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Zénon | Yoga e Qi Gong

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“Yoga” e i cani neri di Carrère

17 Gennaio 2022 Francesco Vignotto

“È possibile meditare quando senti un groppo d’ansia sotto il plesso solare, hai nei polmoni due pacchetti di sigarette fumati smaniosamente ogni giorno e la coscienza attraversata da un flusso ininterrotto di pensieri tossici: rimpianto, rimorsi, rancore, ansia da abbandono? Quando non trovi rifugio da nessuna parte e sei in balìa di quel che di peggio c’è dentro di te?” Alcune riflessioni sull’ultimo libro di Emmanuel Carrère, che da outsider depone una pietra tombale sul mito del benessere New Age, in cambio di un salutare bagno di realtà.

Confesso che ho esitato qualche mese a leggere Yoga di Carrère perché tendo a diffidare dell’hype, un po’ per spocchia, un po’ per un crescente bisogno di argomenti ‘inattuali’, visto che abbiamo imparato quanto l’attualità può essere tossica, volgare e lontana dal cuore della realtà (un po’ come l’inevitabile rumore attorno alle battaglie legali tra Carrère e la ex moglie, che ha fatto purgare dal romanzo tutte le parti che la riguardano).

Confesso anche che non avevo mai letto nulla di Carrère fino a qualche settimana fa, sebbene da tempo fossi attratto già da alcuni suoi titoli precedenti. Preferivo però non cominciare dall’ultimo proprio perché riguarda un tema in cui sono fin troppo implicato, conoscendone le beghe, per godermi appieno la lettura.

Così, quando ho ricevuto in regalo Io sono vivo, voi siete morti, la biografia di Philip K. Dick che proprio Emmanuel Carrère scrisse negli anni Novanta, e avendola letta con molto piacere (sono un appassionato di Dick), non avevo più scuse per evitare la lettura del suo lavoro più recente. Con sorpresa, ma neppure troppa, ho constatato che tra i due libri vi è più di un punto in contatto: entrambi formulano importanti questioni sulla vita, sulla natura ultima del reale e sulla possibilità di conoscerla, e in entrambi questi stessi temi costeggiano l’abisso del disturbo psichico.

Dal canto suo, Yoga racconta come non ci sia nulla che preservi dalla buia notte dell’anima, nemmeno quando, come all’inizio del libro, sembra che per l’autore la vita si sia stabilizzata una volta per tutte sul versante più comodo. È proprio in quel momento che nasce l’idea di scrivere “un libretto arguto e accattivante” sullo yoga che avrebbe trovato posto nei già affollati scaffali delle librerie dedicati all’auto-aiuto e alla crescita personale. Tuttavia Carrère conosceva già fin dai tempi di Io sono vivo la saggezza dell’I Ching basata sull’alternanza degli opposti, e le sue stesse parole di allora suonano come un ambiguo avvertimento che

ogni momento è un passaggio, che l’apogeo è l’inizio del declino e la sconfitta preannuncia la vittoria futura. A chi brancola nelle tenebre [l’I Ching] insegna che presto tornerà la luce, a chi esulta sotto il sole di mezzogiorno che sta già cominciando il crepuscolo, al saggio l’abile arte di lasciarsi portare dal corso delle cose come una barca vuota si abbandona alla corrente del fiume.

Per Carrère la notte cala con la fine del matrimonio, e la barca vuota che si era convinto di essere si rivela piena di demoni. La crisi sfocia in un ricovero in psichiatria durante il quale sarà sottoposto a terapia elettroconvulsivante. La diagnosi è sindrome bipolare.

La situazione sembrerebbe essere sfuggita molto lontano dallo yoga, qualcuno potrebbe obiettare (ma poi: perché?). Eppure tra le tante definizioni provvisorie di meditazione che costellano il libro, la più assoluta arriva non nella prima parte, che precede il disastro, seduto sullo zafu durante il purgatoriale seminario di Vipassana, ma nella seconda parte, di fronte a tutto l’orrore per sé stessi che non si può spiegare, per bocca di un anziano psicanalista, ex gesuita ed ex lacaniano, trasformatosi suo malgrado in maestro Zen:

Quello che sta vivendo e orribile: bene. Lo viva. Vi aderisca. Sia quell’orrore. Se deve morirne, ne morirà. Non cerchi né ragioni né mezzi per uscirne. Non faccia niente, lasci perdere: solo cosi può verificarsi un cambiamento.

Non funzionerà, si affretta a precisare Carrère. Ma nessuno aveva detto che doveva funzionare. O meglio: sperare che funzioni è ancora parte del problema.

La mosca al naso

Yoga non segue il copione consolidato della celebrità che ha sconfitto la depressione o ha smesso di picchiare la moglie grazie alla meditazione; lo yoga non è qui una spugna magica, né Carrère ha la pretesa di essere qualcosa più di un meditante della domenica, ma proprio per questo ne guadagna in credibilità oltre che tensione drammatica: abbiamo già troppi scrittori-attori-cantanti che si riciclano nel settore benessere come maestri di vita, la cui placida anima non è mai increspata nemmeno da un peto. (Sperando di non essere contraddetti in futuro dai fatti, almeno in questo libro Carrére rimane lo scrittore che un po’ si pente di non essersi portato, trasgredendo le regole, il taccuino al seminario intensivo di Vipassana: nonostante tutti gli sforzi per convincersi del contrario, è lì per un reportage).

Emmanuel Carrère

Yoga ha fatto saltare la mosca al naso a parecchi praticanti attirati dal titolo, e quello appena esposto potrebbe essere un motivo: non è una storia esemplare. Non è il “libretto arguto e accattivante” che lo stesso autore si era inizialmente proposto di scrivere e che chi pratica yoga vorrebbe leggere. Che alla fine si sia comunque intitolato Yoga lo rende quasi un koan, tanto che la vera motivazione che spinge a terminare il libro è proprio scoprire perché Yoga sia stato scritto lo stesso; che è forse, meravigliosamente, lo stesso motivo per cui si pratica yoga nonostante la vita si guardi bene da somigliare alle agiografie dei santi.

Un altro elemento di disappunto per gli appassionati è la disinvoltura con cui Carrère utilizza la parola Yoga come macro-contenitore per riferirsi non solo alla pratica corporea – di cui parla in realtà poco – ma soprattutto alla meditazione e al Tai Chi. Il nostro autore non va nemmeno troppo per il sottile coi riferimenti letterari, che, va bene, sono abbastanza prevedibili per chi mastichi appena un po’ della materia: con tutte le mattine trascorse al Cafè dell’Église a leggere Patanjali (“Quanto me la tiravo”), Carrère non spreme molto più di un sunto da quarta di copertina; il Bardo va sempre bene, sia che si viaggi con l’LSD, sia che si tenti il suicidio, sia che si partecipi a un seminario intensivo in cui ai partecipanti è vietato parlare e a condurre è una voce preregistrata; la mania per yin e yang e per le infinite elencazioni di opposti sembra a volte più un fuoco d’artificio per impressionare l’altro sesso e i giornalisti inesperti, non fosse che l’alternanza di opposti è tragicamente connessa proprio al suo disturbo mentale. Ma sebbene Carrère non sia Calasso, il suo essere e rimanere scrittore di mondo lo tiene quasi sempre lontano da fole New Age, e anche quando le sfiora (lo yoga molecolare) le elabora poeticamente.

Con quelle due-tre nozioni che potrebbero essere già logore da un pezzo, anzi, Carrère si mette a scavare, in un corpo a corpo con i vortici della mente, sondando gli animi e le motivazioni profonde senza sconti (William Hurt che vuole essere una persona migliore per essere un attore migliore, i volontari sull’isola di Leros che affogano i loro cuori infranti nell’altruismo) e portando alla luce intuizioni notevoli proprio quando disinvolte.

Tra il dottor Yang, da un lato, che invita ad andare cauti con la meditazione, per non svegliare le potentissime energie che può mettere in moto (“Ci metteva in guardia contro questi rischi che non mi pare di avere mai corso, o se è successo non me ne sono reso conto, o ancora, più probabilmente, non ho mai raggiunto né mai raggiungerò il livello a partire dal quale cominciano a presentarsi”); e il maestro di Iyengar yoga secondo il quale occorrono dieci anni di preparazione ortopedica, di allineamento di bandha e chakra prima di poter essere degni di sedere sul cuscino; di fronte insomma a tutta questa erudizione che getterebbe nello sconforto il proverbiale millepiedi senza sapere più quale zampa muovere per prima, Carrére conclude, di testa sua e con invidiabile concretezza popolana, che meditazione è tutto ciò che succede quando ti siedi in silenzio, compresa la noia, i dolori, i pensieri parassiti. Compresa l’impressione che stai perdendo tempo con una cazzata pseudo-spirituale.

La prova della bellezza

Ram Dass

Ma c’è un altro motivo per voler bene a Carrère, ed è una piccola corazzata Potëmkim che ci ricollega (e non è l’unico caso per chi vuole leggere tra le righe) al tema dell’articolo precedente. Pur rifiutandosi di gettare via il bambino con l’acqua sporca (altro tema dickiano), il nostro non può mancare di rilevare che gran parte della sotto-cultura spirituale sia irrimediabilmente brutta. Da scrittore, è più che sfiorato dal dubbio che questa desertificazione della bellezza vorrà pur dire qualcosa. Imperdonabili – nel senso di Cristina Campo, ovvero perfette – sono le sue considerazioni di fronte ai partecipanti del seminario di Vipassana, che tra una sessione e l’altra, come da cliché, non riescono a resistere ad abbracciare gli alberi (la scena, con il balletto delle esitazioni che lo precede, è invero molto più comica di come la potrei descrivere). La visione genera un cortocircuito tra la lettura di alcuni saggi di Orwell e la visione di un documentario su Ram Dass; il confronto è impietoso:

Guardando il documentario, mi immaginavo quanto sarcasmo e perfino disgusto avrebbe suscitato in Orwell […] questo vecchio saccente, Ram Dass, tipico esemplare della tribù degli yogi-barbuti-vegetariani-indossatori di sandali che lui considerava non innocui babbei, ma imbecilli decisamente pericolosi. Ebbene, guardando questi ragazzi con le cuffie peruviane che abbraciano gli alberi, mi chiedo anche: come mai gli accenti di verità, il peso dell’esperienza e persino il godimento estetico sono con tanta evidenza dalla parte di Orwell e non da quella di Ram Dass né di nessuna delle autoproclamatesi guide spirituali che recitano i loro sempiterni discorsi sull’espansione della coscienza, sul potere del qui e ora e sulla pace interiore? Perché i loro pensieri mancano a tal punto di gravitas? Perché nessuno di loro supera la prova della bellezza? Perché i loro libri dalle copertine rosa o azzurre, che in ogni libreria new age balzano agli occhi come l’incenso alle narici, sono cosi brutti, cosi stupidi?

