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Zénon | Yoga e Qi Gong

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Sensi soprannaturali: conversazione con Gioia Lussana sullo Yoga della bellezza

7 Gennaio 2022 Francesco Vignotto

foto di Gioia Lussana

Il sé è un danzatore
Il sé interiore è la scena
I sensi sono gli spettatori

Vasugupta, Gli Aforismi di Śiva

Lo yoga della bellezza di Gioia Lussana è uno dei testi più interessanti e originali degli ultimi anni sullo yoga. Il tema di fondo si sviluppa intorno a una intuizione del tantrismo del Kaśmīr medievale ancora poco esplorata, secondo cui lo stupore meravigliato di fronte all’opera d’arte è esperienza del sacro; sacro che attraverso questa breccia può essere colto in ogni aspetto della vita ordinaria.

Gioia Lussana è laureata cum laude in Indologia con Raniero Gnoli e Raffaele Torella ed è dottore di ricerca in Civiltà e Culture dell’Asia presso l’Università Sapienza di Roma. Il rigore con cui affronta le fonti non le impedisce il confronto, da un lato, con la tradizione filosofica e poetica occidentale e, dall’altro, con la sua esperienza di praticante e di insegnante di yoga, contribuendo a espandere gli orizzonti di ciò che intendiamo oggi con questo nome.

Anche per questo, era abbastanza inevitabile parlare direttamente con lei del suo ultimo libro.

Gioia Lussana

Due cose colpiscono subito l’occhio riguardo a Lo yoga della bellezza. La prima è il sottotitolo: “Spunti per una riformulazione contemporanea dello yoga del Kaśmīr”. La seconda è la doppia prefazione: di Raffaele Torella, ovvero uno dei più importanti esperti a livello internazionale di Tantrismo indiano; e di Eric Barét, riformulatore moderno dell’approccio del Kaśmīr come prima di lui Jean Klein (un ulteriore elemento di sorpresa, ma bisogna avere letto il libro, è il tuo contatto diretto con una forma di Haṭha-yoga tradizionale del Kaśmīr).
Per il senso comune, qualcosa che si richiama a una tradizione o vi aderisce letteralmente oppure suona un po’ sospetto; d’altro canto, le riletture contemporanee hanno sempre suscitato qualche alzata di sopracciglia tra gli studiosi. Qui, invece, sembra di trovarsi di fronte a un particolare caso di superamento degli opposti, e allora ti chiedo: cosa intendi con il termine riformulazione? E come può essere possibile riformulare una tradizione di cui, come spieghi, ci mancano ormai molti elementi operativi? Ma soprattutto: se una tradizione può (deve?) essere riformulata, che cosa intendiamo con la parola tradizione?

Ᾱgama, tradizione, in sanscrito è letteralmente un ‘flusso ininterrotto’. Ᾱgama è anche il nome dei testi tantrici śivaiti rivelatori di una visione rivoluzionaria del sacro. Voler dare nuova linfa a una fiorente e antica tradizione è rimanere nell’alveo del suo torrente e continuare a scorrere in esso. Si potrebbe dire mantenendo il ricordo della sorgente, ma attraversando nuovi paesaggi.

Come accenno nel mio libro, già all’inizio del secolo scorso, quando nacque in Kaśmīr Lakshmanjoo, considerato l’ultimo depositario per trasmissione diretta del lignaggio dei maestri medievali, si era persa la decodifica delle pratiche, spesso altamente esoteriche, descritte da Abhinavagupta nelle sue opere. Si potrebbe in ogni caso affermare che lo yoga del Kaśmīr non è uno yoga preminentemente ‘tecnico’, ma incentrato su un messaggio profondo. Ciò che era presentato per iscritto era già
nel X e XI secolo solo una traccia di ciò che veniva essenzialmente comunicato per
via orale da maestro a discepolo e costituiva la prassi vera e propria.

In virtù di ciò è tanto più lecito oggi tentare di riformulare, di interpretare in modo nuovo quel poco che risulta accessibile delle tecniche antiche, cercando soprattutto di non distaccarsi dalla trasmissione originaria – prettamente filosofica – che esse veicolavano attraverso il corpo. Una riformulazione moderna deve in qualche modo farsi carico dell’evoluzione di segno e di senso della visione filosofica originale, da trasporre in uno yoga non iniziatico e alla portata di un vasto pubblico. Uno yoga siffatto non è in ogni caso compatibile con le forme di gran parte dello yoga contemporaneo, classificabili come fenomeno di massa e con una valenza prettamente commerciale.

I maestri śivaiti non erano solo filosofi, retori e maestri di estetica, ma anche potenti yogin che sapevano incarnare creativamente la stupefacente visione filosofica che emerge dai testi. Si tratta oggi di riproporre in un linguaggio attuale il palpito vitale e la profondità concettuale che essi seppero trasfondere nel rito dello yoga.

Credo che riformulare oggi sia essenzialmente dare forma a uno yoga ‘generativo’, che non perda cioè la sua connotazione intuitiva, mai meccanica, sempre nuova, che scaturisce innanzitutto dal calore vitale e dal battito della vita in ognuno di noi, come da una fonte viva e nello stesso tempo cosciente. La tecnica non è che uno sviluppo ulteriore di questa percezione palpitante originaria.

Il modo di esprimersi dell’artista, del fruitore dell’arte e dello yogin prende le mosse da questo ‘bollore vibrante’ – la cifra della vita – e sgorga ispirato da pratibhā, l’intuizione dell’intima coerenza di ogni cosa, la bellezza di ‘ciò che è’.

Pratibhā, è quell’ingenium che ci fa presentire l’Assoluto. Ogni āsana, ogni gesto diviene allora il rito della bellezza e della sacralità dell’esistenza. L’arte dello yoga diviene in tal modo celebrazione della realtà in ogni sua manifestazione, che in quanto viva è allo stesso tempo auto-consapevole. Nei tantra śivaiti è rimarcata difatti la sorprendente omologia tra coscienza/sapienza e movimento della vita, che si riflettono nell’ordinario e nello straordinario con uguale splendore. Il rito dello yoga ha la funzione di intensificare ulteriormente tale ‘sapiente vividezza’.

