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Intro: la famosa invasione degli orsi in Trentino
Mi trovo in Trentino mentre scrivo e rivedo questo articolo. È impossibile non notare i cartelli che avvertono della presenza degli orsi e il giornale locale cavalca la paura. In paese dicono che in pochi anni la popolazione è triplicata e c’è chi li ha avvistati addirittura nelle vicinanze della Coop. Come sappiamo dalle cronache, un uomo è stato ucciso, qualcun altro “è stato graffiato”, per usare le parole di un anziano villeggiante, un simpatico ex impresario di pompe funebri ormai quasi cieco.
Nessuno nel 2023 si sognerebbe di affermare che gli orsi sono creature malvagie, ‘belve feroci’ come si sarebbe detto un tempo: se ‘graffiano’ o uccidono, reagiscono perché colti di sorpresa, o perché l’essere umano li provoca per paura o temerarietà. Paura, forse proprio perché l’orso risponde senza rimorsi alla sua natura, non temperata dalle convenzioni con cui imbellettiamo e ridirezioniamo, a volte ipocritamente, la nostra.
Sull’altro piatto della bilancia ci sono le condizioni anomale in cui la popolazione degli orsi, come quella di numerose altre specie selvatiche, è proliferata e soprattutto si è trovata sempre più in contatto con quella umana: due mondi che idealmente dovrebbero scorrere paralleli, e proprio per questo, quando l’incontro avviene, le conseguenze sono imprevedibili.
Come i nostri umori più oscuri, che crediamo confinati in qualche remota riserva, tutti speriamo di non incontrare l’orso; anche perché, per quanto ci possano preparare con istruzioni efficaci – allontanarsi lentamente senza correre, mantenere un atteggiamento passivo se aggrediti – quelle istruzioni sono quasi sempre negative, ed astenersi da una reazione è molto più difficile che fare qualcosa, anche se stupido e controproducente, come cercare di spaventarlo o di reagire, oppure – anche questo è tra l’elenco di cose da non fare – di avvicinarsi per filmarlo o fotografarlo.
(Al tempo stesso però tutti segretamente, io compreso lo confesso, coviamo il desiderio di incontrarlo. Il fatto è che non sappiamo perché, o stentiamo ad ammetterlo. Non si tratta di semplice curiosità, né fascinazione per il pericolo: c’è qualcosa nell’orso senza il quale siamo incompleti.)
La realtà è che noi non sappiamo realmente cosa faremo quando ci troveremo davanti l’orso. Ed è meglio non inorgoglirsi troppo se l’esito dell’incontro si dimostrasse per noi favorevole od onorevole: perché probabilmente non abbiamo ancora incontrato l’orso giusto.
Ma allora esistono le emozioni negative?
Prima di suscitare comprensibili reazioni: certo che esistono le emozioni negative, se ci riferiamo a quelle emozioni che provocano sofferenza. Una sofferenza a volte latente e a bassa intensità, che si propaga ben oltre la durata effettiva dell’emozione in sé. Più complesso è il discorso se con l’espressione emozioni negative intendiamo emozioni che, almeno idealmente, non bisognerebbe o sarebbe meglio non provare o esprimere , ma in questo caso subentrano fattori sociali, oltre che psicologici e a volte sanitari che non è qui luogo per trattare.
La definizione è ancora più problematica se frequentiamo le pratiche contemplative, perché provare o manifestare emozioni considerate negative può addirittura essere vissuto come un fallimento o essere oggetto di riprova sociale. Insomma, se faccio yoga da così tanto tempo, perché perdo ancora la pazienza con il mio partner? Perché grido contro il cane? Se medito ogni giorno venti minuti, perché provo in me invidia per il mio vicino, vergogna o vanità per il mio aspetto fisico?
Qualche tempo fa, mentre stavo facendo stampare delle foto nel negozio di fronte al nostro centro, il fotografo mi disse: “L’altro giorno l’ho vista in bicicletta e una macchina le ha tagliato la strada. Ho detto: si vede che fa yoga, non ha nemmeno battuto ciglio”. Ecco, dissi fra me e me, dovevo avere la testa tra le nuvole quel giorno, perché non mi ricordo di nessuna macchina che abbia rischiato di investirmi: la mia reputazione è doppiamente salva.