“Penso per esempio che ci sia un grado di verità maggiore in Dostoevskij che nel Dalai Lama” concluderà più tardi, altrettanto imperdonabilmente, quando abbandonerà il seminario, con uno strappo alla regola, a causa degli attentati a Charlie Hebdo, dove il suo amico Bernard perse la vita. Tra il cervello di quest’ultimo sparso sul linoleum della redazione e il “conclave di meditanti impegnati a frequentare ognuno le proprie narici e a masticare in silenzio bulgur con gomasio”, Carrère conclude che “una delle due esperienze sia, molto semplicemente, più vera dell’altra”.

Ma questo non è che uno dei tanti momenti dialettici di Yoga, tra le incurisioni del e nel mondo e l’aspirazione ad elevarsi al di sopra della sofferenza del mondo, che nella spiritualità di massa rischia spesso di trasformarsi in elusione solipsistica, clausura a gettone senza sacrificio, come gli ayurvedici svizzeri isolati in un’ala di un albergo dello Sri Lanka, in accappatoio bianco e cuffietta di plastica, che non interrompono nemmeno per un istante il loro seminario, mentre il resto della struttura si è trasformata in un centro di accoglienza per gli sfollati di uno tsunami.

Se lasciate che affiori in voi stessi

È confortante che il cielo non si apra solo ai santi, ai saggi, ai frequentatori abituali di zafu, ma anche a noialtri membri della famiglia splendida e miserevole dei nervosi, a noialtri aggrediti dai cani neri.

Nella foto più sopra, il sorriso descritto a pagina 269 della giovane Martha Argerich che, dopo essere quasi sparita a sinistra dell’inquadratura, riprende il tema principale della polacca Eroica di Chopin; è il sorriso che “viene al tempo stesso dall’infanzia e dalla musica” di chi ha visto il paradiso, anche solo per 5 secondi. Dalla biografia curata dalla figlia, emerge quanto Martha fosse stata una madre madre tossica e dispotica.

A giudicare dalla pila di copie disponibili in libreria, senza paragone con qualsiasi altro volume Adelphi, Yoga sta vendendo ancora molto a più di sei mesi dall’uscita (“Questo qui ci sta uscendo dalle orecchie” si lascia sfuggire la commessa mentre lo acquisto). Ne sono, in fondo, contento, perché è un libro che sa confluire nelle vene del mainstream senza rinunciare a incidere in profondità, ma soprattutto sa lasciare aperti gli orli di una ferita (come dovrebbe fare un romanzo), non utilizza lo yoga come tappeto per nascondere la polvere e proprio per questo, a modo suo, contribuisce a una riflessione più matura sul senso ultimo della pratica; e soprattutto è consapevole che il senso ultimo non sarà probabilmente annunciato mentre siamo seduti a meditare.

Certo è uno yoga, anche quello, mainstream, sui generis, o Iyengar o Ashtanga, uno yoga piramidale di grandi, inarrivabili maestri da piedistallo, e di milioni di pedoni che probabilmente perderanno sempre terreno nel cercare invano di bandire l’ombra dalla propria vita.

Il valore di Yoga è di avere la sincerità di guardare in faccia l’oscurità, ma anche la notevole intuizione – notevole proprio perché vi arriva a braccio, fosse anche strisciando, senza essere imboccato da alcuno – che quell’oscurità non può e non deve essere essere espunta: “A sinistra c’è l’Ombra ma c’è anche la gioia pura, e forse non può esserci gioia pura senza Ombra, e allora vale la pena di vivere con l’Ombra”.

Nel riprendere in mano il libro per scrivere questo articolo, mi accorgo della citazione del Vangelo di Tomaso in epigrafe di cui mi ero completamente dimenticato, ma che mi sembra essere il sigillo perfetto a queste riflessioni:

Se lasciate che affiori in voi stessi, ciò che avete vi salverà. Se in voi stessi non lo avete, ciò che in voi stessi non avete vi ucciderà.

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Archiviato in: Articoli, Yoga Contrassegnato con: Emmanuel Carrère, meditazione, tai chi chuan, yoga

Sensi soprannaturali: conversazione con Gioia Lussana sullo Yoga della bellezza

7 Gennaio 2022 Francesco Vignotto

foto di Gioia Lussana

Il sé è un danzatore
Il sé interiore è la scena
I sensi sono gli spettatori

Vasugupta, Gli Aforismi di Śiva

Lo yoga della bellezza di Gioia Lussana è uno dei testi più interessanti e originali degli ultimi anni sullo yoga. Il tema di fondo si sviluppa intorno a una intuizione del tantrismo del Kaśmīr medievale ancora poco esplorata, secondo cui lo stupore meravigliato di fronte all’opera d’arte è esperienza del sacro; sacro che attraverso questa breccia può essere colto in ogni aspetto della vita ordinaria.

Gioia Lussana è laureata cum laude in Indologia con Raniero Gnoli e Raffaele Torella ed è dottore di ricerca in Civiltà e Culture dell’Asia presso l’Università Sapienza di Roma. Il rigore con cui affronta le fonti non le impedisce il confronto, da un lato, con la tradizione filosofica e poetica occidentale e, dall’altro, con la sua esperienza di praticante e di insegnante di yoga, contribuendo a espandere gli orizzonti di ciò che intendiamo oggi con questo nome.

Anche per questo, era abbastanza inevitabile parlare direttamente con lei del suo ultimo libro.

Gioia Lussana

Due cose colpiscono subito l’occhio riguardo a Lo yoga della bellezza. La prima è il sottotitolo: “Spunti per una riformulazione contemporanea dello yoga del Kaśmīr”. La seconda è la doppia prefazione: di Raffaele Torella, ovvero uno dei più importanti esperti a livello internazionale di Tantrismo indiano; e di Eric Barét, riformulatore moderno dell’approccio del Kaśmīr come prima di lui Jean Klein (un ulteriore elemento di sorpresa, ma bisogna avere letto il libro, è il tuo contatto diretto con una forma di Haṭha-yoga tradizionale del Kaśmīr).
Per il senso comune, qualcosa che si richiama a una tradizione o vi aderisce letteralmente oppure suona un po’ sospetto; d’altro canto, le riletture contemporanee hanno sempre suscitato qualche alzata di sopracciglia tra gli studiosi. Qui, invece, sembra di trovarsi di fronte a un particolare caso di superamento degli opposti, e allora ti chiedo: cosa intendi con il termine riformulazione? E come può essere possibile riformulare una tradizione di cui, come spieghi, ci mancano ormai molti elementi operativi? Ma soprattutto: se una tradizione può (deve?) essere riformulata, che cosa intendiamo con la parola tradizione?

Ᾱgama, tradizione, in sanscrito è letteralmente un ‘flusso ininterrotto’. Ᾱgama è anche il nome dei testi tantrici śivaiti rivelatori di una visione rivoluzionaria del sacro. Voler dare nuova linfa a una fiorente e antica tradizione è rimanere nell’alveo del suo torrente e continuare a scorrere in esso. Si potrebbe dire mantenendo il ricordo della sorgente, ma attraversando nuovi paesaggi.

Come accenno nel mio libro, già all’inizio del secolo scorso, quando nacque in Kaśmīr Lakshmanjoo, considerato l’ultimo depositario per trasmissione diretta del lignaggio dei maestri medievali, si era persa la decodifica delle pratiche, spesso altamente esoteriche, descritte da Abhinavagupta nelle sue opere. Si potrebbe in ogni caso affermare che lo yoga del Kaśmīr non è uno yoga preminentemente ‘tecnico’, ma incentrato su un messaggio profondo. Ciò che era presentato per iscritto era già
nel X e XI secolo solo una traccia di ciò che veniva essenzialmente comunicato per
via orale da maestro a discepolo e costituiva la prassi vera e propria.

In virtù di ciò è tanto più lecito oggi tentare di riformulare, di interpretare in modo nuovo quel poco che risulta accessibile delle tecniche antiche, cercando soprattutto di non distaccarsi dalla trasmissione originaria – prettamente filosofica – che esse veicolavano attraverso il corpo. Una riformulazione moderna deve in qualche modo farsi carico dell’evoluzione di segno e di senso della visione filosofica originale, da trasporre in uno yoga non iniziatico e alla portata di un vasto pubblico. Uno yoga siffatto non è in ogni caso compatibile con le forme di gran parte dello yoga contemporaneo, classificabili come fenomeno di massa e con una valenza prettamente commerciale.

I maestri śivaiti non erano solo filosofi, retori e maestri di estetica, ma anche potenti yogin che sapevano incarnare creativamente la stupefacente visione filosofica che emerge dai testi. Si tratta oggi di riproporre in un linguaggio attuale il palpito vitale e la profondità concettuale che essi seppero trasfondere nel rito dello yoga.

Credo che riformulare oggi sia essenzialmente dare forma a uno yoga ‘generativo’, che non perda cioè la sua connotazione intuitiva, mai meccanica, sempre nuova, che scaturisce innanzitutto dal calore vitale e dal battito della vita in ognuno di noi, come da una fonte viva e nello stesso tempo cosciente. La tecnica non è che uno sviluppo ulteriore di questa percezione palpitante originaria.