Veniamo al tema centrale del libro, ovvero la stretta connessione tra l’esperienza estetica e l’esperienza religiosa. Per sgombrare il campo da equivoci naïf, il bello di cui parliamo non è per nulla ornamentale: si ha anzi l’impressione che la poesia (cito un altro termine-chiave) in questo caso abbia ben poco a che fare con l’evasione della realtà a cui il senso comune l’associa. Puoi parlarci di questo aspetto?
A ciò si collega un’altra domanda: da un approccio così radicalmente non-duale ci si aspetterebbe diffidenza nei confronti delle parole. Eppure nel tuo libro emerge la precisione chirurgica dei maestri del Kaśmīr nel descrivere ma soprattutto nell’evocare l’ineffabile, oltre a un tuo gusto particolare per l’etimologia anche nei confronti delle lingue europee. Evocare: in una riformulazione contemporanea, quanto è importante il linguaggio non solo per descrivere e istruire, ma per evocare una sensibilità straordinaria? Penso ad esempio a quando viene richiesto, nella riformulazione di Klein/Barét, di sentire il muro di fronte, o compiere un asana senza il corpo fisico. Anche qui abbiamo a che vedere con un uso poetico delle parole a tutti gli effetti creativo…

Nella concezione tradizionale la percezione della bellezza (rasāsvāda), investigata con estrema eleganza dai maestri kaśmīri e con suprema maestria in special modo da Abhinavagupta, si qualifica in sostanza come il vero laboratorio dell’esperienza religiosa o spirituale in senso lato: brahmāsvāda, connotata da un vivo assaporamento, intensificato rispetto alla fruizione ordinaria, che vede i nostri sensi spesso assopiti e resi opachi dalla routine. Le due esperienze, entrambe intensissime, scaturiscono dal terreno comune della vita ordinaria, che viene dissodata e resa fertile attraverso questi due vissuti straordinari in virtù di un risveglio che rende straordinario anche l’ordinario. La vita nella sua interezza e in tutte le sue forme acquista allora significato e sapore in quanto celebrazione gratuita, ‘generazione’, come accennavamo precedentemente, compiuta in se stessa. Il rito dello yoga, non confinato dunque a un ambito esclusivamente rituale, si qualifica come una estasiata espressione della vita in quanto tale.

Lo yoga del Kaśmīr, sia nella sua accezione tradizionale, sia nella sua riformulazione contemporanea, è fondamentalmente arte della contemplazione, in una parola bhāvanā, ‘attenzione generativa’, come potremmo tradurre questo termine complesso.

Nel Medioevo in Kaśmīr Bhaṭṭa Nāyaka considera bhāvanā come il ‘desiderio di espressione’ che genera la poesia, l’arte che si propone di alludere a ciò che per sua natura è indescrivibile: la bellezza, ovvero l’essenza della realtà. Lo yoga kaśmīro incarna la capacità creativa che il termine bhāvanā contiene in sé. È risvegliare la presenza consapevole, gustandola attraverso la contemplazione. Uno yoga ‘filosofico’ dunque e altamente ‘poetico’, in quanto si propone di evocare nientemeno che il sacro attraverso la postura, il gesto, l’immagine, il suono.

Per conservare la sua vitalità ispiratrice il linguaggio della pratica deve oggi a mio avviso accendere un significato, tradurre la filosofia in poesia e la poesia in āsana. Lo yoga si assume quindi il compito di suscitare l’intima natura del reale, esprimendo in modo rituale la sua sacralità naturale. Il suono e il gesto conservano in tal modo la loro matrice energetica, prima che discorsiva o intellettuale. Parole e immagini rese ‘corporee’, che non diminuiscono, anzi intensificano la verità delle cose.

Lakshmanjoo

I sensi e in particolar modo il tatto, o meglio la tattilità, altrove considerati una distrazione da cui ritirarsi, sono qui invece lo strumento principale di indagine. Anche in questo caso lo yoga del Kaśmīr sembra da un lato andare in controtendenza rispetto allo yoga classico (viene in mente la famosa critica di Abhinavagupta allo yoga di Patanjali, citato da Torella: “Ritirare i sensi dai loro oggetti porta a rafforzare il legame invece di allentarlo”1R Torella, “Abhinavagupta’s Attitude towards Yoga” in Journal of the American Oriental Society 139.3 (2019)); dall’altro siamo ben distanti anche dalle celebrazioni della positività del corpo-fatto-di-cibo che animano molto yoga contemporaneo. I sensi sembrano qui anzi già appartenere a territori che altrove sarebbero definiti soprannaturali. Puoi dirci qualcosa di più rispetto a questa particolarità?

Rasāsvada, la percezione estetica, è l’esperienza unitaria del sentire attraverso l’uso dispiegato dei sensi, o meglio quella qualità alla base di ogni specifica conoscenza sensoriale: l’assaporamento. Non riguarda semplicemente il senso del gusto, ma quella completezza che deriva dall’usare fino all’estremo uno qualunque di tutti i sensi. Rasa come gustazione denota in generale la primordiale presa di coscienza che tutti i sensi attivano. Sensi che nello śivaismo kaśmīro sono ‘le Dee, le signore dei sensi’ (karaṇeśvarī o svasaṃvid-devī), potenti divinità che risvegliano la capacità di comprendere, di conoscere ovvero di assaporare intensamente la realtà. Sapere è in primis ‘gustare’.

La cifra di questo yoga è sempre l’intensità, fiammante, nuova, per certi versi sempre un po’ spiazzante in quanto contemplazione smisurata e senza inibizioni di quello che c’è, senza omissioni né aggiunte. Questo, come dicevamo, è uno yoga contemplativo. Contemplare la bellezza, anche in ciò che ci spiazza, ci addolora o ci scuote dalle fondamenta.

Contrariamente alla visione del Pātañjala-yoga o yoga classico e di gran parte del pensiero filosofico indiano, dove emozioni, passioni e desideri vengono demonizzati o considerati pericolosi nemici, nel tantrismo non duale del Kaśmīr lo yogin, come l’artista o il fruitore dell’arte, è un rasika, un ragavan o un sahṛdaya ovvero una persona ‘sensibile’, appassionata, che partecipa ‘con tutti i sentimenti’ a ciò che gli è dato di vivere o sperimentare. Potremmo affermare che lo yogin del tantrismo non duale ‘sente esteticamente’, rifacendoci al significato del greco aisthánomai, che è un sentire, comprendere attraverso l’emozione e il sentimento. Lo stato di coscienza estetico è in qualche modo ‘estatico’ per il particolare tipo di gioia che produce nel soggetto, completamente indipendente da un’utilità personale.

L’intensità di un cuore attento e partecipe (heartful potremmo dire, prima che mindful), pur essendo spontanea, a volte richiede un allenamento per attivarsi e incrementarsi. Lavorare la mente-cuore rappresenta un livello specifico di yoga, forse il più diffuso nelle scuole non duali, interessate a dissodare la mente dai suoi impedimenti più che a potenziare la struttura muscolare del corpo. Il training della mente-cuore è in ogni caso un lavoro ‘tattile’, concreto, come impastare il pane o smuovere la terra per seminarla. Richiede la stessa cura, costanza, dedizione. Richiede non soltanto una mente pronta, ma anche un cuore vibrante e un corpo disponibile ad accogliere e custodire l’intensità. Ed è il calore vitale, come dicevamo, e l’emozione della vita in noi che si genera da questo calore, a creare la forma dell’āsana e a originare la dinamica del corpo nello spazio. Il movimento in queste scuole diventa radianza di luce e calore, in ultima analisi, gioia. Espansione del cuore, danza del cuore.

