visione del mondo. Al contrario, nello yoga contemporaneo transnazionale questo aspetto del controllo è spesso decontestualizzato, e i suoi scopi variano notevolmente rispetto a quelli tradizionali.

L’odierno lifestyle yogico, fatto di salutismo, veganesimo, pensiero positivo, apertura del cuore, terapie alternative e routine quotidiane è un fenomeno dalle mille sfaccettature. C’è chi giustamente aspira a vivere una vita sana e a ritrovare la salute, c’è chi non si arrende al grigio e vuole sentirsi vivo, o ancora c’è chi cerca di combattere lo stress e di trovare, almeno per un’ora, un po’ di tranquillità, per quanto relativa. A volte però il ricorso a tecniche yogiche o meditative si rivela un cavallo di troia che può nascondere ogni genere di nevrosi, trasformandosi in un rituale giornaliero ossessivo e narcisistico, o in una ricerca spasmodica di visibilità, o ancora in una dose quotidiana di endorfine.

Baba Ramdev, il perfetto rappresentante dello yoga come soft power nell’India contemporanea

Lo Yoga è oggi anche un formidabile strumento di propaganda da parte del governo nazionalista indiano. Quando vedo insegnanti di yoga leggere durante l’IYD il messaggio del Primo Ministro Modi ho un brivido… Credi che esista il pericolo per i praticanti di fare da grancassa all’hindutva, nell’ingenua convinzione che tutto ciò che arriva dall’India sia buono? 

Credo sia un rischio concreto e decisamente sottovalutato. È evidente che l’attuale governo indiano usi lo yoga in chiave identitaria, arrogandosi il diritto di stabilire cosa sia il «vero yoga» tramite il Common Yoga Protocol. È un’operazione che implica una radicale idealizzazione dell’India vedica, e in generale della tradizione hindu. Ci si rifà al «buon tempo antico», quando la società indiana era rigidamente e armoniosamente divisa in classi e aderiva ai principi del sanātanadharma, non c’erano mussulmani, buddhisti, inglesi e comunisti, tutti praticavano lo yoga, si curavano con l’āyurveda ed eseguivano la sequenza del sūryanamaskāra ogni mattina.

Ovviamente quest’India non è mai esistita; è un mito identitario al pari della Roma dei Cesari sotto il fascismo. Purtroppo, è un mito a cui credono ingenuamente anche molti occidentali poco informati e affascinati dall’India, immaginata come una terra di eterna saggezza dove tutto è «spirituale» (anche il sesso!), lontanissima dal gretto Occidente cristiano, corrotto e materialista.

Parliamo del corpo sottile: lo yoga moderno lo implica e ne disquisisce spesso come di una realtà anatomica di cui siamo dotati per nascita – spesso stabilendo rapporti più o meno plausibili con l’anatomia fisica. D’altro canto, gli studi sulle tradizioni tantriche ci mostrano una realtà più complessa, simbolica e iniziatica. È possibile un punto di incontro, oppure i modelli epistemologici sottostanti alle pratiche tradizionali sono inservibili al praticante di yoga moderno?  

Il tema del «corpo sottile» (sarebbe più corretto definirlo «immaginale» o «yogico») è un ambito in cui vediamo all’opera quelle dinamiche di appropriazione culturale di cui abbiamo appena parlato. Nelle tradizioni yogiche tantriche e nel successivo haṭhayoga il corpo immaginale è un sistema che ha senso solo se teniamo conto delle concezioni metafisiche e dottrinali delle diverse scuole; si tratta a tutti gli effetti di un modo di «incarnare» la propria tradizione di riferimento.

Il corpo yogico è infatti una realtà che viene creata dallo yogin nel rituale e nella meditazione, e si basa su un complesso processo di evocazione meditativa (bhāvanā). Nello yoga moderno questo tema viene completamente reinterpretato e spesso stravolto, secondo una modalità creativa e in certi casi dilettantistica.