Il modo di esprimersi dell’artista, del fruitore dell’arte e dello yogin prende le mosse da questo ‘bollore vibrante’ – la cifra della vita – e sgorga ispirato da pratibhā, l’intuizione dell’intima coerenza di ogni cosa, la bellezza di ‘ciò che è’.

Pratibhā, è quell’ingenium che ci fa presentire l’Assoluto. Ogni āsana, ogni gesto diviene allora il rito della bellezza e della sacralità dell’esistenza. L’arte dello yoga diviene in tal modo celebrazione della realtà in ogni sua manifestazione, che in quanto viva è allo stesso tempo auto-consapevole. Nei tantra śivaiti è rimarcata difatti la sorprendente omologia tra coscienza/sapienza e movimento della vita, che si riflettono nell’ordinario e nello straordinario con uguale splendore. Il rito dello yoga ha la funzione di intensificare ulteriormente tale ‘sapiente vividezza’.

Veniamo al tema centrale del libro, ovvero la stretta connessione tra l’esperienza estetica e l’esperienza religiosa. Per sgombrare il campo da equivoci naïf, il bello di cui parliamo non è per nulla ornamentale: si ha anzi l’impressione che la poesia (cito un altro termine-chiave) in questo caso abbia ben poco a che fare con l’evasione della realtà a cui il senso comune l’associa. Puoi parlarci di questo aspetto?
A ciò si collega un’altra domanda: da un approccio così radicalmente non-duale ci si aspetterebbe diffidenza nei confronti delle parole. Eppure nel tuo libro emerge la precisione chirurgica dei maestri del Kaśmīr nel descrivere ma soprattutto nell’evocare l’ineffabile, oltre a un tuo gusto particolare per l’etimologia anche nei confronti delle lingue europee. Evocare: in una riformulazione contemporanea, quanto è importante il linguaggio non solo per descrivere e istruire, ma per evocare una sensibilità straordinaria? Penso ad esempio a quando viene richiesto, nella riformulazione di Klein/Barét, di sentire il muro di fronte, o compiere un asana senza il corpo fisico. Anche qui abbiamo a che vedere con un uso poetico delle parole a tutti gli effetti creativo…

Nella concezione tradizionale la percezione della bellezza (rasāsvāda), investigata con estrema eleganza dai maestri kaśmīri e con suprema maestria in special modo da Abhinavagupta, si qualifica in sostanza come il vero laboratorio dell’esperienza religiosa o spirituale in senso lato: brahmāsvāda, connotata da un vivo assaporamento, intensificato rispetto alla fruizione ordinaria, che vede i nostri sensi spesso assopiti e resi opachi dalla routine. Le due esperienze, entrambe intensissime, scaturiscono dal terreno comune della vita ordinaria, che viene dissodata e resa fertile attraverso questi due vissuti straordinari in virtù di un risveglio che rende straordinario anche l’ordinario. La vita nella sua interezza e in tutte le sue forme acquista allora significato e sapore in quanto celebrazione gratuita, ‘generazione’, come accennavamo precedentemente, compiuta in se stessa. Il rito dello yoga, non confinato dunque a un ambito esclusivamente rituale, si qualifica come una estasiata espressione della vita in quanto tale.

Lo yoga del Kaśmīr, sia nella sua accezione tradizionale, sia nella sua riformulazione contemporanea, è fondamentalmente arte della contemplazione, in una parola bhāvanā, ‘attenzione generativa’, come potremmo tradurre questo termine complesso.

Nel Medioevo in Kaśmīr Bhaṭṭa Nāyaka considera bhāvanā come il ‘desiderio di espressione’ che genera la poesia, l’arte che si propone di alludere a ciò che per sua natura è indescrivibile: la bellezza, ovvero l’essenza della realtà. Lo yoga kaśmīro incarna la capacità creativa che il termine bhāvanā contiene in sé. È risvegliare la presenza consapevole, gustandola attraverso la contemplazione. Uno yoga ‘filosofico’ dunque e altamente ‘poetico’, in quanto si propone di evocare nientemeno che il sacro attraverso la postura, il gesto, l’immagine, il suono.

Per conservare la sua vitalità ispiratrice il linguaggio della pratica deve oggi a mio avviso accendere un significato, tradurre la filosofia in poesia e la poesia in āsana. Lo yoga si assume quindi il compito di suscitare l’intima natura del reale, esprimendo in modo rituale la sua sacralità naturale. Il suono e il gesto conservano in tal modo la loro matrice energetica, prima che discorsiva o intellettuale. Parole e immagini rese ‘corporee’, che non diminuiscono, anzi intensificano la verità delle cose.

Lakshmanjoo

I sensi e in particolar modo il tatto, o meglio la tattilità, altrove considerati una distrazione da cui ritirarsi, sono qui invece lo strumento principale di indagine. Anche in questo caso lo yoga del Kaśmīr sembra da un lato andare in controtendenza rispetto allo yoga classico (viene in mente la famosa critica di Abhinavagupta allo yoga di Patanjali, citato da Torella: “Ritirare i sensi dai loro oggetti porta a rafforzare il legame invece di allentarlo”1R Torella, “Abhinavagupta’s Attitude towards Yoga” in Journal of the American Oriental Society 139.3 (2019)); dall’altro siamo ben distanti anche dalle celebrazioni della positività del corpo-fatto-di-cibo che animano molto yoga contemporaneo. I sensi sembrano qui anzi già appartenere a territori che altrove sarebbero definiti soprannaturali. Puoi dirci qualcosa di più rispetto a questa particolarità?

Rasāsvada, la percezione estetica, è l’esperienza unitaria del sentire attraverso l’uso dispiegato dei sensi, o meglio quella qualità alla base di ogni specifica conoscenza sensoriale: l’assaporamento. Non riguarda semplicemente il senso del gusto, ma quella completezza che deriva dall’usare fino all’estremo uno qualunque di tutti i sensi. Rasa come gustazione denota in generale la primordiale presa di coscienza che tutti i sensi attivano. Sensi che nello śivaismo kaśmīro sono ‘le Dee, le signore dei sensi’ (karaṇeśvarī o svasaṃvid-devī), potenti divinità che risvegliano la capacità di comprendere, di conoscere ovvero di assaporare intensamente la realtà. Sapere è in primis ‘gustare’.

La cifra di questo yoga è sempre l’intensità, fiammante, nuova, per certi versi sempre un po’ spiazzante in quanto contemplazione smisurata e senza inibizioni di quello che c’è, senza omissioni né aggiunte. Questo, come dicevamo, è uno yoga contemplativo. Contemplare la bellezza, anche in ciò che ci spiazza, ci addolora o ci scuote dalle fondamenta.

Contrariamente alla visione del Pātañjala-yoga o yoga classico e di gran parte del pensiero filosofico indiano, dove emozioni, passioni e desideri vengono demonizzati o considerati pericolosi nemici, nel tantrismo non duale del Kaśmīr lo yogin, come l’artista o il fruitore dell’arte, è un rasika, un ragavan o un sahṛdaya ovvero una persona ‘sensibile’, appassionata, che partecipa ‘con tutti i sentimenti’ a ciò che gli è dato di vivere o sperimentare. Potremmo affermare che lo yogin del tantrismo non duale ‘sente esteticamente’, rifacendoci al significato del greco aisthánomai, che è un sentire, comprendere attraverso l’emozione e il sentimento. Lo stato di coscienza estetico è in qualche modo ‘estatico’ per il particolare tipo di gioia che produce nel soggetto, completamente indipendente da un’utilità personale.

L’intensità di un cuore attento e partecipe (heartful potremmo dire, prima che mindful), pur essendo spontanea, a volte richiede un allenamento per attivarsi e incrementarsi. Lavorare la mente-cuore rappresenta un livello specifico di yoga, forse il più diffuso nelle scuole non duali, interessate a dissodare la mente dai suoi impedimenti più che a potenziare la struttura muscolare del corpo. Il training della mente-cuore è in ogni caso un lavoro ‘tattile’, concreto, come impastare il pane o smuovere la terra per seminarla. Richiede la stessa cura, costanza, dedizione. Richiede non soltanto una mente pronta, ma anche un cuore vibrante e un corpo disponibile ad accogliere e custodire l’intensità. Ed è il calore vitale, come dicevamo, e l’emozione della vita in noi che si genera da questo calore, a creare la forma dell’āsana e a originare la dinamica del corpo nello spazio. Il movimento in queste scuole diventa radianza di luce e calore, in ultima analisi, gioia. Espansione del cuore, danza del cuore.

Inevitabile non notare quanto qui sia decentrato il ruolo della tecnica, al contrario di quanto avvenga nello yoga classico e in quello contemporaneo, dove sembrerebbe che il riconoscimento della propria reale natura – o, a essere più modesti, i vari benefici dello yoga – derivino dall’esecuzione di procedure definite e dalla loro ripetizione. Nello yoga del Kaśmīr i rapporti causali sembrano capovolti, o forse sarebbe meglio dire sconvolti da cause di forza maggiore: prima c’è il riconoscimento e poi la tecnica. Anche per le nostre menti contemporanee, dominate dalla tecnica (penso ad esempio all’attributo intelligente riferito a un algoritmo), può sembrare di trovarsi di fronte a un koan: com’è possibile anche solo chiedere di realizzare qualcosa senza realizzarlo?

Rāga, desiderio, anziché vairagya, distacco (letteralmente ‘scoloramento del rosso’ ovvero del desiderio) e kṣana, istante, anziché abhyāsa, ripetizione nel tempo, sono i pilastri dello yoga non duale rispetto al Pātañjala-yoga. Lo yoga del Kaśmīr valorizza lo slancio (udyama) anziché lo sforzo o la coazione a ripetere. Come spiego nel mio libro, quella dello yogin è un’azione vitale spontanea (akṛtaka) che nella pratica si traduce in presenza consapevole e partecipazione emotiva, espansività, la direzione privilegiata dello yoga non duale.