Inevitabile non notare quanto qui sia decentrato il ruolo della tecnica, al contrario di quanto avvenga nello yoga classico e in quello contemporaneo, dove sembrerebbe che il riconoscimento della propria reale natura – o, a essere più modesti, i vari benefici dello yoga – derivino dall’esecuzione di procedure definite e dalla loro ripetizione. Nello yoga del Kaśmīr i rapporti causali sembrano capovolti, o forse sarebbe meglio dire sconvolti da cause di forza maggiore: prima c’è il riconoscimento e poi la tecnica. Anche per le nostre menti contemporanee, dominate dalla tecnica (penso ad esempio all’attributo intelligente riferito a un algoritmo), può sembrare di trovarsi di fronte a un koan: com’è possibile anche solo chiedere di realizzare qualcosa senza realizzarlo?

Rāga, desiderio, anziché vairagya, distacco (letteralmente ‘scoloramento del rosso’ ovvero del desiderio) e kṣana, istante, anziché abhyāsa, ripetizione nel tempo, sono i pilastri dello yoga non duale rispetto al Pātañjala-yoga. Lo yoga del Kaśmīr valorizza lo slancio (udyama) anziché lo sforzo o la coazione a ripetere. Come spiego nel mio libro, quella dello yogin è un’azione vitale spontanea (akṛtaka) che nella pratica si traduce in presenza consapevole e partecipazione emotiva, espansività, la direzione privilegiata dello yoga non duale.

Abhinavagupta chiama camatkāra quel particolare assaporamento meravigliato e consapevole in cui il soggetto lascia sgorgare dall’interno il gesto yogico. Non si tratta di un appagamento per aver finalmente ottenuto un oggetto desiderato o aver raggiunto un obiettivo, ma una felicità del tutto diversa e autosufficiente, non dipendente dall’esterno, ma riconducibile all’intima sensazione di essere vivi, consapevoli dell’inesauribile desiderio della vita di esprimersi come da una fonte che zampilla e irrora tutto lo spazio del corpo e oltre il corpo. Tale attitudine interna è, come dicevamo, l’aspetto centrale di questo yoga, anziché la tecnica, relegata al livello di yoga più grossolano o minimale, ānava-upāya. Ma nella visione di Abhinavagupta anche uno yoga ‘meramente tecnico’ conduce in ultima analisi all’insight che ‘ognuno di noi è Śiva’…. Ognuno di noi è già perfetto così com’è. E ogni livello di yoga conduce naturalmente e imperiosamente a questa evidenza.

Lo slancio, la smisuratezza, il traboccare, il fuori scala sembrano essere cifre caratteristiche di questo yoga. Se ci fermassimo qui potremmo pensare a uno yoga di gesti eclatanti e di supersforzi. E invece, l’attenzione viene più spesso orientata alla sensibilità minuta, del momento liminale, dello spazio tra due cose/due esperienze, allo ‘stare per’ o al morire di un’esperienza. Anche qui sembra che venga chiesto l’impossibile: come si possono intraprendere due direzioni apparentemente divergenti, l’esuberanza e l’estremamente piccolo?

Il traboccamento (antarucchalana) del gesto e del cuore in uno slancio smisurato non contraddice in effetti l’attenzione minuta dello yogin verso ciò che è liminale, indefinito, evanescente.

La non contraddizione sta nel fatto che niente viene fatto ‘per se stessi’, ma in una modalità per così dire ‘generalizzata’ ovvero neutrale. Le stesse famigerate citta-vṛtti (modi della coscienza che comprendono cognizioni/emozioni) non portano a schiavitù se vissute ‘in modalità estetica’ ovvero lasciate libere di dispiegare la loro carica energetica prima che la mente razionale se ne appropri, asservendole ai propri bisogni. Esse diventano ostacoli quando il contenuto emotivo è al servizio dell’ego. Tale attitudine non appropriativa, comune peraltro a tutte le grandi tradizioni mistiche, purifica ogni desiderio dalla sua componente di avidità accaparratrice e trabocca come ‘desiderio aperto’, pronto ad accogliere e ad amare esattamente quello che c’è, così com’è, come ben sapevano e mettevano in pratica gli stoici nella nostra tradizione occidentale. Secondo questa visione non soltanto ciò che è sottile o liminale, ma anche ciò che è doloroso o negativo trova posto nella mente-cuore dello yogin, dove tutto senza esclusione ha la sua ragion d’essere.

Mark Dyczkowski, Daniel Odier, Christopher Wallis: cito tre nomi tra i tanti legati, in modo molto diverso tra loro, al tantrismo del Kaśmīr. Quali sono le affinità e le divergenze con l’approccio de Lo yoga della bellezza?

Tutti e tre gli autori che citi hanno contribuito in diversa misura alla diffusione e alla conoscenza della tradizione del Kaśmīr medievale. Non mi risulta però che nessuno di loro abbia particolarmente approfondito la produzione estetica dei maestri kaśmīri, riscoperta invece e valorizzata sulle orme di Raniero Gnoli da uno dei più insigni interpreti della tradizione manoscritta medievale, Raffaele Torella.

La traduzione dei testi di estetica medievali è in ogni caso un fenomeno relativamente recente, di cui Gnoli alla fine degli anni’50 fu uno dei primi al mondo ad interessarsi. Negli ultimi vent’anni stanno emergendo in traduzione delle vere e proprie perle di questa visione estetica, un filone estremamente promettente che getta una nuova luce interpretativa anche sul significato stesso di yoga in generale e dello yoga non duale in particolare. Qui la percezione della bellezza gioca il ruolo di vero e proprio laboratorio dell’esperienza religiosa in senso lato e yogica in senso specifico. Qui si può a ragion veduta concepire uno yoga ‘estetico’ che si contrappone a uno yoga ‘ascetico’ dominante in tutta la ben nota tradizione dello Haṭha-yoga.

Nel tuo libro non risparmi connessioni con il pensiero e la poesia occidentale, da Platone a Bachelard, da Leopardi a Weil e Candiani. Sembra di intravedere che, sebbene l’idea di una philosophia perennis non goda più di grande popolarità, sia tuttavia possibile almeno trovare un terreno comune di dialogo, che vi sia un referente comune, per quanto per sua natura ineffabile, che altri, altrove, hanno intuito con formulazioni diverse. Cosa ne pensi?

Già nel Vangelo di Giovanni – su cui si fonda tutta la tradizione mistica occidentale a seguire – il primato della vita in tutte le sue diverse accezioni è la matrice concreta della spiritualità nelle sue forme più elevate. È allora lecito riscoprire in contesti tra loro anche molto diversi, dalla poetica all’estetica fino alla prassi yogica o alla fenomenologia husserliana tratti di un filo comune che unisce il vasto campo delle esperienze umane. La percezione/emozione della nostra vitalità interna può essere considerato questo fil rouge.