In Occidente le concezioni relative al corpo sottile hanno di fatto cominciato a vivere di vita propria, svincolandosi quasi completamente dalle concezioni premoderne. Una serie di autori, a cominciare dai teosofi e da molti guru neo-hindu, hanno utilizzato il modello dei cakra, delle nāḍī, del prāṇa e della kuṇḍalinī, ed esposto in una manciata di testi antichi, come un’utile griglia simbolica che può includere ogni sorta di associazioni.

È utile dare una scorsa alla bibliografia contenuta nei manuali sui cakra oggi più venduti: oltre all’immancabile Arthur Avalon, si tratta sempre di letteratura secondaria, di autori occidentali e di guru indiani moderni, quasi mai di testi antichi. In sostanza ci si basa su una catena di interpretazioni di altre interpretazioni per operare una sorta di bricolage esoterico in cui ciascuno è libero di assemblare come meglio crede elementi eterogenei dalle provenienze più disparate: cakra, note musicali, ghiandole endocrine, tarocchi, divinità pagane, rune, arcangeli, pietre e cristalli, eccetera.

Il sistema a sette cakra, divenuto il modello oggi universalmente riconosciuto

Il sistema del corpo sottile è qui concepito, nelle sue versioni più ingenue, come un sistema perenne, innato, legato soltanto in modo accidentale alla cultura che lo ha prodotto. Si tratta di un’operazione tutto sommato innocua se si ha ben chiaro che si tratta di evoluzioni moderne che hanno soltanto una vaga relazione con i modelli antichi.

Se però riteniamo che i bestseller di Anodea Judith o di Deepak Chopra riflettano «l’antica scienza dei cakra» stiamo prendendo un grosso abbaglio. Cosa dovremmo fare dunque se volessimo praticare oggi le tecniche tradizionali di evocazione del corpo yogico? Provo a dare una risposta riferendomi alla tradizione che conosco meglio, quella del Vajrayāna, così come praticato oggi nelle scuole tibetane. È innanzitutto necessario un guru competente che, dopo averci insegnato una serie di pratiche preliminari (che richiedono anni), impartisca iniziazioni e istruzioni, e che ci guidi in un complesso processo meditativo, che solitamente comprende lunghi periodi di pratica intensiva (non basta qualche seminario di un weekend).

Questo processo prevede complesse ed elaborate visualizzazioni, il controllo del respiro e la recitazione di mantra. Ci sono molti occidentali che hanno scelto di intraprendere queste pratiche, ma in questo caso si tratta di un salto culturale notevole, dal momento che implica la conversione a una religione, e l’adesione totale a un sistema di valori.

Roots of Yoga, che hai tradotto e che uscirà in italiano nel 2019, è importante non solo per le strade che ha aperto nel rintracciare l’origine dello Yoga premoderno (oltre ad aver sfatato il mito di un’unica origine e un’unica tradizione ininterrotta), ma anche per quelle che non ha indagato o ha appena accennato. Quali sono secondo te le direzioni e le tradizioni che potrebbero essere ulteriormente indagate?

L’importanza di un’opera come Roots of Yoga è stata quella di svecchiare di almeno cinquant’anni il panorama degli studi sullo yoga, divulgando una mole enorme di traduzioni di testi originali finora noti soltanto a pochi specialisti, e includendo nella sua sterminata bibliografia tutti i migliori studi oggi disponibili sullo yoga. Si tratta di un libro che manda definitivamente in pensione testi come Yoga, immortalità e libertà di Eliade, che al confronto appare ormai irrimediabilmente datato. Mi ritengo fortunato ad avere avuto l’onore e il piacere di tradurre questo libro, dal quale non smetto di trarre suggestioni e spunti di riflessione e ricerca.

Come è ovvio, lo yoga è un fenomeno troppo complesso per poter essere trattato in modo esaustivo nell’arco di cinquecento pagine. L’opera si concentra molto sulle tradizioni medievali dell’haṭhayoga, e trascura in parte le tradizioni buddhiste (soprattutto quelle della scuola Yogācāra) che, com’è ormai assodato, hanno dato un contributo fondamentale all’evoluzione delle dottrine yogiche.