Abhinavagupta chiama camatkāra quel particolare assaporamento meravigliato e consapevole in cui il soggetto lascia sgorgare dall’interno il gesto yogico. Non si tratta di un appagamento per aver finalmente ottenuto un oggetto desiderato o aver raggiunto un obiettivo, ma una felicità del tutto diversa e autosufficiente, non dipendente dall’esterno, ma riconducibile all’intima sensazione di essere vivi, consapevoli dell’inesauribile desiderio della vita di esprimersi come da una fonte che zampilla e irrora tutto lo spazio del corpo e oltre il corpo. Tale attitudine interna è, come dicevamo, l’aspetto centrale di questo yoga, anziché la tecnica, relegata al livello di yoga più grossolano o minimale, ānava-upāya. Ma nella visione di Abhinavagupta anche uno yoga ‘meramente tecnico’ conduce in ultima analisi all’insight che ‘ognuno di noi è Śiva’…. Ognuno di noi è già perfetto così com’è. E ogni livello di yoga conduce naturalmente e imperiosamente a questa evidenza.

Lo slancio, la smisuratezza, il traboccare, il fuori scala sembrano essere cifre caratteristiche di questo yoga. Se ci fermassimo qui potremmo pensare a uno yoga di gesti eclatanti e di supersforzi. E invece, l’attenzione viene più spesso orientata alla sensibilità minuta, del momento liminale, dello spazio tra due cose/due esperienze, allo ‘stare per’ o al morire di un’esperienza. Anche qui sembra che venga chiesto l’impossibile: come si possono intraprendere due direzioni apparentemente divergenti, l’esuberanza e l’estremamente piccolo?

Il traboccamento (antarucchalana) del gesto e del cuore in uno slancio smisurato non contraddice in effetti l’attenzione minuta dello yogin verso ciò che è liminale, indefinito, evanescente.

La non contraddizione sta nel fatto che niente viene fatto ‘per se stessi’, ma in una modalità per così dire ‘generalizzata’ ovvero neutrale. Le stesse famigerate citta-vṛtti (modi della coscienza che comprendono cognizioni/emozioni) non portano a schiavitù se vissute ‘in modalità estetica’ ovvero lasciate libere di dispiegare la loro carica energetica prima che la mente razionale se ne appropri, asservendole ai propri bisogni. Esse diventano ostacoli quando il contenuto emotivo è al servizio dell’ego. Tale attitudine non appropriativa, comune peraltro a tutte le grandi tradizioni mistiche, purifica ogni desiderio dalla sua componente di avidità accaparratrice e trabocca come ‘desiderio aperto’, pronto ad accogliere e ad amare esattamente quello che c’è, così com’è, come ben sapevano e mettevano in pratica gli stoici nella nostra tradizione occidentale. Secondo questa visione non soltanto ciò che è sottile o liminale, ma anche ciò che è doloroso o negativo trova posto nella mente-cuore dello yogin, dove tutto senza esclusione ha la sua ragion d’essere.

Mark Dyczkowski, Daniel Odier, Christopher Wallis: cito tre nomi tra i tanti legati, in modo molto diverso tra loro, al tantrismo del Kaśmīr. Quali sono le affinità e le divergenze con l’approccio de Lo yoga della bellezza?

Tutti e tre gli autori che citi hanno contribuito in diversa misura alla diffusione e alla conoscenza della tradizione del Kaśmīr medievale. Non mi risulta però che nessuno di loro abbia particolarmente approfondito la produzione estetica dei maestri kaśmīri, riscoperta invece e valorizzata sulle orme di Raniero Gnoli da uno dei più insigni interpreti della tradizione manoscritta medievale, Raffaele Torella.

La traduzione dei testi di estetica medievali è in ogni caso un fenomeno relativamente recente, di cui Gnoli alla fine degli anni’50 fu uno dei primi al mondo ad interessarsi. Negli ultimi vent’anni stanno emergendo in traduzione delle vere e proprie perle di questa visione estetica, un filone estremamente promettente che getta una nuova luce interpretativa anche sul significato stesso di yoga in generale e dello yoga non duale in particolare. Qui la percezione della bellezza gioca il ruolo di vero e proprio laboratorio dell’esperienza religiosa in senso lato e yogica in senso specifico. Qui si può a ragion veduta concepire uno yoga ‘estetico’ che si contrappone a uno yoga ‘ascetico’ dominante in tutta la ben nota tradizione dello Haṭha-yoga.

Nel tuo libro non risparmi connessioni con il pensiero e la poesia occidentale, da Platone a Bachelard, da Leopardi a Weil e Candiani. Sembra di intravedere che, sebbene l’idea di una philosophia perennis non goda più di grande popolarità, sia tuttavia possibile almeno trovare un terreno comune di dialogo, che vi sia un referente comune, per quanto per sua natura ineffabile, che altri, altrove, hanno intuito con formulazioni diverse. Cosa ne pensi?

Già nel Vangelo di Giovanni – su cui si fonda tutta la tradizione mistica occidentale a seguire – il primato della vita in tutte le sue diverse accezioni è la matrice concreta della spiritualità nelle sue forme più elevate. È allora lecito riscoprire in contesti tra loro anche molto diversi, dalla poetica all’estetica fino alla prassi yogica o alla fenomenologia husserliana tratti di un filo comune che unisce il vasto campo delle esperienze umane. La percezione/emozione della nostra vitalità interna può essere considerato questo fil rouge.

Eric Barét

Nel tuo libro precedente, La dea che scorre, resoconto dei tuoi studi sul campo in Assam, accenni a un probabile contatto tra la tradizione tantrica indiana e quella taoista. In effetti, e non è solo una mia impressione, osservando la pratica e la gestualità di Eric Barét o di Nathalie Delay è difficile non notare un’affinità con il Qi Gong e con le arti marziali ‘interne’ (che del resto, mutatis mutandis, implicano un approccio intimamente tattile all’energia vitale), più che con le varie filiazioni dello Haṭha–yoga moderne e premoderne. Ho parlato di gestualità volutamente, in quanto sia in Barét che in Delay sembra quasi una forma di Qi Gong spontaneo. Cosa ne pensi?

Fin dalla prima volta che incontrai lo yoga di Eric Baret dodici anni fa, mi resi conto che si trattava di uno yoga per così dire ‘prāṇico’, che lavorava essenzialmente un corpo fatto di calore vitale, respiro e spazio, relegando a un costrutto mentale il corpo denso, muscolare, generalmente considerato protagonista dello yoga più diffuso. Lavorare la dimensione energetica in una percezione del corpo allargata a comprendere tutta la vastità in cui il corpo è inscritto è una peculiarità dello yoga del Kaśmīr contemporaneo e senz’altro presenta notevoli affinità con il Qi gong tradizionale cinese, che io stessa ho avuto la fortuna di praticare in prima persona con un maestro taoista.

In uno yoga siffatto l’āsana diventa una ‘forma senza forma’. Una forma che attraverso il silenzio e l’immobilità viva che la costituiscono, lascia che i suoi contorni scolorino fino ad abbracciare tutto lo spazio intorno. Scompare allora la percezione fisica della postura in cui si dimora e rimane soltanto ‘il soffio interno’, la calda e vibrante sensazione della vita in noi, che i kaśmīri chiamavano spanda e i taoisti Qi.

Vorrei concludere con tre suggestioni che mi hanno suscitato la lettura del tuo libro. La prima è di un poeta a me molto caro, Yves Bonnefoy: “Ciò che non ha pace è ancora la pace”.
La seconda è di un poeta a me ancora più caro, Milo De Angelis, che abbiamo intervistato qualche tempo fa proprio su questo sito: “L’infinito appare nel poco/come l’ultima nota di un grido/che si dilegua”.
L’ultima suggestione viene dall’ultimo capitolo de Gli imperdonabili di Cristina Campo, intitolato guarda caso “Sensi soprannaturali”. L’ambito sembrerebbe essere proprio distante, infatti si parla di una supplica del mistico greco medievale Simeone Metafraste, ma anche per questo la connessione spicca in modo bruciante: “È perfettamente apparente […] come l’acquisizione dei sensi soprannaturali importi l’oblazione dei naturali: questi gettati in quelli, accesi e consumati in quelli, come le resine preziose nella mischianza del santo crisma. […] Che si possa parlare qui di repressione o di sublimazione è degradante al solo ricordo, e persino una parola del tutto canonica, mortificazione, appare in qualche modo mortificante.”

Bellissime le tre suggestioni che riporti nella tua ultima domanda.
‘Ciò che non ha pace è ancora la pace’ mi ricorda una mattina in Kaśmīr, quando arrivai completamente fradicia alla piccola casa del maestro, in fondo al villaggio. Una tempesta di pioggia mi aveva sorpreso sulla strada fangosa e al mio arrivo venni scaldata e rifocillata con latte caldo. Quindi il maestro mi scrisse queste poche parole su un pezzo di carta: ‘Non c’è pace senza intensità’. In questa breve frase c’è una bella sintesi della visione non duale. La pace può essere assaporata in ogni cosa o situazione, anche in mezzo al freddo di una tempesta di pioggia, anche in mezzo alla ‘non pace’. La pace è intensità.

La quiete è sempre qualcosa di vivo, vibrante come un cuore che batte. In mezzo a quel battito si può dimorare, indisturbati, in āsana.

E allora l’infinito ‘appare nel poco….” per riprendere le parole di Milo De Angelis. In una forma circoscritta – l’āsana appunto – custodita in un corpo immobile, si può avere la percezione dell’immensità di ogni cosa, che si estende ben oltre il nostro limitato orizzonte ordinario.

E a proposito di ‘sensi sovrannaturali’, questa è proprio l’indicazione dello śivaismo kaśmīro. Lo yogin fermo in āsana, dopo aver assaporato pienamente la realtà con tutti i sensi dispiegati, accede a una conoscenza non più sensoriale o forse ‘ultra-sensoriale’. Arriva a intuire l’essenza luminosa e cosciente delle cose, la loro intima bellezza, gratuita e svincolata da giudizi, pregiudizi e conclusioni della mente intellettuale, senza dover più ricorrere ai sensi, ma sviluppando un presentimento, un sentore spirituale. Attraverso l’arte o il rito dello yoga si arriva a presentire, gustandolo, ciò che non è altrimenti conoscibile, poiché ben al di là del nostro campo esperienziale.