Eric Barét

Nel tuo libro precedente, La dea che scorre, resoconto dei tuoi studi sul campo in Assam, accenni a un probabile contatto tra la tradizione tantrica indiana e quella taoista. In effetti, e non è solo una mia impressione, osservando la pratica e la gestualità di Eric Barét o di Nathalie Delay è difficile non notare un’affinità con il Qi Gong e con le arti marziali ‘interne’ (che del resto, mutatis mutandis, implicano un approccio intimamente tattile all’energia vitale), più che con le varie filiazioni dello Haṭha–yoga moderne e premoderne. Ho parlato di gestualità volutamente, in quanto sia in Barét che in Delay sembra quasi una forma di Qi Gong spontaneo. Cosa ne pensi?

Fin dalla prima volta che incontrai lo yoga di Eric Baret dodici anni fa, mi resi conto che si trattava di uno yoga per così dire ‘prāṇico’, che lavorava essenzialmente un corpo fatto di calore vitale, respiro e spazio, relegando a un costrutto mentale il corpo denso, muscolare, generalmente considerato protagonista dello yoga più diffuso. Lavorare la dimensione energetica in una percezione del corpo allargata a comprendere tutta la vastità in cui il corpo è inscritto è una peculiarità dello yoga del Kaśmīr contemporaneo e senz’altro presenta notevoli affinità con il Qi gong tradizionale cinese, che io stessa ho avuto la fortuna di praticare in prima persona con un maestro taoista.

In uno yoga siffatto l’āsana diventa una ‘forma senza forma’. Una forma che attraverso il silenzio e l’immobilità viva che la costituiscono, lascia che i suoi contorni scolorino fino ad abbracciare tutto lo spazio intorno. Scompare allora la percezione fisica della postura in cui si dimora e rimane soltanto ‘il soffio interno’, la calda e vibrante sensazione della vita in noi, che i kaśmīri chiamavano spanda e i taoisti Qi.

Vorrei concludere con tre suggestioni che mi hanno suscitato la lettura del tuo libro. La prima è di un poeta a me molto caro, Yves Bonnefoy: “Ciò che non ha pace è ancora la pace”.
La seconda è di un poeta a me ancora più caro, Milo De Angelis, che abbiamo intervistato qualche tempo fa proprio su questo sito: “L’infinito appare nel poco/come l’ultima nota di un grido/che si dilegua”.
L’ultima suggestione viene dall’ultimo capitolo de Gli imperdonabili di Cristina Campo, intitolato guarda caso “Sensi soprannaturali”. L’ambito sembrerebbe essere proprio distante, infatti si parla di una supplica del mistico greco medievale Simeone Metafraste, ma anche per questo la connessione spicca in modo bruciante: “È perfettamente apparente […] come l’acquisizione dei sensi soprannaturali importi l’oblazione dei naturali: questi gettati in quelli, accesi e consumati in quelli, come le resine preziose nella mischianza del santo crisma. […] Che si possa parlare qui di repressione o di sublimazione è degradante al solo ricordo, e persino una parola del tutto canonica, mortificazione, appare in qualche modo mortificante.”

Bellissime le tre suggestioni che riporti nella tua ultima domanda.
‘Ciò che non ha pace è ancora la pace’ mi ricorda una mattina in Kaśmīr, quando arrivai completamente fradicia alla piccola casa del maestro, in fondo al villaggio. Una tempesta di pioggia mi aveva sorpreso sulla strada fangosa e al mio arrivo venni scaldata e rifocillata con latte caldo. Quindi il maestro mi scrisse queste poche parole su un pezzo di carta: ‘Non c’è pace senza intensità’. In questa breve frase c’è una bella sintesi della visione non duale. La pace può essere assaporata in ogni cosa o situazione, anche in mezzo al freddo di una tempesta di pioggia, anche in mezzo alla ‘non pace’. La pace è intensità.

La quiete è sempre qualcosa di vivo, vibrante come un cuore che batte. In mezzo a quel battito si può dimorare, indisturbati, in āsana.

E allora l’infinito ‘appare nel poco….” per riprendere le parole di Milo De Angelis. In una forma circoscritta – l’āsana appunto – custodita in un corpo immobile, si può avere la percezione dell’immensità di ogni cosa, che si estende ben oltre il nostro limitato orizzonte ordinario.

E a proposito di ‘sensi sovrannaturali’, questa è proprio l’indicazione dello śivaismo kaśmīro. Lo yogin fermo in āsana, dopo aver assaporato pienamente la realtà con tutti i sensi dispiegati, accede a una conoscenza non più sensoriale o forse ‘ultra-sensoriale’. Arriva a intuire l’essenza luminosa e cosciente delle cose, la loro intima bellezza, gratuita e svincolata da giudizi, pregiudizi e conclusioni della mente intellettuale, senza dover più ricorrere ai sensi, ma sviluppando un presentimento, un sentore spirituale. Attraverso l’arte o il rito dello yoga si arriva a presentire, gustandolo, ciò che non è altrimenti conoscibile, poiché ben al di là del nostro campo esperienziale.


Piccola nota finale

Non potevamo ovviamente approfondire qui l’argomento per ragioni di spazio e di tempo, ma anche il precedente libro di Gioia Lussana merita di essere menzionato: La dea che scorre. La matrice femminile dello yoga tantrico, che come accennato più esplora sul campo l’antichissimo culto della dea Kāmākhyā in Assam, tutt’oggi vivo, da cui emergono elementi molto arcaici del fenomeno tantrico che possono contribuire ad allargare ulteriormente gli orizzonti sullo yoga stesso.

Note[+]

Note
↑1 R Torella, “Abhinavagupta’s Attitude towards Yoga” in Journal of the American Oriental Society 139.3 (2019)
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Il Coraggio di Distruggere

10 Novembre 2016 Marco Invernizzi


Può sembrare strano che in molte religioni, non solo orientali, il divino si presenti spesso in veste terrifica e distruttrice.

Di Dio siamo abituati a considerare l’aspetto creativo. A lui ci rivolgiamo per chiedergli di preservare ciò che esiste e con lui ce la prendiamo per i terremoti o se un bambino muore. Tuttavia, siamo riluttanti a prendere seriamente in considerazione il divino come forma radicale di libertà da ogni cristallizzazione, perché la libertà implica conseguenze non prevedibili e non negoziabili per l’esistente.

Questa riluttanza affligge a maggior ragione chi si considera su di un percorso cosiddetto “spirituale” o di “ricerca interiore”, termini che in realtà ci imprigionano in strutture mentali rassicuranti e ben più dure da intaccare di tante convinzioni dell’uomo comune.

Le scuole di Yoga e i centri olistici si trasformano troppo spesso in dormitori dove ci si reca con la propria copertina (in senso lato ma anche letterale) per schiacciare il pisolino e poi tornare a casa. Il fatto è che se realmente le pratiche che vi si svolgono fungessero a qualcosa, anche solo per l’eco lontana che ne portano, la copertina dovrebbe prendere fuoco e la casa crollare.