Affresco del Tempio Segreto dei Lama del Dalai vicino al Palazzo del Potala, Lhasa, Tibet.

Tu sei un tibetologo, oltre a essere un indologo. Vi sono dei collegamenti possibili tra la tradizione dello haṭhayoga e quella tibetana? Penso ad esempio a quello che oggi è chiamato Yantra Yoga (che, suppongo, nelle versioni popolarizzate abbia subito l’influenza dello yoga moderno di origine indiana)…

Così come un latinista è per forza anche un grecista, un tibetologo è per forza anche un indologo, dato che la cultura e la religione del Tibet affondano le loro radici in India. Lo yantra yoga, in tibetano trulkhor (‘phrul ‘khor), è un sistema (o meglio una serie di sistemi) di yoga fisico, che prevede l’esecuzione di differenti posture dinamiche, di tecniche respiratorie e di manovre che in alcuni casi ricordano gli āsana, i kumbhaka e le mudrā dell’haṭhayoga. Il rapporto tra i due sistemi non è affatto chiaro, e i pochi studiosi che se ne occupano non sembrano ancora essere giunti a conclusioni definitive.

Lo yantra yoga è una pratica a tutt’oggi segreta, legata alle fasi più avanzate dello yoga tantrico, e come tale riservata agli iniziati, che si impegnano a non divulgarne i dettagli. Alcuni pionieri, come Namkhai Norbu e Tenzin Wangyal, hanno deciso di insegnare a un pubblico più vasto almeno una parte di questi esercizi, ma in molte altre scuole (come ad esempio le scuole Kagyu) sono ancora pratiche vincolate rigidamente al segreto iniziatico. So che nel 2019 verrà pubblicato uno studio di Ian Baker, intitolato Tibetan Yoga, che probabilmente chiarirà alcuni punti oscuri e farà certamente discutere. In un futuro più o meno prossimo molte tradizioni di pratica dello yantra yoga avranno certamente una diffusione più ampia, e forse seguiranno il destino di molte pratiche yogiche indiane, che sono uscite ormai da tempo dalla dimensione esoterica e iniziatica.

Sarà interessante osservare questa fase di passaggio, e le eventuali trasformazioni e adattamenti che subirà la pratica nel momento in cui a coltivarla non saranno più yogin buddhisti in ritiro ma praticanti laici occidentali. Chissà se anche in quel caso ci sarà una corsa al marchio registrato…

Un’ultima domanda: ci sarebbe quella faccenda delle campane tibetane… 

…le famose campane tibetane che i tibetani non conoscono! L’ambiente dello yoga e delle spiritualità alternative, il mondo olistico e i centri benessere risuonano costantemente delle loro «vibrazioni». Un fatto è certo: queste campane non sono utilizzate né hanno una funzione particolare all’interno dei rituali o delle pratiche religiose tibetane tradizionali. Sfido chiunque a dimostrare il contrario.

Si tratta ancora una volta di un fenomeno innocuo e tutto sommato divertente di appropriazione culturale: oggetti di fabbricazione nepalese (penso fossero usate come ciotole) hanno catturato l’immaginario occidentale con il loro esotico tintinnio, e frotte di hippie di ritorno da Kathmandu le hanno fatte conoscere al mondo.

Attribuire a questi manufatti una remota antichità, immaginare che venissero usate nei monasteri del «mistico Tibet» per espandere la coscienza, impiegarle nei «massaggi sonori», magari collegandole ai vari cakra (rigorosamente sette, anche se i tibetani utilizzano in genere sistemi di quattro), può giustificare in parte il loro prezzo esorbitante, e permette di aggiungere al nostro bricolage spirituale un elemento esotico di sicuro impatto.