È abbastanza diffusa, nei praticanti di yoga e meditazione e in chi siede attorno a loro, che queste pratiche si debbano svuotare di tutte le qualità fastidiose e inopportune, perché, nonostante si insegni il contrario, l’emozione ti qualifica, non è quasi mai privata. E di conseguenza, il manifestarsi di una di queste qualità è sintomo che qualcosa è andato storto, che ci siamo allontanati da noi stessi, perché tutto ciò che appartiene e porta allo spirito è per sua natura mondo e ‘positivo’ (avrei potuto benissimo scrivere invece un articolo sulle emozioni positive, di cui ci invitano a nutrirci, e che sono altrettanto problematiche: perché? Perché esistono anche quelle negative).
Ecco quindi che una stanza del Vijñānabhairava Tantra ci taglia la strada:
Se si rende la mente stabile nei vari stati di desiderio, rabbia, avidità, delusione, ebbrezza o invidia, allora rimarrà solo la Realtà sottostante a essi.
Vijñānabhairava Tantra, 1011Per questa stanza e per le seguenti ho tenuto come riferimento la versione e i commento di Swami Lakshman Joo, ultimo rappresentante della tradizione dello Shivaismo del Kashmir: Swami Lakshman Joo, Vijñāna Bhairava: The Practice Of Centering Awareness, Motilal Banarsidass, 2003
Di fronte a questa stanza si è tentati da due opposte reazioni: da un lato, di mettercela in tasca e tenerla pronta per il prossimo automobilista insolente; dall’altro, il completo scoramento davanti a una vetta affascinante ma fuori da qualsiasi portata. In realtà questa stanza è rilevante, prima ancora che per il suo ripido contenuto operativo (di cui parleremo più avanti), per il principio che enuncia.
Che è poi lo stesso principio a cui rispondono i 112 modi (questo è uno di essi) che il Vijñānabhairava Tantra elenca per esperirlo. Proviamo a definirlo dapprima in negativo, nonostante l’approccio di questo testo fondamentale sia di tenore opposto. Il principio è che malgrado le innumerevoli perturbazioni di cui possiamo fare esperienza, la Realtà fondamentale è una.
Altre correnti di pensiero dell’India tradizionale hanno espresso la medesima idea, ma mentre questa asserzione è servita altrove per svalutare l’esperienza soggettiva, predicando il distacco dagli stati mentali perché impermanenti e quindi irreali, qui il punto di vista viene capovolto: proprio attraverso questi stati, che di norma sono subiti inconsapevolmente provocando offuscamento e distrazione, possiamo invece, attraverso l’attenzione focalizzata, riconoscere quella Realtà.
L’errore fondamentale non è tanto l’illusione che le perturbazioni sulla superficie siano reali, perché fino a un certo punto lo sono: i fortunali, come la rabbia, la paura, il dolore, per quanto passeggeri, possono uccidere e ucciderci; persino la gioia, l’amore, la felicità possono farci scoppiare il cuore, oltre a smuovere montagne. L’errore fondamentale è credere che questi stati siano diversi e separati dalla Realtà sottostante. Disconoscerli come espressione della loro fonte: questo è l’errore, perché nulla può manifestarsi al di fuori della luce della Coscienza. Ed è proprio questo errore a renderli ingovernabili.
Ecco quindi, tornando alla nostra stanza che contiene una pratica (ci stiamo arrivando), un messaggio importante: anche nelle emozioni estreme e ‘negative’ c’è un nucleo di pace. Anche in quella “goffa bruttura indescrivibile”, sotto la cui veste la sofferenza si presenta spesso, nulla è perduto, ed è bene ripeterselo proprio quando tutto sembra dire il contrario. Verrà un momento in cui non ci sarà più bisogno del richiamo, sostituito dall’immediatezza: non ci siamo allontanati di un millimetro dal nucleo.
Sembra anzi, suggerisce la stanza 101, che più antitetico sia l'(apparente) intervallo tra il turbamento della superficie e la quiete sottostante, più sia rapida la possibilità di tornare all’origine. Ma fermiamoci ancora un attimo.
Ho conosciuto poche persone, forse nessuno (me compreso), il cui sismografo emotivo si sia stabilizzato su uno spettro accettabile per sé e per gli altri per il solo fatto di essersi seduta a meditare per anni, o aver passato un periodo considerevole ad allungare i propri muscoli e a disciplinare il proprio respiro.