Piccola nota finale

Non potevamo ovviamente approfondire qui l’argomento per ragioni di spazio e di tempo, ma anche il precedente libro di Gioia Lussana merita di essere menzionato: La dea che scorre. La matrice femminile dello yoga tantrico, che come accennato più esplora sul campo l’antichissimo culto della dea Kāmākhyā in Assam, tutt’oggi vivo, da cui emergono elementi molto arcaici del fenomeno tantrico che possono contribuire ad allargare ulteriormente gli orizzonti sullo yoga stesso.

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Note
↑1 R Torella, “Abhinavagupta’s Attitude towards Yoga” in Journal of the American Oriental Society 139.3 (2019)
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Tai Chi Chuan: esercizio fisico o pratica terapeutica?

20 Ottobre 2021 Marco Invernizzi

Il Tai Chi Chuan (o Tai ji Quan usando la traduzione degli ideogrammi cinesi con lo standard “pinyin”) è una pratica che nasce in Cina dall’incontro tra arti marziali e pratiche tradizionali per la salute e la longevità.

Non vi è chiarezza sulle sue origini che pare siano contenute nelle antichissime radici stesse della cultura cinese. Alcune leggende infatti fanno risalire la nascita di questa pratica al V° secolo e a Bodhidarma, il monaco buddista che dall’India si recò in Cina portando con sé l’insegnamento Buddista e fondando il monastero di Shaolin. Altre leggende lo fanno risalire al X° secolo ad opera dell’eremita taoista Zhang San Feng che viveva sul monte Wudan. Testimonianze invece concrete riguardo la sua codifica negli stili moderni risalgono al XVIII° secolo con lo stile della famiglia Chen, tra i principali stili presente a tutt’oggi e praticato.1Carlo Moiraghi, Tai Ji Quan, la forma breve e la forma lunga, Edizioni XX

Monaci sul Monte Huashan, una delle cinque montagne sacre taoiste, fotografati nel 1935.

Il Tai Ji Quan è un’antica disciplina che permette di armonizzare e di ottimizzare il proprio stato vitale ed il proprio flusso energetico attraverso l’uso combinato di movimenti lenti e armonici e un uso consapevole del respiro. Per questo motivo è parte fondamentale delle pratiche tradizionali cinesi della prevenzione e della longevità e, a buon titolo, fa parte in maniera integrante del corpus medico tradizionale cinese.

Oltre all’aspetto salutistico-preventivo, il Tai Ji Quan contiene anche un aspetto marziale e in esso sono contenute e fuse insieme le complesse e multiformi radici culturali da cui nasce la cultura cinese e il suo corpus medico, cioè Buddhismo, Confucianesimo e Taoismo. Le sue più evidenti diversità rispetto ad altre arti marziali sono costituite dal ruolo centrale assegnato ad azioni difensive basate sulla cedevolezza, e dall’impiego nei confronti dell’avversario della elasticità del corpo invece che della forza.2Carlo Moiraghi, Tai Ji Quan, la forma breve e la forma lunga, Edizioni XX

Da alcuni anni è andato crescendo l’interesse della medicina occidentale verso questa pratica, intuendone il potenziale benefico in numerose patologie. Infatti diversi studi hanno evidenziato come il Tai Chi Chuan possa portare a significativi miglioramenti o comunque a dei benefici nelle patologie più disparate, dall’osteoporosi, ad alcune malattie neurologiche, fino a patologie cardiovascolari e polmonari croniche.3Leung RW, McKeough ZJ, Alison JA. Tai Chi as a form of exercise training in people with chronic obstructive pulmonary disease. Expert Rev Respir Med. 2013 Dec;7(6):587-92

Questo perché? Il mondo scientifico occidentale, e in particolare l’OMS, nel tentativo di catalogare tutto ciò che è considerabile come tecnica terapeutica ma “alternativa” alla medicina occidentale basata sulle evidenze, ha introdotto una complessa categorizzazione di cui fa parte anche la medicina tradizionale cinese e quindi il Tai Chi, definito come tecnica “psico-corporea”.4NCCAM, National Center for Complementary and Alternative Medicine
World Health Organization 2000: General guidelines for methodologies on research and evaluation of traditional medicine, Geneva, WHO, 2000.

Il Tai Chi Chuan appartiente a tale categoria proprio perché a differenza di una attività fisica generica non si focalizza soltanto sull’attività muscolare finalizzata al movimento, ma anche su altri aspetti come la respirazione, il mantenimento di una postura corretta, l’equilibrio, l’eliminazione di rigidità fisiche e di tensioni mentali, il tutto finalizzato a generare un’armonia tra corpo e mente, giustificando quindi appunto la definizione di tecnica psico-corporea.

Pratica del Tai Chi Chuan con pazienti affetti dal morbo di Parkinson

Recentemente è stata pubblicata una ricerca sulla rivista New England Journal of Medicine,5Li F, Fisher KJ, Harmer P, Irbe D, Tearse RG, Weimer C. Tai Chi and self-rated quality of sleep and daytime sleepiness in older adults: a randomized controlled trial. J Am Geriatr Soc 2004;52:892-900 una delle più autorevoli dal punto di vista scientifico per quanto riguarda la medicina occidentale basata sulle evidenze.

Questo studio randomizzato controllato, svolto dall’Oregon Reasearch Institute e finanziato dal fondo di ricerca nazionale statunitense (NIH), aveva come obiettivo il determinare se un programma di Tai Chi potesse migliorare il controllo posturale in pazienti affetti da Morbo di Parkinson.

Il razionale di questo studio si basa sul fatto che alcuni lavori in passato hanno già dimostrato come l’esercizio fisico possa rallentare il deterioramento delle funzioni motorie e prolungare il periodo di indipendenza nei parkinsoniani.6Li F, Harmer P, Glasgow R, et al. Translation of an effective Tai Chi inter- vention into a community-based falls- prevention program. Am J Public Health 2008;98:1195-8 Tuttavia la ricerca è sempre più focalizzata a cercare approcci a metodiche di esercizio alternativo che possano apportare benefici anche in ambito non unicamente motorio.
Per questo i 195 pazienti arruolati in questo studio sono stati suddivisi in maniera casuale in tre gruppi: uno in cui veniva praticato solamente il Tai chi, un secondo in cui veniva svolto un classico programma di esercizi contro resistenza come da linee guida e un terzo gruppo in cui si praticava unicamente stretching. I pazienti di ciascun gruppo eseguivano quindi 2 sessioni di allenamento settimanali della durata di un ora per un totale di 24 settimane.

I risultati di questo studio sono stati sicuramente interessanti, in quanto il gruppo di pazienti trattati con Tai Chi ha dimostrato un miglioramento rispetto agli altri due gruppi statisticamente significativo dell’equilibrio accompagnato da un aumento dell’ampiezza del passo, della velocità del cammino, e conseguentemente una riduzione significativa del numero di cadute.

Quindi il Tai Chi sarebbe in grado di sovvertire i meccanismi che determinano i deficit di movimento e di coordinazione nei pazienti Parkinsoniani producendo contemporaneamente un aumento dell’equilibrio e da ultimo un miglioramento netto nell’espletare le attività del vivere quotidiano.

Secondo gli autori tutto ciò sarebbe ascrivibile a diverse caratteristiche della pratica del Tai Chi ed in particolare alla forma specificamente utilizzata in questo studio che è descritta nell’appendice all’articolo.7Li F, Fisher KJ, Harmer P, Irbe D, Tearse RG, Weimer C. Tai Chi and self-rated quality of sleep and daytime sleepiness in older adults: a randomized controlled trial. J Am Geriatr Soc 2004;52:892-900

Infatti in generale i movimenti del Tai Chi stressano lo spostamento del peso e il movimento delle caviglie mantenendo il centro di gravità dell’individuo ai limiti della stabilità, alternando tra posizioni con i piedi a distanze molto diverse per cambiare continuamente la base di supporto.

Inoltre anche a livello muscolare gli arti inferiori sono molto sollecitati (e quindi allenati) sia per il tempo in cui devono mantenere la posizione, sia in quello in cui devono muoversi. Inoltre un ruolo importante è svolto anche dal controllo del tronco che viene sottoposto a numerose rotazioni con contemporaneo mantenimento della corretta postura della parte superiore del corpo. Tutti questi meccanismi insieme sicuramente concorrono ai miglioramenti ottenuti da questi pazienti per quanto riguarda l’equilibrio e la velocità del cammino.

Un altro dato molto interessante riguarda la diminuzione del numero di cadute statisticamente significativa nei pazienti trattati con Tai Chi rispetto agli altri due gruppi. Questo dato sicuramente è una conseguenza diretta dei miglioramenti ottenuti da questi pazienti relativamente a cammino ed equilibrio.