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Lo yoga visto dai sadhu: intervista a Daniela Bevilacqua

7 Giugno 2018 Zénon

Foto di Daniela Bevilacqua

[English version here]

Daniela Bevilacqua è un’indianista che sta svolgendo una importante e per molti versi inedita ricerca etnografica presso gli ordini ascetici più anticamente legati alla pratica dello yoga. Prima di addentrarci nell’intervista vale la pena spendere alcune parole sul contesto entro cui la sua ricerca si sta svolgendo, ovvero Haṭha Yoga Project.

Da sinistra: James Mallinson, Daniela Bevilacqua e Mark Singleton

HYP è un progetto di ricerca quinquennale finanziato dal Consiglio europeo della ricerca e con sede alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra. Il suo scopo è di documentare la storia della pratica fisica dello yoga attraverso lo studio filologico dei testi e la ricerca etnografica tra i praticanti di yoga tradizionale, per studiarne i rapporti con la pratica contemporanea.

Tra i ricercatori di haṭhayoga Project figurano studiosi quali James Mallinson e Mark Singleton, autori di due importanti testi che hanno contribuito a ridefinire in modo radicale quanto oggi sappiamo sullo yoga: il più recente, Roots of Yoga, co-curato da entrambi, ha messo a disposizione un centinaio di testi in gran parte mai tradotti prima, rivelando aspetti inediti dello yoga premoderno (come, ad esempio, lo stretto legame con il buddhismo tantrico); The Yoga Body di Singleton, invece, aveva ricostruito la nascita dello yoga moderno globalizzato portandone alla luce gli aspetti creativi rispetto alla tradizione e i complessi rapporti con la cultura fisica tra Otto e Novecento.

Il team comprende, anche Jason Birch (storico di Hatha e Raja Yoga e autore del blog The Luminescent) e S V B K V Gupta, entrambi al lavoro sulla traduzione di testi inediti. E, naturalmente, Daniela, che si occupa della ricerca ‘sul campo’ e che  è stata così gentile dal voler rispondere ad alcune delle nostre domande mentre si trovava in viaggio per le sue indagini.

Al cospetto dei lavori dei membri di HYP, viene spontanea una domanda: come è possibile, a fronte della enorme popolarità dello yoga globalizzato, che in realtà gli studi sulle fonti dirette delle sue origini e nel campo etnografico siano territori così poco esplorati? Te lo chiedo perché in molte pubblicazioni e in molti corsi per insegnanti vengono tutt’ora trasmesse parecchie certezze, che in realtà si basano su debolissime evidenze. Insomma, com’è possibile che non solo non sapessimo, ma non sapessimo di non sapere?

Daniela Bevilacqua

Non dirlo a me! Quando ho iniziato questo progetto la prima cosa che ho fatto è stata una ricerca bibliografica sui lavori etnografici già presenti sul tema, e con mio enorme stupore, a parte alcuni articoli di James (James Mallinson) e di Ramdas Lamb – entrambi studiosi connessi con l’ordine Vaiṣṇava dei Rāmānandī – e alcuni riferimenti sparsi in sotto-paragrafi di monografie – non ho trovato nulla di specifico. Il mondo accademico, o meglio l’etnografia, ha lasciato completamente da parte gli yogi indiani “tradizionali”.

Ci sono diversi libri scritti da yogi moderni, o da occidentali che hanno trascorso del tempo e studiato con alcuni yogi, tuttavia, fino ad ora, un lavoro etnografico accademico incentrato esclusivamente sulla pratica dello yoga di yogi appartenenti a ordini ascetici tradizionali non è mai stato fatto. Il perché, non ne sono sicura. Forse perché si dà ancora un credito maggiore ai testi scritti nel passato piuttosto che ai racconti orali del presente. Ma in realtà anche gli studi accademici incentrati sui testi di haṭha yoga sono un’introduzione recente negli studi sanscriti.