Ma come, si dirà, lo yoga e la meditazione non aiutano proprio a stabilizzare l’emotivo? Eppure, quante imbarazzanti esplosioni qualche istante dopo aver toccato la pace sul tappetino perché una singola parola l’ha messa a repentaglio, o appena usciti da una sala pratica mondati da qualsiasi negatività, al termine di tre giorni di digiuno, di un ritiro di Vipassana…
Il fatto è che più si sperimenta la pace nelle pratiche contemplative, più si incapperà nel suo contrario, almeno finché non si mette la firma su quanto sopra, ovvero che la tranquillità provata nei momenti di grazia ci avvicina solo per analogia alla vera pace, che quella pace fondamentale occorre imparare a riconoscerla persino nei momenti in cui siamo radiati dalla grazia divina.
Ritornano in mente le parole del controverso Yoga di Emmanuel Carrère:
È possibile meditare quando senti un groppo d’ansia sotto il plesso solare, hai nei polmoni due pacchetti di sigarette fumati smaniosamente ogni giorno e la coscienza attraversata da un flusso ininterrotto di pensieri tossici: rimpianto, rimorsi, rancore, ansia da abbandono? Quando non trovi rifugio da nessuna parte e sei in balìa di quel che di peggio c’è dentro di te?
Il libro parlava di tutt’altro, le domande erano altre, il caso era clinico. Ma la risposta a questo interrogativo potrebbe essere: è proprio per digerire anche questo che siamo qui? E che finché ci saranno condizioni propizie e condizioni non propizie saremo condannati all’eterno rimbalzo tra gli opposti, a essere miseri visconti dimezzati?
Cogliere l’emozione al balzo
Torniamo infine alla pratica descritta nella stanza 101 del Vijñānabhairava Tantra:
Se si rende la mente stabile nei vari stati di desiderio, rabbia, avidità, delusione, ebbrezza o invidia, allora rimarrà solo la Realtà sottostante a essi.
Questo metodo di concentrazione è ascrivibile al mezzo divino, che secondo la tripartizione dello Shivaismo del Kashmir (formulata posteriormente al Vijñānabhairava) è il mezzo di realizzazione di natura più elevata. Il mezzo divino è infatti trascendente: se si coglie lo slancio di una forte emozione, qui si dice, è possibile convertirlo in concentrazione, andando direttamente al cuore dell’essere, alla Realtà sottostante, perché ogni manifestazione di energia, se non interferita, torna alla sua origine con tanta determinazione quanto è la sua intensità.
C’è però un ma: ci vuole sangue freddo, ovvero non dev’esserci niente di personale, lo slancio dev’essere colto prima che intervenga qualsiasi ponderazione, ovvero prima che il senso dell’io si appropri dell’emozione. Per questo, c’è una finestra temporale estremamente breve per mettere in atto questa pratica. Se l’emozione non viene colta immediatamente, nel suo insorgere, non è più possibile convertirla nella concentrazione assoluta descritta nella stanza, perché non è più puro slancio senza crepe, ma è la rabbia di qualcuno verso qualcosa, è frammentazione.
Un esempio. Chiunque, vivendo nel mondo odierno e in questa porzione di pianeta, ha delle attività a orari prefissati ogni giorno. È quindi del tutto plausibile che decidiamo di meditare a una data ora (dicono di meditare sempre alla stessa ora, come i pasti e il sonno) e proprio un attimo prima riceviamo una brutta notizia, abbiamo una discussione, o scopriamo che qualcosa è andato diversamente da quello che ci aspettavamo.
È possibile che questo condizioni la qualità della pratica, ma è anche possibile, se prima di incorrere in alcuna considerazione si chiudono gli occhi con la stessa istintiva percezione di sé con cui ci si tuffa a corpo morto, senza trattenere nulla, è possibile, dicevo, che questa spinta indesiderata, questa cosiddetta emozione negativa ci scaraventi molto più in profondità di quanto non ci sia dato conoscere con tanti bei sentimenti e passi ordinati.
Certo, se nel frattempo abbiamo cominciato a commentare, a controbattere, se abbiamo cominciato a stilare la memoria difensiva e a pianificare vendette, il treno è già passato, addio stanza 101.