Tuttavia un altro dato su cui gli autori di questo studio non si sono soffermati – ma che sicuramente ha una rilevanza notevole – è che il rischio di caduta, nella popolazione anziana in genere, ma soprattutto nei parkinsoniani,8Invernizzi M, Carda S, Viscontini GS, Cisari C. Osteoporosis in Parkinson’s disease. Parkinsonism Relat Disord. 2009 Jun;15(5):339-46 è direttamente correlata con il rischio di frattura di femore da “fragilità”.9Rosen C. Primer on on the Metabolic Bone Diseases and Disorders of Mineral Metabolism, Eighth Edition 2013
Stalenhoef PA, Diederiks JMP, Knottnerus JA, Crebolder HFJM. A risk model for the prediction of recurrent falls in community-dwelling elderly: a prospective cohort study. J Clin Epidemiol 2002;55:1088–94
Dargent-Molina P, Favier F, Grandjean H, Baudoin C, Schott AM, Hausherr E, et al. Fall-related factors and risk of hip fracture: the EPIDOS prospective study. Lancet 1996;348(9021):145–9
Fink HA, Kuskowski MA, Orwoll ES, Cauley JA, Ensrud KE. Osteoporotic frac- tures in men (MrOS) study group. Association between Parkinson’s disease and low bone density and falls in older men: the osteoporotic fractures in men study. J Am Geriatr Soc 2005;53:1559–64
Taylor BC, Schreiner PJ, Stone KL, Fink HA, Cummings SR, Nevitt MC, et al. Long-term prediction of incident hip fracture risk in elderly white women: study of osteoporotic fractures. J Am Geriatr Soc 2004;52:1479–86
Kanis JA, Odén A, McCloskey EV, Johansson H, Wahl DA, Cooper C; IOF Working Group on Epidemiology and Quality of Life. A systematic review of hip fracture incidence and probability of fracture worldwide. Osteoporos Int. 2012 Sep;23(9):2239-56
Hernlund E, Svedbom A, Ivergard M, Compston J, Cooper C, Stenmark J, McCloskey EV, Jonsson B, Kanis JA. Osteoporosis in the European Union: medical management, epidemiology and economic burden. A report prepared in collaboration with the International Osteoporosis Foundation (IOF) and the European Federation of Pharmaceutical Industry Associations (EFPIA). Arch Osteoporos. 2013 Dec;8(1-2):136
Tale evento si differenzia dalle fratture traumatiche di femore perché avviene in condizioni in cui normalmente non dovrebbe verificarsi come ad esempio una caduta dalla propria altezza.

Breve animazione di alcuni movimenti di Tai Chi

I meccanismi alla base di tale “fragilità” sono da ascriversi a modificazioni quantitativo-qualitative dell’osso e della muscolatura prossimale dell’anca in grado di mantenere la stazione eretta e prevenire appunto le cadute.Tale infausto evento infatti ha dei risvolti devastanti in termini sia di mortalità (il 20% dei pazienti fratturati di femore muore ad un anno indipendentemente dall’età), che di recupero, infatti meno della metà dei pazienti ritorna a valori di indipendenza sovrapponibili al pre-frattura.10Kanis JA, Odén A, McCloskey EV, Johansson H, Wahl DA, Cooper C; IOF Working Group on Epidemiology and Quality of Life. A systematic review of hip fracture incidence and probability of fracture worldwide. Osteoporos Int. 2012 Sep;23(9):2239-56

Inoltre i costi sia sanitari che sociali, diretti e indiretti, sono altissimi: basti pensare che in Italia ogni anno si registrano circa 100mila fratture di femore da fragilità all’anno; infine, considerando il progressivo invecchiamento della popolazione, si stima che entro il 2050 tale problematica sarà un vero cataclisma per i sistemi socio-sanitari dei paesi occidentali.11Reginster JY. Bone 2006;38:S4-S9
WHO Scientific Group. WHO Technical Report Series: 921,2003:1
Wen CP, Wai JP, Tsai MK, et al. Minimum amount of physical activity for reduced mortality and extended life expectancy: a prospective cohort study. Lancet 2011; 378:1244

In conclusione quindi ormai da anni è assodato che l’esercizio fisico, eseguito anche soltanto per pochi minuti al giorno, è capace di determinare effetti positivi su svariati aspetti della salute in soggetti di qualunque età, persino over 80 anni.12Liu T, Lao L. Tai Chi for Patients with Parkinson’s Disease. COrrespondence. New Eng J Med 2012 3 May 366;18 Partendo da questo assunto, i risultati di questo studio pongono sicuramente una pietra miliare per quanto riguarda l’utilizzo a fini terapeutici del Tai Chi.

Tuttavia, nonostante gli autori vedano e sottolineino le potenzialità per un utilizzo non solo limitato al Parkinson ma in ambito più ampio alla Neuroriabilitazione, non si sbilanciano sugli effetti terapeutici del Tai Chi e dichiarano la necessità di investigare più in dettaglio i meccanismi alla base di tali risultati, non ancora del tutto compresi.

In realtà una considerazione che nasce spontanea leggendo questo articolo e i suoi risultati, anche in un non addetto ai lavori, è come il Tai Chi esprima un qualcosa “di più” in termini di efficacia rispetto al classico esercizio fisico. Tuttavia che cosa determini questo valore aggiunto non emerge in maniera così immediata e le spiegazioni meccanicistiche fornite dagli autori, per loro stessa ammissione, sono incomplete e non esaustive.

Tuttavia a mio parere questo valore aggiunto è da ricercare nelle radici stesse di questa pratica. Infatti già l’essere stata definita tecnica psico-corporea la rende sta a significare che ne è stata intuita una natura più profonda e complessa rispetto ad una qualunque tecnica di esercizio fisico. Tuttavia per comprendere meglio questa problematica è interessante citare un commento che è stato pubblicato a seguito di questo articolo:

Tai chi is definitely more than a mere set of body movements. At the core of tai chi is a unique theory based on ancient Chinese culture about the value of moving vital energy, or qi, throughout the body. Tai chi can hardly be practiced in the absence of its cultural underpinnings.
(In definitiva il Tai Chi è molto di più di una mera serie di movimenti corporei. Alla base del Tai Chi vi è una unica teoria, basata sull’antica cultura Cinese, riguardo l’importanza di muovere l’energia vitale, altrimenti detta qi, attraverso il corpo. Difficilmente si potrà praticare il Tai Chi in assenza delle sue radici culturali.)

Quindi per comprendere, o almeno cercare in parte di farlo, questa disciplina è necessario considerare le profonde radici filosofico-culturali su cui essa poggia, pena una svalutazione di tale pratica e una conseguente riduzione della sua efficacia.

Come abbiamo già accennato esse si rifanno ad una visione dell’essere umano complessa, che attinge a più tradizioni, in cui tuttavia convivono dei principi basilari e condivisi. Tra questi vi è la visione tripartita dell’uomo come un’unità indissolubile di corpo mente e spirito, che la pratica del Tai Chi cerca appunto di armonizzare.

L’identità e il conseguente dialogo tra microcosmo umano e macrocosmo e il principio della non polarità Wu Ji (vuoto) da cui origina la suprema polarità (pieno) Tai Ji che si esprime nella realtà attraverso il ricorrersi di due momenti opposti, yin e yang.

Tuttavia si cercano tanto negli ultimi anni risposte all’interno delle filosofie orientali, ma le nostre “radici”, ovvero le filosofie occidentali sostengono concetti tanto diversi?

La risposta a questo quesito, o comunque un tentativo, nella prossima puntata.

Il novantenne Kang Youzhen durante la sua pratica giornaliera di Tai Chi Chuan 

Note[+]

Note
↑1, ↑2 Carlo Moiraghi, Tai Ji Quan, la forma breve e la forma lunga, Edizioni XX
↑3 Leung RW, McKeough ZJ, Alison JA. Tai Chi as a form of exercise training in people with chronic obstructive pulmonary disease. Expert Rev Respir Med. 2013 Dec;7(6):587-92
↑4 NCCAM, National Center for Complementary and Alternative Medicine
World Health Organization 2000: General guidelines for methodologies on research and evaluation of traditional medicine, Geneva, WHO, 2000.
↑5, ↑7 Li F, Fisher KJ, Harmer P, Irbe D, Tearse RG, Weimer C. Tai Chi and self-rated quality of sleep and daytime sleepiness in older adults: a randomized controlled trial. J Am Geriatr Soc 2004;52:892-900
↑6 Li F, Harmer P, Glasgow R, et al. Translation of an effective Tai Chi inter- vention into a community-based falls- prevention program. Am J Public Health 2008;98:1195-8
↑8 Invernizzi M, Carda S, Viscontini GS, Cisari C. Osteoporosis in Parkinson’s disease. Parkinsonism Relat Disord. 2009 Jun;15(5):339-46
↑9 Rosen C. Primer on on the Metabolic Bone Diseases and Disorders of Mineral Metabolism, Eighth Edition 2013
Stalenhoef PA, Diederiks JMP, Knottnerus JA, Crebolder HFJM. A risk model for the prediction of recurrent falls in community-dwelling elderly: a prospective cohort study. J Clin Epidemiol 2002;55:1088–94
Dargent-Molina P, Favier F, Grandjean H, Baudoin C, Schott AM, Hausherr E, et al. Fall-related factors and risk of hip fracture: the EPIDOS prospective study. Lancet 1996;348(9021):145–9
Fink HA, Kuskowski MA, Orwoll ES, Cauley JA, Ensrud KE. Osteoporotic frac- tures in men (MrOS) study group. Association between Parkinson’s disease and low bone density and falls in older men: the osteoporotic fractures in men study. J Am Geriatr Soc 2005;53:1559–64
Taylor BC, Schreiner PJ, Stone KL, Fink HA, Cummings SR, Nevitt MC, et al. Long-term prediction of incident hip fracture risk in elderly white women: study of osteoporotic fractures. J Am Geriatr Soc 2004;52:1479–86
Kanis JA, Odén A, McCloskey EV, Johansson H, Wahl DA, Cooper C; IOF Working Group on Epidemiology and Quality of Life. A systematic review of hip fracture incidence and probability of fracture worldwide. Osteoporos Int. 2012 Sep;23(9):2239-56
Hernlund E, Svedbom A, Ivergard M, Compston J, Cooper C, Stenmark J, McCloskey EV, Jonsson B, Kanis JA. Osteoporosis in the European Union: medical management, epidemiology and economic burden. A report prepared in collaboration with the International Osteoporosis Foundation (IOF) and the European Federation of Pharmaceutical Industry Associations (EFPIA). Arch Osteoporos. 2013 Dec;8(1-2):136
↑10 Kanis JA, Odén A, McCloskey EV, Johansson H, Wahl DA, Cooper C; IOF Working Group on Epidemiology and Quality of Life. A systematic review of hip fracture incidence and probability of fracture worldwide. Osteoporos Int. 2012 Sep;23(9):2239-56
↑11 Reginster JY. Bone 2006;38:S4-S9
WHO Scientific Group. WHO Technical Report Series: 921,2003:1
Wen CP, Wai JP, Tsai MK, et al. Minimum amount of physical activity for reduced mortality and extended life expectancy: a prospective cohort study. Lancet 2011; 378:1244
↑12 Liu T, Lao L. Tai Chi for Patients with Parkinson’s Disease. COrrespondence. New Eng J Med 2012 3 May 366;18
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La posizione da cui non puoi uscire

28 Ottobre 2020 Francesco Vignotto

Piccola riflessione attuale – al di là del fatto che siamo di nuovo chiusi e che ci dispiace – nata da una postilla all’ultimo post: cosa fare quando si incontra difficoltà in una posizione? Si può valutare un passo indietro. Quando si può…

Ma poi ci abituammo anche a questo. E alla fine quasi tutti imparammo quello che si dovrebbe imparare nascendo, la verità che fa nascere tutte le altre: che a ogni uomo può capitare tranquillamente ogni cosa.