Prima o poi la vita provvede da sola, e spesso senza molti riguardi, a ripristinare il senso di realtà. Ma se vogliamo avere l’occasione di prendere atto di questa evidenza, allora è necessario avere molto coraggio.

Il Coraggio come Attitudine

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Coraggio: forza d’animo nel sopportare con serenità e rassegnazione dolori fisici o morali, nell’affrontare con decisione un pericolo, nel dire o fare cosa che importi rischio o sacrificio.

Dizionario Treccani

Non veniamo mai, se non in rarissimi casi, spronati a mostrare coraggio nella nostra vita né ad abituarci a considerarlo un requisito imprescindibile della nostra personalità. Il coraggio infatti rimane spesso una dote da mostrare in occasioni eccezionali, mentre come attitudine di vita può destare non pochi sospetti di sconsideratezza.

Invece, tutta una vasta gamma di altri sentimenti sono giudicati molto più politically correct e compatibili con la visione di vita “tranquilla”, intesa come assenza di perturbazioni e cambiamenti, che viene esaltata nella nostra società in ogni suo aspetto: pensare al futuro, essere previdenti, consolidare la propria posizione. Peccato che il futuro, così inteso, sia la condanna a vivere sotto l’anestesia del passato.

Ma perché bisogna essere per forza “tranquilli”? Cosa c’è di sbagliato nel provare ogni tanto un sentimento che ci porta a compiere delle azioni che normalmente non compiremmo? E quindi, da un punto di vista più profondo, a mettere in discussione aspetti della nostra vita che altrimenti, assonnati e anestetizzati come solitamente siamo, difficilmente decideremmo di mettere in discussione?

Penso che tutto parta da una mancaza di educazione al coraggio, che forse è più corretto definire “attitudine”  che sentimento. Penso inoltre che spesso il coraggio venga confuso con il compiere azioni esagerate e pericolose incuranti della paura che esse generano.

Un po’ come gli stunt man o i cultori di sport estremi che, per il gusto dell’adrenalina che esso genera, compiono le azioni più pericolose ed estreme, mettendo in luce la parte più spettacolare del coraggio, tralasciando tuttavia forse quella più profonda.

Ma il coraggio di cui stiamo parlando non si abbina necessariamente ad azioni mirabolanti o inconsulte. Il coraggio che intendiamo è la capacità di compiere un’azione, anche la più semplice e banale, nonostante la consapevolezza che la sua messa in atto provocherà in noi (e a volte non solo in noi) dei cambiamenti e delle sofferenze necessarie a sovvertire un determinato status quo.

E, cosa più importante, senza essere mai esattamente sicuri di tutte le conseguenze e possibilità che tali azioni determineranno, lasciando quindi un certo margine di indeterminazione su cosa verrà dopo.

courage

Non mi stupisce che non si pensi neanche lontanamente ad educare un bambino ad un simile modo di porsi nei confronti della vita. Se così fosse infatti difficilmente crescerebbe mansueto e controllabile e soprattutto una vita pre-impostata da efficiente “generatore di tranquillità” gli suonerebbe da subito profondamente stonata.

Che scenari divertenti si prospetterebbero all’orizzonte se  non solo singoli individui ma addirittura una massa critica fosse educata ad agire consapevolmente trovandosi a proprio agio con l’attitudine al cambiamento e il conseguente adattamento che esso impone alle singole esistenze. Ma, ahimè, questo avviene solo in casi molto rari.

Coraggio e Cambiamento

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Ma quindi il coraggio da solo basta a cambiare il nostro approccio alla vita? Secondo me no. Diciamo che è paragonabile alla scintilla che mette in moto tutto il meccanismo legato al cambiamento.

È la molla che ci spinge a porci nei confronti della vita e della realtà nel modo più oggettivo, adattabile e fluido possibile, senza cercare in maniera utopistica e arrogante di interpretarla e adattarla alla piccolezza dei nostri paradigmi autocostruiti, ma appunto lasciandosi attraversare da essa, senza opporre resistenza, quasi come a lasciarsi trasportare dalla corrente di un fiume senza alcun bisogno di nuotare.

L’essere umano ha una spiccata propensione a generare delle safe-zones rassicuranti e statiche in cui ingabbiarsi nell’illusione di una vita tranquilla e felice. Al contrario, come un fiume in piena, la realtà, per essere almeno intuita, impone di abbandonare qualunque filtro, pre-concetto o dogma, arrivando quasi  a “spalmarsi” su di essa, dissolvendosi nel suo fiume in piena. Che ciò avvenga per progressione o istantaneamente è solo una questione di prospettiva.

Penso che soltanto quando si è pronti a mettere in discussione ciò in cui si crede fermamente e attorno a cui riteniamo erroneamente che ruotino le nostre vite e solo quando si è confidenti con la propensione interiore al cambiamento, ebbene solo in quel momento si inizia ad acquisire la capacità di modificare profondamente qualcosa nella nostra vita. Vita intesa nella sua interezza, senza distinzioni tra Interiore ed Esteriore, che trovo al contrario sterili e fuorvianti.

Cambiare… Distruggere

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Penso che vivere in questo modo richieda un grande coraggio, è non è un semplice gioco di parole. Continuare a mettere in discussione le idee preconcette e gli schemi di comportamento che abbiamo creato (o che ci sono stati imposti) fin dall’infanzia per interpretare a modo nostro la realtà è un qualcosa che provoca necessariamente anche dolore e sofferenza.

Ma, parafrasando le parole di Krishna nel Mahabharata (su cui torneremo più avanti), la scelta potrebbe non essere tra guerra e pace, ma tra la guerra e una guerra ancora più catastrofica. Per questo già solo iniziare a porsi nei confronti delle sicurezze in maniera critica implica a mio parere un coraggio fuori dalla norma.[irp posts=”1168″ name=”Il mondo è un recipiente sacro e non si può governare, ma anche sì”]

Il paradosso, è che proprio queste sicurezze sono artifici creati per proteggerci dalla sofferenza e da quell’ignoto a cui il cambiamento ci espone.  Col tempo, la fitta rete di sicurezze crea una distorsione a tratti incolmabile tra la realtà percepita attraverso di loro e la realtà cosiddetta “reale”: evitiamo la sofferenza accettando un’altra sofferenza, più  sorda, più mansueta, ma di cui prima o poi la vita ci renderà il conto.

E qui penso sia doveroso fare un’altra precisazione. A mio parere infatti, il cambiamento e l’abitudine alla sensazione di impermanenza che accompagna questa dinamica sono senza dubbio un ottimo punto d’inizio. La differenza però penso la si faccia davvero solo quando si comincia a passare dal concetto di cambiare a quello di distruggere. Ma perché proprio distruggere?