La scarsità del lavoro etnografico forse dipende anche dal fatto che una etnografia tra i bābā (asceti) indiani potrebbe non essere congeniale a tutti. James ad esempio mi ha coinvolto nel progetto perché sapeva che “frequentavo” già il mondo ascetico indiano, conosco gli ordini, parlo hindi e in più ho la disposizione d’animo a fare fieldwork intensi in India in situazioni a volte un po’ estreme. In effetti, fare etnografia tra i sādhu significa adattarsi a varie situazioni, anche tenendo in considerazione un’etichetta dovuta al genere, e poi passare del tempo con le persone e attendere che si instauri una certa fiducia reciproca e ci sia così la possibilità di un discorso approfondito anche senza l’iniziazione. Questo è in effetti uno dei problemi dell’etnografo, dato che gli insegnamenti specifici vengono dati solo dopo essere entrati nell’ordine. Cosa che ovviamente io non faccio per un motivo etico: potrei fingere devozione e prendere tante iniziazioni quanti sono gli ordini con cui “lavoro”, ma non reputo questo il modo giusto di procedere. Perciò preferisco dare tempo al tempo e che siano i sādhu a decidere di loro spontanea volontà quanto potermi dire a dare.

Dunque non sto facendo delle scoperte sensazionali (ma se le facessi, non le scriverei e svelerei al mondo!), ma sto raccogliendo tanti tasselli che spero ci aiutino a capire l’evoluzione dell’haṭha yoga fino ad oggi e la posizione dei vari gruppi ascetici in essa.

La tua ricerca etnografica si svolge presso alcuni degli ordini ascetici più anticamente legati all’haṭha yoga. Cosa ci può dire una tradizione a trasmissione orale sul passato dello yoga, che i testi non dicono? Qual è il rapporto tra innovazione e conservazione, se ha senso una distinzione di questo genere?

Jogi Baba pratica nauli

Seguendo i testi e le conoscenze personali, ho rivolto la mia attenzione dapprima ai Rāmānandī, poi ai Nāgā Daśnāmi, ad alcuni Udāsīn e ai Nāth, che sono i gruppi principalmente connessi con la pratica. Cerco quanto possibile di raccogliere informazioni soprattutto dai Nāth dato che, tradizionalmente, la diffusione dell’insegnamento dell’haṭha yoga viene fatto risalire a Gorakhnāth, il quale, insieme a Matsyendranāth, è generalmente ritenuto il “fondatore” dell’ordine dei Nāth.

Cosa ci può dire la trasmissione orale sul passato dello yoga: beh, prima di tutto fa sì che ci poniamo molte domande sullo scopo dei testi, da chi erano scritti e a chi erano rivolti. In effetti, solo una piccolissima parte degli asceti a cui mi rivolgo conosce i testi perché attribuisce loro poca importanza: se qualcosa può essere letto da tutti, ovviamente non rappresenta il vero insegnamento ma solo la sua superficie, per questo non si può prescindere dal guru. Dunque l’unico insegnamento che conta è quello che proviene dalla trasmissione orale. E questo nell’haṭha yoga è ancora più evidente perché essendo una tradizione prettamente esperienziale, basata sulla pratica, la necessità di qualcuno che mostri e spieghi come fare in pratica i vari āsana, kriyā ecc. è di vitale importanza. Ma questo è sottolineato anche nei testi stessi.

Uno degli obiettivi che si propone l’Haṭha Yoga Project è quello di comprendere bene il ruolo di tali testi e la loro audience, e l’unione del lavoro etnografico e testuale sta portando dei buoni risultati.

Quindi, per riassumere, la tradizione orale, rispetto ai testi, ci dice esattamente come fare quelle pratiche che nei testi sono più o meno descritte. Inoltre non bisogna dimenticare che queste pratiche sono anche inserite in un contesto religioso, quindi ci sono tutta una serie di ulteriori conoscenze che bisogna implementare per rendere la pratica fisica spiritualmente effettiva. In più la tradizione orale ci può dare degli spunti per ricostruire contesti, o dare ad alcune parole delle spiegazioni più ampie ricostruendone l’evoluzione storica, o comprenderne il senso da prospettive diverse.