Silvio D’Arzo

E arriva il momento in cui ti trovi in una posizione da cui non puoi uscire. Ad esempio, una crisi mondiale del sistema sanitario che mette in discussione la vita intera fin nei minimi dettagli quotidiani, con tutte le varianti di questa posizione che possono toccare in sorte a ciascuno: ammalarsi e la paura del contagio per sé e per i propri cari; le limitazioni alla libertà; turni di lavoro estenuanti per alcuni e il non poter lavorare affatto per altri; il timore per le sorti materiali e la rabbia per le diseguaglianze con cui la crisi colpisce i singoli.

È proprio in questi momenti che comprendi quanto poco veramente puoi decidere nella vita, che puoi al massimo scegliere in quale corrente nuotare, o perlomeno se opporvi o non opporvi stupidamente resistenza. Ma proprio al cospetto di tanta manifesta impotenza e naufragare di progetti è già intuibile, per chi è ancora disposto a guardare attraverso, l’ombra di una libertà meno triviale dei nomi che le siamo soliti dare. E in questo caso qualche dimestichezza con la dimensione interiore, visto che ancora una volta dobbiamo stare isolati, può fare la differenza.

Stare in posizioni complicate e ascoltare i meccanismi reattivi, respirare, spostare l’attenzione dai ‘pieni’ ai ‘vuoti’ non risolverà certo la crisi sanitaria – sì, certo, migliora il benessere e la salute, come ogni ‘attività motoria’ (ne parleremo a parte) ma non è questo il punto ora: qualcuno, un tantino più lungimirante, ha affermato che lo yoga – e per yoga intenderemo in senso allargato qualsiasi approccio meditativo – è una preparazione al passaggio della morte, altra parola che non si vorrebbe sentire, così come non si vorrebbero vivere momenti come quello che stiamo vivendo. Tutte posizioni che però la vita ci presenta prima o poi, e da cui non è possibile uscire a piacimento con un passo indietro e, a volte, nemmeno con un ‘passo oltre’.

Lo yoga va esercitato in momenti di tranquillità e in ambienti protetti, ma è proprio quando la vita ci spinge in queste acque pericolose che gli anni di pratica dimostrano di avere o non avere eroso le mura interne in cui ci siamo confinati ben prima di qualsiasi lockdown esteriore. Il che potrà rendere non solo un po’ meno traumatico – si impara a morire a ogni espiro – ma persino fruttuoso l’incontro con la sfinge dell’evento incalcolato, quando tutte le risposte che apparivano esatte sono lettera morta, quando ciò che doveva tornare per forza alla normalità sembra invece precipitare sempre più verso un inspiegabile groviglio.

È proprio quando sei nella posizione da cui non puoi uscire, quando realizzi che sei lì e vorresti essere altrove, ma quell’altrove non esiste e probabilmente non è mai esistito – che avviene qualcosa, uno slittamento, e non è la salvezza, non è la soluzione a un intreccio che volge verso il suo esito imparziale, ma come ha descritto Salvatore Iaconesi in un recente articolo:

È la tragedia.
E dalla tragedia si esce solo con l’agnizione: il riconoscere che si è in uno stato di tragedia, e il cambiamento di stato, di condizione seguente.

(Senza dimenticare che la tragedia è una rappresentazione e che è possibile a volte cambiare stato prima di morire) se preferiamo, è un’occasione di cura per quell’ormai consolidata invalidità che è la perdita del senso del sacro, nei cui confronti realizzare che la propria zattera può legittimamente essere spazzata via in qualsiasi momento – e il relativo stupore di essere vivi – sono i primi segnali di guarigione.

L’alternativa è ciò a cui mentalmente, culturalmente e socialmente stiamo assistendo da anni ma che in questi mesi è entrato in fase acuta con una drastica accelerazione: un’umanità costretta a ripiegarsi sempre più su sé stessa, messa all’angolo di sempre più anguste pareti che non riesce nemmeno più a vedere. Agnizione.

Post scriptum

Nelle prossime settimane, o mesi, torneremo a dedicarci alla ‘continuazione dello yoga con altri mezzi‘, attraverso gli strumenti digitali (per chi può e per chi si trova a suo agio nel farlo), in quanto non sarà possibile farlo in forma fisica ‘in presenza’.

Altro discorso sono le difficoltà di cui ci si dovrà fare carico (e pensiamo a tutte le strutture e le attività che dovranno chiudere, oltre a chi si ammalerà, e a chi avrà danni alla salute per mancanza di cure – non ultima la mancanza di attività fisica adeguata – o per le conseguenze psicologiche dell’isolamento).

Questo non è un invito ad accettare (non c’è niente da accettare) o a subire la situazione esistente, rinunciando ad agire: è anzi la premessa indispensabile a qualsiasi azione.

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Cosa significa ‘fare un passo oltre’ nello yoga?

12 Ottobre 2020 Francesco Vignotto

La vostra benedizione è conoscere
che pure il desiderio del paradiso è servile.
Il gioco è divino perché non c’è nessuna promessa
o speranza di guadagno. (…)
La vostra libertà è conoscere
che ogni méta di vittoria, ogni aspettazione di applauso
è servile.
La vostra bellezza non si vergogna degli abbasso né degli sputi. Altro, altro è il suo pudore.
E la vostra grazia senza paragone, ultima,
è che la vostra bellezza
NON VI RIGUARDA

Elsa Morante, Il mondo salvato dai ragazzini

Una partecipante al seminario Yogāsana dedicato alla postura seduta ci ha inoltrato una domanda molto interessante che, oltre a meritare una risposta in privata sede, offre lo spunto per una riflessione generale per le implicazioni che contiene. La domanda era in sintesi questa: “Ha senso che io perseveri nel praticare la posizione del loto sebbene persista uno stato di tensione molto forte? Devo fare un passo oltre il mio disagio, come spesso mi è stato detto, e mantenerla?” Nello specifico, la persona indicava due passate patologie articolari, la cui memoria potrebbe ragionevolmente influire sul disagio sperimentato in padmāsana e alimentare giustificati timori che la posizione possa esserle dannosa. 

Il primo livello della risposta è riferito proprio al tema del seminario, ovvero, trovare la posizione seduta nel senso probabilmente etimologico della parola āsana, ovvero un “seggio” in cui il corpo possa essere sufficientemente “stabile e comodo” per la pratica prolungata del prāṇāyāma e della meditazione. A questo livello, sebbene ogni āsana seduto abbia delle sue specificità, vale, a nostro parere, il principio del good enough: se la posizione mi permette di avere la colonna vertebrale eretta senza eccessivo sforzo ed è sostenibile per un periodo prolungato, non c’è ragione perché io scelga un opzione più difficile che invece mi impedirebbe di dedicarmi all’ascolto del respiro e della mente.

Da un punto di vista invece prettamente posturale (e siamo al secondo livello, non necessariamente subordinato al primo), ogni āsana, esplorando la mobilità del corpo e portando alla luce limitazioni altrimenti implicite, è un laboratorio che crea le condizioni, tra le altre cose, per una buona e prolungata postura seduta. Del resto, la differenza nel ‘come’ si sta – fisicamente e mentalmente – nella posizione seduta all’inizio e alla fine di una sessione è una buona cartina tornasole della bontà del lavoro svolto.

Buddha seduto nel loto, periodo Edo, XVIII secolo. Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone, Genova.

Per cui ben vengano anche posizioni che possono sollevare difficoltà, ma bisogna affrontarle cum grano salis e con la consapevolezza che la meta finale (la posizione compiuta) è solo un catalizzatore, una direzione inizialmente necessaria, di cui occorrerà disfarsi a un certo punto, e non è detto che il momento dello scarto coinciderà con la sua realizzazione fisica.

Un giorno, forse nemmeno tanto lontano, ci potremmo accorgere sedendoci che non abbiamo bisogno di altro; allora saremo liberi di restare, oppure di vivere la pratica dei diversi āsana non più come un tentativo di rimediare a qualcosa che non va, ma come un gioco: senza scopo.

E qui occorre discernere tra la vita reale e gli how to di Instagram (if you want this… you have to do this…), dove sembra che chiunque possa fare qualsiasi posizione a patto che sia disposto a rovinarsi le articolazioni contro i muri, e dove prevale la motivazione alla conquista invece che l’aspirazione alla comprensione: nel primo caso, il corpo interessa solo nella misura in cui posso soggiogarlo strumentalmente, nel secondo il corpo è un territorio tutto da scoprire.

Nello specifico, il loto può essere alla portata di molti ma non di tutti: l’età, la conformazione e lo stato di salute di articolare – solo per citare i principali fattori – dovrebbero indurre a una valutazione dell’opportunità di praticarlo, perlomeno nella forma completa. E anche tra coloro che riusciranno a praticarlo, non tutti saranno in grado di farne un āsana stabile e comodo per la pratica meditativa.

Queste eventualità però non sono in alcun modo da intendere come menomazioni fisiche, né tantomeno come limitazioni delle possibilità nello yoga (equazione spesso inconsciamente tramandata tra generazioni di praticanti). E qui dovremmo considerare che anche coloro che sono abili in āsana molto complessi e spettacolari hanno spesso una ‘bestia nera’ (a volte catalogabile come posizione di livello base) che rimarrà per sempre fuori dalla loro portata. La domanda, insomma, non è tanto come fare con il mio corpo che si nega al loto, bensì: che cosa possono dirmi padmāsana e i percorsi che costeggiano padmāsana?