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“Shiva the destroyer of worlds” Nestor Avalos

Oltre al differente livello di impegno attivo e consapevolezza che le due azioni sottendono, indubbiamente il concetto di distruzione genera una forte impronta emotiva nel nostro interiore.

Infatti ho notato come si tenda spesso ad associarlo esclusivamente ai suoi aspetti più negativi, devastanti e irreversibili e a concetti poco amati dai più come la morte e la sofferenza.

In realtà, anche nelle culture più antiche, si trova sempre la presenza di un principio divino distruttore, pari grado se non a volte anche comprendente l’aspetto creativo, proprio perché, in maniera estremamente semplicistica, per creare il “nuovo” è necessario prima distruggere il “vecchio”.

Quello che manca nella visione odierna forse è proprio questo aspetto della distruzione. Cioè il fatto che la distruzione non implica esclusivamente la fine irreversibile di qualcosa, nonostante possa essere tremenda e devastante, ma che contempla anche un contemporaneo aspetto creativo dinamico.

Ne risulta quindi un concetto apparentemente contraddittorio, una sorta di distruzione creativa in cui non necessariamente tutto è proprio da buttare nel termovalorizzatore, ma in realtà serve, dopo una elaborazione, una sgrezzatura e una sublimazione a produrre quel “nuovo” che sicuramente è diverso dal “vecchio” ma al contempo conserva qualche caratteristica anche di quest’ultimo.

Proprio perché niente è a priori esclusivamente positivo o negativo. Per capirci meglio è un meccanismo riconducibile alla trasmutazione alchemica, presente in numerose Tradizioni sia Orientali che Occidentali e di cui abbiamo parlato già qui e qui.

E appunto coraggio, cambiamento e distruzione si fondono in un legame indissolubile dove, partendo dalla scintilla che genera il movimento (coraggio), si giunge alla dinamicità (cambiamento) che inevitabilmente porterà alla distruzione, indispensabile per la creazione del “nuovo”.

E nella pratica?

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Quanto detto finora potrebbe sembrare il solito discorso sui massimi sistemi, più o meno condivisibile a seconda del vissuto e degli interessi del singolo lettore, ma poi facilmente accantonabile tra le tante teorie sull’approcciarsi alla vita.

Teorie che spesso ad una prima lettura risultano accattivanti e capaci di rispondere con semplicità alla maggior parte dei nostri quesiti ma che in seguito si rivelano totalmente inapplicabili alla quotidianità. O peggio ancora essere completamente fraintese, confuse cioè con il concetto profondamente fuorviante che la distruzione indiscriminata di tutto ciò che capita sottomano sia una scorciatoia per raggiungere chissà quali traguardi esistenziali.

D’altro canto, quanto detto finora non riguarda solamente scelte eccezionali che un normale individuo compie poche volte nella propria vita, in occasione di importanti passaggi evolutivi legati alla propria storia esistenziale. Niente di più sbagliato. Come detto prima riguardo al coraggio e alla sua “non eccezionalità”, così quanto esposto in precedenza sul cambiamento e sulla distruzione può essere applicato a qualunque momento della nostra vita.[irp posts=”4053″ name=”Marpa, Milarepa, la grandine e le ortiche: viaggio in un Tibet dimenticato”]

Anzi, occorre dare lo stesso peso a cambiamenti con impatti sulla vita quotidiana enormemente diversi, per rendere l’attitudine al cambiamento (e alla distruzione) intrinseca al proprio modo di approcciarsi alla vita.

Come se tutta la vita in fondo, dal gesto più semplice a quello più profondo, fosse un unico susseguirsi di distruzioni e di creazioni in cui il prodotto che via via viene elaborato e raffinato siamo proprio noi stessi. Quindi mettere ogni scelta e il cambiamento conseguente sullo stesso piano significa a mio parere smussare fino ad eliminare completamente l’eccezionalità che aleggia intorno a tutto il processo.

Un altro errore a mio parere molto comune è ritenere che solo chi segue determinati percorsi o pratichi determinate discipline abbia un lasciapassare privilegiato verso determinati modi di approcciarsi alla vita come quanto descritto in precedenza.

Tuttavia, come già affrontato in diversi articoli, questi percorsi non sono del tutto scevri da trappole e ostacoli di percorso che nel lungo possono non solo vanificare tutto il lavoro fatto, ma anche essere controproducenti.

Ritengo inoltre che un altro ingrediente indispensabile sia coltivare quello stato di centratura, attenzione e “ascolto”, indispensabile a cogliere la continua mutevolezza della realtà e gestire il nostro rapportarsi con essa.

In caso contrario, risulta impossibile applicare quanto descritto finora e anzi, il tutto si traduce in un meccanico, vuoto e superficiale tentativo di utilizzo di questi processi, risultando nel lungo più controproducenti che altro.

Da due anni, su questo sito, vengono proposte opinioni, spunti e articoli riguardo allo studio di Vie, Pratiche e Tradizioni volte proprio a coltivare questo stato di attenzione e di “presenza”, anche e soprattutto cercando di demolire i luoghi comuni, i quali non sono altro che cristallizzazioni di attitudini in origini vive e genuine, ma che si sono trasformate in altrettanti dogmi.

Abbiamo quindi tutti gli ingredienti? Purtroppo ancora no. L’ultimo ingrediente infatti, e sicuramente più importante, penso sia la motivazione profonda che muove tutti i processi descritti finora.

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Non necessariamente deve essere chiara da subito. Ma sicuramente senza di quella, e la volontà che da essa scaturisce, difficilmente si riuscirà a mettere in moto seriamente qualunque dinamica descritta in precedenza.

Occorre la volontà di trascendere la realtà come la percepiamo per raggiungere qualcosa che sta al di là non solo della nostra capacità percettiva ma anche della nostra consapevolezza.

Ma più che capire, occorre sentire.

E ciò che eventualmente si “sente” appartiene ad una sfera talmente intima e profonda da essere una modalità unica e irripetibile per ogni singolo individuo, a conferma appunto dell’unicità di ogni singolo essere.

Di più non vorrei aggiungere se non che questa capacità di sentire non può a mio parere essere regolamentata, istituzionalizzata né tantomeno mediata. O c’è o non c è. E se non c’è, molto probabilmente sta semplicemente aspettando il momento più opportuno per farlo.

Non necessariamente questo capacità di sentire sarà propiziata attraverso pratiche psicocorporee estrose, vite ascetiche himalayane o rituali folkloristici. Tuttavia, senza di essa, quanto detto finora perde gran parte della sua forza e applicabilità. Come un motore che va su di giri ma non viene mai inserita una marcia (anche soltanto la prima) che permetta effettivamente di iniziare a muoversi.

Perché Distruggere?

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Già, perché realizzare un elaboratissimo mandala per poi distruggerlo?

Ma non si può vivere una vita “tranquilla”? Sì, certamente, è possibile. Sono fermamente convinto che il libero arbitrio e la libertà che ne consegue siano la massima espressione di amore concepibile.