Per quanto riguarda innovazione e conservazione, la realtà indiana, sia testuale che orale, sebbene punti a conservare, presenta varie possibilità d’innovazione grazie all’importanza che si dà al guru: il guru è una fonte costante (sia nel presente che nel passato) di innovazione. Per questo tra gli asceti si trovano tante variazioni e tante “storie” diverse: ognuno trasmette l’insegnamento che arriva dal guru di una specifica tradizione, e per tradizione mi riferisco non all’ordine in generale ma anche a quella di un tempio o monastero specifico. La sādhanā (disciplina) yogica, ribadisco, è esperienziale, quindi si basa sull’esperienza di un guru che, provando e sperimentando, riesce a trovare un percorso che permette la realizzazione dello yoga. Una volta trovata la modalità, essa viene insegnata. Questo implica anche la possibilità di una continua ricerca, da parte dello yogi, da fonti diverse. Un asceta passa i primi anni della sua vita da rinunciante non solo con il proprio guru, ma vagando tra vari centri di pellegrinaggio, trascorrendo del tempo con altri asceti, a volte anche di altri ordini, e così crea il suo bagaglio personale di esperienza e conoscenza su cui baserà la propria disciplina. Da una tale dinamica si comprende l’alta possibilità d’innovazione.

Qual è l’atteggiamento che hai riscontrato nei confronti dello yoga globalizzato e qual è il loro rapporto con esso?

Da un certo punto di vista c’è una particolare noncuranza: gli āsana e il prāṇāyāma fa bene a tutti, quindi se questo tipo di yoga, che è poi quello che oggi in India Baba Ramdev insegna e pubblicizza come un ossesso, si diffonde, ben venga per l’umanità. Ovviamente ci sono anche asceti che supportano questo tipo di yoga perché puntano all’occidente, per curiosità, per modernità, ma anche per diventare famosi yoga guru e accumulare discepoli, fama e soprattutto denaro.

Tuttavia, per la maggior parte degli asceti, lo yoga globalizzato pubblicizzato è una forma di ginnastica, completamente svincolata dal significato e dall’obiettivo spirituale che lo yoga si prefigge. Per gli asceti lo yoga non è qualcosa da fare a giorni alterni o una volta a settimana, ma è una precisa disciplina individuale che prevede il seguire regole e precetti precisi e il focalizzarsi su un unico obiettivo e, così facendo, ottenere la vera conoscenza del sé, della realtà, l’unione con il Paramātmā e via dicendo.

Per questo, come mi ha detto una yogini, la via dello yoga deve essere intrapresa quando uno ha davvero l’intenzione di rispondere alle domande alla base dell’io. Allora, essendo la ricerca una necessità, tutto viene messo da parte, e l’unica attenzione è rivolta all’ottenimento di queste risposte.

Nel tuo paper “Let the sadhus talk” rilevi che, presso la maggior parte degli asceti che hai intervistato, il termine haṭha yoga è inteso come un’attitudine mentale più che un corpus di pratiche fisiche, che sono spesso considerate propedeutiche e di secondaria importanza. È possibile che questo sia il principale elemento di discontinuità da parte dello yoga globalizzato, così preoccupato dell’aspetto tecnico?

Sì, la maggior parte degli asceti intervistati ha definito lo haṭha yoga come un’intenzione precisa, uno sforzo specifico volto ad un obiettivo specifico. Il motivo è da collegare al fatto che yoga significa anche “metodo, mezzo” quindi, quando un asceta dice “haṭha yoga se hota hai” vuol dire “avviene per mezzo dell’haṭha”, e quindi haṭha yoga è quel metodo che, come dico nell’articolo, si basa su un’intenzione talmente forte che porta al compimento dell’obiettivo.