Nelle crepe dell’emozione
Attenzione però: se la pratica appena descritta non è più possibile, non è detto che abbiamo perso il treno per conoscere la Realtà sottostante, che nessuna meditazione, nessuno yoga sia più possibile: sarebbe come dire, nell’ottica del Vijñānabhairava, che la facoltà di bruciare è distinta dal fuoco.
La pratica della stanza 101, dicevamo, appartiene al mezzo divino, ovvero il mezzo più elevato secondo lo Shivaismo del Kashmir, che ne contempla però altri due. Questa tripartizione ha il vantaggio e lo scopo di riconoscere a ogni mezzo la relativa dignità e il relativo contesto: se fallisco in un approccio, ne avrò almeno altri due con cui tentare.
Nella fattispecie, potrò tentare una via sicuramente più familiare, ovvero il mezzo individuale: faccio qualcosa, applico una tecnica. Questo mezzo è considerato tra i tre inferiore perché c’è qualcuno che fa qualcosa, ovvero rinforza la contrapposizione tra soggetto e oggetto. Ma travolti dallo tsunami di un’emozione estrema, praticare una forma di controllo del respiro o forzare il corpo scosso a entrare in un asana è in fondo come cercare di rispondere all’assalto di un orso: per quante glie ne riusciremo a dare, saranno pur sempre molte meno di quante ne prenderemo.
È per questo che, almeno all’interno di questo quadro di riferimento, per far fronte a una violenta emozione, il mezzo mediano è forse l’unico praticabile per evitare il complicato labirinto di purificazione ed espiazione degli effetti dell’emozione stessa.
Se il mezzo superiore trascende l’emozione mentre quello inferiore si pone sul suo stesso piano, il mezzo mediano, o potenziato, è al tempo stesso trascendente e immanente. Ciò significa che nel mezzo potenziato rimaniamo nel flusso organico delle percezioni, focalizzando l’attenzione non negli stati affettivi in sé ma nello spazio tra uno stato affettivo e l’altro.
I modi sono molteplici, ma ad esempio possiamo farlo concentrandoci negli spazi tra le fasi del respiro (come nella stanza 25). È a mio parere accostabile al mezzo potenziato anche la pratica dei movimenti invisibili, tipica alla riformulazione moderna del cosiddetto ‘Yoga del Kashmir’: mentre sono in una posizione, evoco la sensazione (non penso al movimento, lo eseguo con la sensibilità) dei movimenti per entrare in un’altra posizione, come alzare un braccio, muovere le gambe o ruotare la colonna, ascoltando il corpo in carne ed ossa che rimane immobile ma non esente da reazione. Anche in questo caso, trovo una centratura tra la posizione attuale e la posizione evocata, sono nel flusso delle percezioni ma centrato nello stato intermedio.
E in definitiva, come suggerisce la stanza 103:
La mente non dovrebbe essere assorbita né dalla sofferenza né dal piacere. Dovresti conoscere lo stato intermedio (tra entrambi) – allora rimane solo la Realtà.
Vijñānabhairava Tantra, 103
Questo tipo di pratica è del tutto interiore e non immune da difficoltà (bisogna trovare l’interstizio, e a volte è un’operazione che richiede una creatività molto sottile), ma ha il potere di armonizzare le pulsazioni particolari dell’emozione con un ritmo più profondo, ampio e anteriore.
Che è forse anche la risoluzione di ciò che chiamiamo emozioni negative: una frattura apparentemente insanabile, una dissonanza imperdonabile che trova infine il proprio posto (non è forse quello che reclamava?) nell’ambito di un’armonia più generale.
Post scriptum
Durante il ciclo di seminari Yogasana che si terrà tra settembre e novembre, Gioia Lussana parlerà, molto meglio e molto più precisamente di me, del mezzo potenziato sia da un punto di vista filosofico che pratico.
Post post scriptum: come combattere un orso a mani nude
Note
↑1 | Per questa stanza e per le seguenti ho tenuto come riferimento la versione e i commento di Swami Lakshman Joo, ultimo rappresentante della tradizione dello Shivaismo del Kashmir: Swami Lakshman Joo, Vijñāna Bhairava: The Practice Of Centering Awareness, Motilal Banarsidass, 2003 |
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