Tuttavia, se stiamo cercando risposte a quesiti profondi o se stiamo facendo un “lavoro su noi stessi”, ritengo che non possa mancare una altrettanto sincera e assoluta attitudine alla messa in discussione di se stessi, delle proprie idee e convinzioni e soprattutto una propensione al cambiamento e alla distruzione. Ma c’è dell’altro. Esiste a mio parere una sottile affinità tra cambiamento e il concetto generale di “agire”. E più in particolare, di “agire consapevolmente”.

Niente rimane mai fermo, anche se si è convinti secondo i propri riferimenti sensoriali e spazio temporali di essere fermi: e spesso, in realtà, ci stiamo muovendo molto più velocemente di quanto pensiamo. Pertanto l’immobilità, l’inazione e la conservazione dello status quo sono caratteristiche aliene dalla vera natura della realtà che ci contiene, siccome essa stessa è un continuo susseguirsi di creazioni e distruzioni.

L’idea quindi che sia possibile “fermare” una qualunque situazione o “non agire” è solo frutto dell’illusione e dei “filtri” che la alimentano illudendoci appunto di poter stare fermi indipendentemente da ciò che invece si muove e muta continuamente intorno a noi.

A questo proposito, penso possa aiutare un bellissimo estratto dalla versione del Mahabharata di Peter Brook, su cui si è svolta recentemente a Zénon una conferenza con Carola Benedetto e Luciana Ciliento. In quell’occasione non poteva mancare un approfondimento della scena in cui l’eroe Arjuna sta per soffiare nella conchiglia e dare il via alla terribile battaglia che lo vedrà scontrarsi con i suoi stessi parenti, ovvero l’episodio che rappresenta la Bhagavad Gita, cuore del Mahabharata stesso e testo sapienziale di enorme importanza.

Quando Arjuna vede schierati davanti a sé lo zio, i suoi cugini e il suo amato maestro d’armi, si sente annientato e abbandonando arco e frecce si rifiuta di combattere. Si rivolge al suo auriga Krishna (che è in realtà il dio Vishnu in forma umana) e gli chiede: perché dobbiamo combattere? Perché dobbiamo agire, pur sapendo di non poter evitare terribili conseguenze? Non è meglio allora rinunciare all’azione?

Krishna gli risponde che è impossibile evitare di agire. E di seguito le sue parole penso illuminino con estrema chiarezza il senso di quanto detto finora…

Da notare che Vishnu/Krishna non è legato tradizionalmente all’aspetto distruttivo, che è proprio di Shiva, ma alla conservazione (la trimurti è completata da Bhrama, il creatore). Questo è un particolare molto interessante, che nella versione di Peter Brook emerge in tutto il suo apparente paradosso: Vishnu ‘discende’ in forma umana ogni qual volta l’ordine cosmico (il dharma) sia a repentaglio, durante i tumulti che accompagnano ogni passaggio epocale come quello raccontato nel Mahabharata.

Ci si potrebbe quindi aspettare che Krishna agisca da pacificatore, e invece è proprio lui che appicca il fuoco, portando all’esasperazione i conflitti tra i cugini Kaurava e Pandava: a volte è necessario distruggere per conservare, mentre cercare di conservare gli equilibri formali è la forma più nichilista di distruzione.

Vivere Distruggendo

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Ovviamente vivere in questo modo non è affatto semplice e non permette di “sedersi”. Il continuo processo di distruzione e di creazione ci sottopone a una progressione non  lineare ma spiraliforme, una sorta di raffinazione continua di un minerale per ottenere un metallo sempre più puro.

Mettere in pratica veramente questi principi implica una scelta consapevole che spesso può avere degli effetti esplosivi (sia in positivo che in negativo) sulla vita anche ordinaria di un individuo. Vivere senza alcuna certezza o appiglio, travolti da questo continuo dinamismo, alla lunga può logorare se si conserva una resistenza profonda a questo meccanismo, come se venisse accettato soltanto in superficie ma negli abissi dell’interiore venisse al contrario ostacolato.

In realtà il segreto per non “bruciarsi col fuoco” non è tanto accettare la resistenza in maniera passiva o fingere che non esista. Né ricrearsi delle piccole valvole di sfogo per quei momenti in cui proprio non ce la si fa più.

Farsi attraversare dalla realtà e “spalmarsi” su di essa vuol dire arrivare ad un certo punto a dissolvere la propria forma. Tuttavia la dissoluzione non implica un annullamento, ma la capacità di assecondare la mutevolezza della situazione senza tuttavia perdere la propria natura originaria. Ancora una volta, distruzione e conservazione: la fedeltà a sé stessi implica apparenti incoerenze esterne verso le forme cristallizzate.

[irp posts=”4572″ name=”Meditazioni per non uscire dal mondo”]Solo in questo modo è possibile generare la minima resistenza al cambiamento e non venirne sopraffatti e infine annientati.

Sicuramente un effetto collaterale insormontabile (o almeno credo) è il senso di una profonda solitudine, che tuttavia è tale solo se si conserva una visione ancora parziale.

E c’è anche, certo, il rischio di essere considerati folli. Ma non esiste forse in tutte le Tradizioni la stretta vicinanza tra il concetto di follia e quello di divino, proprio a dimostrare come uno stato di fusione completa con ciò che ci circonda sia percepibile dall’esterno come appunto follia? E di personaggi che hanno sperimentato questi stati non ne troviamo descritti in ogni Tradizione e luogo della Terra? E forse, per arrivare anche solo a sfiorare per un istante la Verità, non bisogna essere dei folli?

Tantra

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Coraggio, cambiamento, distruzione, trasmutazione: è inevitabile cogliere come comune denominatore di questi aspetti un termine a me molto caro, che in sé racchiude un mondo, ovvero il Tantra. Raramente riguardo a un singolo termine sono esistite così tante imprecisioni e fraintendimenti. Soprattutto nel mondo Occidentale.

Lasciamo pure perdere l’abnorme e sintomatica identificazione con gli aspetti legati alla sessualità, che hanno generato interpretazioni che rivelano tutte le problematiche profonde nell’affrontare l’argomento: da un lato il sogno della disinibizione assoluta di una pulsione con cui non si riesce a interfacciarsi serenamente; dall’altro il tentativo di commercializzare il tantra come forma di counseling per coppie afflitte da calo di desiderio.

Ma anche mettendo da parte questo, il tantra spesso si risolve in tentativi vani di concettualizzare e categorizzare qualcosa che appunto per sua natura è pura esperienza e quindi non concettualizzabile né tantomeno trasmissibile a parole.