Per tale motivo, la maggior parte degli asceti associa l’haṭha yoga al tapasyā. Questa connessione tra haṭha yoga e tapasyā non è una scoperta particolare, dato che, come Mark Singleton insegna nel suo Yoga Body, negli ultimi secoli haṭha yogi era sinonimo di tapasvin, colui in grado di eseguire austerità incredibili. E in effetti anche oggi, tra gli asceti, coloro che fanno tali pratiche -come stare con il braccio alzato o rimanere in piedi, ecc.- vengono definiti haṭha yogi.

Ci sono però sādhu che, oltre a dare questa definizione di haṭha yoga, elencano anche le pratiche dell’haṭha yoga: āsana, prāṇāyāma, ṣaṭ karma (che raramente vengono definiti così, ma elencati come nauli, basti ecc.) e kriyā (usando spesso questa parola in generale per indicare mudrā e bandha).

Queste due spiegazioni non sono in antitesi perché la stessa intenzione del tapasyā è anche necessaria per rendere siddh, ossia perfette, le varie pratiche fisiche dello yoga. Il raggiungimento di una tale perfezione si ottiene tramite una rigida disciplina.

Asceti dell’ordine dei Naga durante una dimostrazione in Assam per la Giornata Internazionale dello Yoga del 2017

È interessante notare che coloro che hanno il pieno controllo delle pratiche fisiche, quali āsana, ṣaṭkarma, bandha ecc. sono chiamati Yogi Raj tra gli asceti.

Ovviamente tale disciplina non è solo incentrata sugli āsana, ma anche sul seguire le regole (yama e nyama) necessarie per aiutare la mente a disciplinarsi ed essere pronta per la pratica non fisica. Coloro che focalizzano e ottengono la perfezione nel dhyana/samadhi sono chiamati yogi.

Per sussumere, da parte degli asceti che intraprendono la yoga sādhanā c’è un’attenzione alla parte fisica necessaria, soprattutto inizialmente, per disciplinare il corpo e di conseguenza insegnare alla mente a focalizzarsi sull’obiettivo. In più aiuta il corpo a resistere alla pratica meditativa senza la distrazione della tensione fisica.

Ma a differenza dello yoga globalizzato, c’è la consapevolezza che una volta che gli āsana sono perfezionati, bisogna “lasciarli andare” e focalizzarsi sulla parte importante dello yoga, le varie sādhanā che portano al samādhi. Ovviamente, āsana e prāṇāyāma purificatori e altre tecniche continuano ad essere usate quando necessario, un paio di minuti al giorno, due o tre posizioni necessarie.

Nello yoga globalizzato invece non credo sia evidente questo stacco o distacco, molti si affannano sulla tecnica perché permette di vedere risultati tangibili e mostrabili, cosa che la pratica spirituale ovviamente non fa. Poi ci sono anche molti insegnanti che seguono in maniera individuale anche la pratica spirituale, ma se si parla della moltitudine di persone che fanno yoga a mo’ di sport, ossia solo āsana e respirazione, allora sì, la discontinuità è un abisso, ma semplicemente perché manca di questa consapevolezza. L’asceta fa le posizioni per lo stesso motivo di un occidentale che va a fare yoga: per avere un corpo sano. Solo che l’asceta sa che quello non è altro che una goccia nel mare, e solo una componente fisica limitata e limitante, mentre l’occidentale no, pensa, nella maggior parte dei casi, di fare qualcosa di particolare. Un asceta una volta mi ha detto: “io facevo gli āsana nelle pause di meditazione per rilassare il corpo, facevo āsana perché ero in una grotta, altrimenti una corsetta avrebbe avuto lo stesso effetto”.

Puoi parlarci della presenza di donne che praticano haṭha yoga? Si tratta di un elemento innovativo rispetto al passato?

Scultura dal Mahudi Gate a Dabhoi nel Gujarat, risalente al XIII secolo. Foto di James Mallinson e Daniela Bevilacqua.