Anche se il loto non è fra le nostre possibilità, in effetti, possiamo comunque ‘lavorarci attorno’ esplorando e migliorando la mobilità del bacino in relazione alle nostre gambe e alla colonna, attraverso posizioni parziali e collaterali. Ma non deve mai essere trascurato il lavoro globale (in cui non mancherà mai il respiro e l’attenzione al rilassamento) anche su aree e aspetti apparentemente irrelati. Non sta tanto allo yoga decodificare le interrelazioni corporee, quanto degrammaticalizzarle: una palpebra che casualmente si rilassa potrebbe veramente produrre una rivoluzione silenziosa nel cingolo pelvico ben più che tanti esercizi mirati (l’esempio è puramente casuale).

E proprio qui veniamo al terzo livello della risposta, che sintetizza gli altri due, ovvero il fare un passo oltre la propria condizione di disagio, di cui occorre mettere in questione il senso, ossia, appunto, la direzione. Perché, per fare un passo oltre, bisogna esser consapevoli che non sappiamo realmente dove, in quell’esatto momento, stia l’oltre, e non necessariamente lo troveremo nella stessa direzione di ieri.

Il limite della tecnica è che c’è sempre qualcuno che fa qualcosa, e fatta quella posizione ne farà un’altra e un’altra ancora, senza alcuna soluzione di continuità; per quanto sia una fase necessaria, occorre appunto fare un passo oltre e cogliere l’occasione per mettere in discussione il rapporto soggetto-oggetto.

Rimanere in una posizione nonostante vi siano impulsi centrifughi che ostacolano un adattamento può essere una scelta molto nobile oppure molto ottusa, a seconda delle circostanze e delle attitudini di ognuno. È una scelta di disponibilità quando, nonostante le prime impressioni, si sceglie di stare a osservare l’evolversi della situazione: in questo caso già il presunto soggetto cede sulla propria presunta centralità; è espressione egoica di ottusità, invece, quando esprime un rapporto meramente strumentale nei confronti del proprio corpo.

Ancora più irragionevole è la convinzione – assai diffusa nel recente passato – che perseverando nonostante nel tempo non vi siano segni di allentamento, apparirà all’improvviso una luce in fondo al tunnel.

La mia personale esperienza mi dice che dal resistere resistere resistere deve maturare un atteggiamento diverso (e ho sotto gli occhi quasi ogni giorno tensioni affrontate a muso duro a fine pratica tornano esattamente come prima), ossia ammettere che il vero problema è nei presupposti e il vero passo avanti a volte è retrocedere alla ricerca del punto di origine di quella tensione. (Che quel punto di origine si smarrirà nel nulla, e la tensione si troverà a non avere più alcun appoggio, come una radice nell’aria, è e non è un altro discorso).

Ramana Maharshi

Spesso non si tratta di una rinuncia alla posizione, ma di una revisione di come (e a volte perché) la si prende e – siccome molto spesso l’origine è ben anteriore – del terreno su cui vorremmo praticare acrobazie: è la pratica dell’āsana che porta al rilassamento o è il rilassamento necessario alla presa della postura? Come spesso accade, una buona domanda aperta vale più di una risposta definitiva.

Occorre dirlo: a nessuno sono preclusi i fiori della pratica perché non è riuscito a stare sulla testa o nello scorpione, o del loto. Certo, provarci ha un senso, però insistere oltre ogni ragionevolezza nel voler conquistare una postura esteriore è spesso un modo per reprimere lo sbocciare di quello che la posizione poteva dirci.

E siccome lo yoga – lo ripetiamo – non sta nella meta della posizione compiuta, ma in ogni fase del processo intero, anche la ‘preparazione’ stessa, o una forma parziale della posizione, potrebbe essere la miccia per quello slittamento di coscienza (ricordiamoci: chi vorrebbe fare cosa?) che nella posizione ‘dura e pura’ sarebbe impedito dall’eccesso di sforzo.

La vera domanda, alla fine, è: ci interessa lo yoga oppure il guscio entro cui ci è stato servito?

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Sebbene illuminato, apparir come scemo: è questo il segreto essenziale

29 Agosto 2020 Francesco Vignotto


Mi è capitato per caso di incontrare la sentenza che appare come titolo a questo articolo, mentre leggevo una vecchia traduzione del Tao Te Ching (Daodejing) attribuito al ritroso Lao Tsu (la leggenda narra che lo compose perché vi fu costretto, per pagare pegno a un doganiere).

La sentenza è contenuta nel capitolo 27, intitolato ch’iao yung (letteralmente “(della) furbizia (l’)uso” o anche “L’uso dell’abilità”) e la traduzione è quella, meravigliosa per la sua lingua ‘alta’ eppure a tratti estremamente diretta, del sinologo Alberto Castellani, risalente al 1927. È in assoluto la prima versione in italiano dell’opera e proprio in questo capitolo differisce in maniera sostanziale da tutte le altre traduzioni da me consultate.

Il nostro Castellani ammette la licenza giustificandola con una maggiore fedeltà alla prospettiva taoista nel suo complesso, interpretazione che come vedremo ha qualche freccia al proprio arco, anche se non ho competenze per stabilire quanto sia plausibile sul piano filologico. Tuttavia, è abbastanza affascinante da meritare una lettura. Entriamo dunque nel testo.

La prima parte del capitolo, in realtà, non si discosta dalle traduzioni canoniche:

Un buon camminator non lascia impronte
buon parlatore non offende alcuno
buon contator non bisogna di macchine da conti
buon serrator non adopra né sbarre né contrafforti
eppure è impossibile aprire
buon legator non adopra né corde né nodi
eppure è impossibile sciorre

“Esiste nel mondo un’azione invisibile che ha spesso più valore di quella visibilmente professata” commenta Castellani. Ed è l’azione – o meglio la non-azione – di chi si muove in armonia con il Tao. A differenza di altri, il nostro traduttore legge l’intero capitolo – dato che ci servirà anche in seguito – in chiave polemica con la dottrina di Confucio (di cui Castellani stesso tradusse i Dialoghi), il quale assieme a Lao Tsu (semmai quest’ultimo sia realmente esistito) visse in tempi di decadenza politica e sociale, e come Lao Tsu si appellava alla saggezza degli antichi.

Ma se Lao Tsu guardava ai regnanti dell’epoca d’oro, era per risalirne all’estrema essenza che può prescindere da qualunque orpello (il progressus ad originem che coincide con il regressus ad futurum, come rappresenterà con meraviglioso umorismo Bohumil Hrabal in Una solitudine troppo rumorosa); Confucio, dal canto suo, cercava di ritornare all’antica perfezione attraverso l’ortodossia formale e l’azione esteriore.

Questa premessa ci serve per comprendere meglio i passaggi successivi del nostro capitolo 27, dove il nostro traduttore esce decisamente dal coro. Diverse traduzioni, infatti, descrivono qui il saggio intento ‘attivamente a salvare il mondo’ senza mai respingere alcuno che chieda il suo aiuto; l'”uomo non buono” è anzi materiale di formazione per l’uomo buono, e il capitolo si conclude, un po’ catechisticamente, con l’invito a onorare il proprio maestro.

Ebbene, forse è proprio per lo stridore con il Lao Tsŭ, maestro dell’arretrare e del non-agire, che emerge dal resto del Tao Te Ching – oltre che dall’incipit del capitolo stesso – che trovo affascinante la versione eterodossa del Castellani, il quale interpreta sarcasticamente i versi successivi come una disamina del saggio Confuciano, condannato a rincorrere gli eventi e le persone (e per questo a dipendere da essi), nel tentativo di plasmare il mondo, che altrove (cap. 29) Lao Tsŭ descrive come un recipiente sacro, un meccanismo delicato che non si può cambiare, pena guastarlo:

indi il saggio che sempre trova bello salvare gli umani
per ciò non respinge gli umani
che sempre trova bello salvare le cose
per ciò non respinge le cose
ciò si chiama offuscare la luce

E ancora:

per questo l’uomo bono
non trova bello il farsi maestro degli altri
ma l’uomo non bono
trova ch’è bello il materiale degli altri
non dare prezzo d’essere il loro maestro
non amare di perderli come materiale

Chi si muove in armonia con il Tao è spesso descritto (cap. 66 ma anche 8) come il fiume che domina la valle proprio perché dimora nei luoghi più bassi che gli altri uomini aborrono (ma attenzione: domina proprio perché non possiede una persona (cap. 13)), come colui che governa senza che i governati ne avvertano la mano, tanto che può esclamare (cap 57): “Io non faccio eppur la gente da se stessa si trasforma/io sto calmo eppur la gente da se stessa si corregge”.

E dunque è proprio così che la sentenza finale del nostro capitolo 27 cade come una ghigliottina, non come un invito a tenere per sé segreti che potrebbero far perdere la propria posizione di vantaggio, ma indicando forse l’unica via per essere davvero utili a sé stessi e a questo mondo:

sebbene illuminato apparir come scemo
è questo il segreto essenziale

Ogni riferimento e ogni spunto di riflessione relativi all’oggi, è caldamente raccomandato a chi ha orecchie per intendere.


RIFERIMENTI

Lao Tse, La regola celeste, a cura di Alberto Castellani, Firenze, Sansoni Editore, 1990, ristampa anastatica della prima edizione del 1927. (Nota: nel testo di questo articolo abbiamo mantenuto la lettura Lao Tsŭ (trascrizione Wade), utilizzata nel volume di Castellani, nonostante in copertina l’editore abbia preferito la lettura Lao Tse).

Sui rapporti tra Confucianesimo, Taoismo e Buddhismo, le tre tradizioni che convissero nella Cina classica, aveva già scritto a suo tempo Marco Invernizzi, in un articolo intitolato proprio Il mondo è un recipiente sacro e non si può governare, ma anche sì.

Bohumil Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa, Torino, Einaudi.

POST SCRIPTUM

L’immagine di copertina non è Albert Einstein, bensì John Malkovich.

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