Prima di tutto bisogna considerare che le donne che riescono a diventare ascete all’interno degli ordini tradizionali sono in realtà poche e spesso lo diventano in tarda età. Però mi è capitato di incontrare una yogini che all’età di 12 anni aveva completato il suo apprendimento degli āsana, ṣaṭkarma ecc. Lei però non descrive le sue pratiche come haṭha yoga, ma le interpreta come uno step dello yoga in generale, essendo poi praticante anche di austerità la sua idea di haṭha yoga è molto connessa al tapasyā.

Poi ho incontrato un’altra yogini che ha preso l’iniziazione da adulta-anziana, dopo aver cresciuto i figli. Lei viene chiamata Yogi dal suo ordine perché ha passato diversi anni a meditare nella jungla. Però fa anche le posture per il corpo. In questi anni ho incontrato solo loro due nel mondo ascetico come praticanti. Sicuramente ce ne sono molte di più, ma spesso rimangono nascoste.

Se consideriamo la parte “laica”, non ho avuto riscontri diversi. Ho incontrato alcune famiglie in cui si pratica e viene trasmesso lo yoga in modo tradizionale in famiglia, ma solo a chi è ritenuto degno e capace di portare a termine completamente il percorso per permettere l’ulteriore trasmissione. Anche in questo caso non è insegnato alle donne (questo almeno nel nord dell’India e secondo la mia limitata esperienza).

Quindi sì, una pratica estremamente diffusa tra le donne è un elemento innovativo rispetto al passato, almeno come possiamo immaginarlo se guardiamo alla situazione presente e per come la conosciamo dai testi. I testi ci parlano del praticante uomo, e molte tecniche si incentrano su un corpo maschile. Sicuramente c’erano yogini in passato e ancora oggi ci sono, soprattutto in correnti tantriche che non prevedono la rinuncia. Tuttavia non ci sono arrivate tradizioni “haṭha yoga” scritte da donne, sebbene non sia raro trovare miniature che rappresentano donne praticanti, soprattutto dell’ordine dei Nāth, mentre svolgono austerità.

Purtroppo la società indiana era ed è ancora ostica in molti ambienti tradizionali verso lo sviluppo individuale di una donna, sia nell’ambito laico che religioso.

Sei anche tu una praticante di yoga, come altri membri di HYP? Se sì, puoi parlarci del tuo rapporto con questa disciplina?

La prima volta che mi sono avvicinata allo yoga in maniera pratica è stato nel 2006 a Rishikesh: avevo iniziato un corso e seguivo lezioni due volte al giorno, più una sessione di meditazione serale. Tornata in Italia ho cercato degli insegnanti simili a quello di Rishikesh ma sono rimasta profondamente delusa. Ho ricominciato con lo yoga nel 2010 a Varanasi, da un fantastico insegnante che faceva solo lezioni individuali. Con lui ho ripreso a fare āsana e prāṇāyāma, ma non ho mai trovato un insegnante che fosse in grado di andare aldilà di questi.

Devo dire che, sebbene altamente utile per il corpo e per produrre uno stato di rilassatezza, trovavo a volte le lezioni di yoga moderno noiose o, quando intrise di “chiacchiere” inutili, irritanti. Perciò ho iniziato a fare yogāsana, non sapendolo, come fanno molti sādhu, ossia faccio le posizioni che mi servono quando ne ho bisogno, e se ho tempo, per prendermi un minimo cura del corpo soprattutto quando sono in India. Le cose che mi dicono gli asceti o mi mostrano, cerco di metterle in pratica all’occorrenza. Non posso dire di praticare lo yoga perché vedendo cosa è lo yoga per gli asceti, mi rendo conto che una tale parola, io che ho passato con loro del tempo, non posso usarla: non seguo né yama né nyama, e non ho la fede necessaria per renderla la mia disciplina spirituale. Dunque rimango con lo yoga in un rapporto molto amichevole: ci conosciamo, lo stretto necessario a mantenere il corpo sthir (saldo).

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