Religione, Filosofia, Via, stile di vita. Nessuna di queste definizioni mi ha mai convinto pienamente. Impossibile da inquadrare cronologicamente, unico nelle sue modalità, se obbligato e controvoglia dovessi provare a definirlo, lo intenderei come una Scienza Interiore, altamente evoluta, capace di permettere il completo controllo della mente e dei suoi processi. Ma ancora risulterei estremamente impreciso e carente… Il Tantra va vissuto. Anzi, forse è l’unica strada secondo il mio modesto parere, per Vivere veramente, nel senso più profondo e completo la nostra esistenza.

Anche se questo ovviamente richiede un grande coraggio.

Ringrazio Francesco Vignotto per la scelta iconografica e per la revisione del testo

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Meditazioni per non uscire dal mondo

5 Settembre 2016 Francesco Vignotto


Così lontani, così vicini

Puoi tenerti lontano dalle sofferenze del mondo, sta a te deciderlo e corrisponde alla tua natura, ma forse è proprio questo tenertene lontano l’unica sofferenza che potresti evitare.

Franz Kafka

Diverse persone mi hanno descritto esperienze straordinarie vissute durante la meditazione. Non necessariamente fenomeni sovrannaturali, ma la consapevolezza che ogni cosa appariva finalmente per quello che era e al suo posto per come era.

Quello che mi ha sempre colpito è che quasi tutte confessavano l’impossibilità di mantenere quella stessa consapevolezza al di fuori di quelle finestre esperienziali durante la pratica. Quanto al fatto che quelle finestre si fossero aperte, si dimostrava ben presto opera di una folata di vento, invece che merito del meditante. Frustrazione su frustrazione: il ritorno alla “vita comune” risultava ancora più ottusa e deludente.

A dire il vero, confesso che anch’io ho vissuto qualche exploit in cui ho creduto di avere afferrato il bandolo della matassa dell’esistenza, per poi scontrarmi sanguinosamente con la realtà terrena, che per contrasto proprio in quei momenti reclama i propri diritti con aumentata veemenza.

Ritieni di esserti sopraelevato sulle sofferenze del mondo – nello specifico, le tue – e ti sembra di camminare a parecchia distanza da terra, finché il primo sgarbo del vicino o un rifiuto da parte della vita ti richiama alla forza di gravità, con danni proporzionali all’altezza a cui ti sentivi librare.

Non è certo granché, ma con il tempo ho imparato ad accettare una piccola cosa che ritengo molto importante: quello schiaffo in faccia da parte della vita è non solo inevitabile, ma anche benedetto, perché ti ricorda che non è così che funzionano le cose. Non tutti sono così fortunati da riceverlo prima di mettersi in testa idee molto strane.

Vi sono numerosi errori in gioco, primo tra i quali appropriarsi dei meriti di questi exploit e attribuire a cause esterne la colpa delle cadute. Ma il punto fondamentale è che tutti vorremmo vivere in uno straordinario idillio di pace, escludendo la melma della trivialità di tutti i giorni.

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In altre parole, accettiamo i picchi e rinneghiamo le valli, trascurando che nella pace privilegiata dell’alta quota non cresce granché di utile alla sussistenza: proprio per questo siamo condannati come Sisifo a lasciar rotolare giù la pietra e a dover risalire ogni volta la china con gran fatica.

Ora, per quanto ci riguarda l’argomento è delicato, perché alcune tradizioni hanno affermato in modo categorico che la meditazione serve a ritrarsi da un mondo che è pura illusione, e dimorare nell’assoluto. Eppure, finché ne sentiamo gli schiaffi in faccia, con questo mondo e con le sue bollette da pagare dobbiamo giungere a un concordato.

Altre tradizioni più pragmatiche hanno invece osservato che la vetta e la valle sono due poli della stessa realtà, e finché si rifiuta un lato della medaglia si è condannati a rimbalzare da un polo all’altro: la meditazione deve penetrare quindi entrambi gli stati.

Come vedremo in questo articolo, l’opposizione tra queste due visioni è solo relativa, e dipende in gran parte da questioni pedagogiche. Tuttavia, per arrivarvi, dobbiamo intraprendere un viaggio armandoci di un po’ di pazienza prima di giungere a conclusioni affrettate.

O Dio supremo! Tu che ti orni di un tridente e di una ghirlanda di teschi, come raggiungere l’assoluta pienezza della Shakti che trascende tutte le nozioni, tutte le descrizioni e abolisce tempo e spazio? Come realizzare questa non-separazione dall’universo?

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Palla al centro: sedersi e dimenticare

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Intendiamoci innanzitutto su un concetto fondamentale: quando parliamo di meditazione, quasi sempre intendiamo l‘esecuzione formale di una particolare tecnica, ma la meditazione propriamente detta è uno stato che non è necessariamente la conseguenza logica di un atto.

Ciò non significa che la tecnica sia inutile, anzi è una preparazione indispensabile: significa in primo luogo che la meditazione non riguarda soltanto il momento in cui “meditiamo”; in secondo luogo, che non siamo noi a decidere quando si entra in meditazione: è qualcosa che avviene, e accade più spesso spontaneamente e quasi mai per forzature.

Proprio come il Cavaliere Inesistente di Calvino, la mente ha bisogno di esercitare una costante attività per conservare la percezione di esistere in modo autonomo. Solo quando questa attività si dirada si creano le condizioni perché emerga lo strato sottostante, in cui l’idea di una identità congruente si dimostra relativa. In altre parole, ci dimentichiamo almeno per un momento chi siamo, ovvero che il collega ci ha fatto un dispetto, che il padre ci ha cresciuto male, che il coniuge è un idiota: l’idea di essere qualcuno o qualcosa appare insomma in tutta la sua contraddizione.

Siccome abbandonare una dipendenza è molto difficile, occorre più spesso procedere per gradi e quindi esistono diverse tecniche. Potremmo dire che qualsiasi tecnica di meditazione è un modo per tenere occupata la mente (ad esempio, con l’attenzione sul corpo e sul respiro) mentre si preparano le condizioni perché questa “dimenticanza” si verifichi. Ovviamente ogni tecnica ha anche un significato e una funzione peculiare, ma oltre al fare occorre affiancare il ben più importante lasciar fare, finché potremo abbandonare il primo e abbandonarci completamente al secondo.

Pertanto, non ci si deve scoraggiare se, soprattutto inizialmente, la mente è incostante e occorre più volte riportarla all’ordine: non conta la perfezione della tecnica, ma il fatto che nella congestionata trama della sua agitazione comincino a manifestarsi degli spiragli.

Anche quando usciamo a correre o potiamo la vigna incorriamo nella possibilità di “svuotare la mente” e queste stesse attività possono essere trasformate e potenziate in meditazione, in quanto la meditazione riguarda più l’attitudine che la tecnica.

Tuttavia, la tecnica meditativa di base più comune – ma, beninteso, non l’unica – prevede l’immobilità nella postura seduta. Questa pratica è antica come il mondo ed è presente in moltissime tradizioni come mezzo per rivolgere la mente a osservare sé stessa, acquietando qualsiasi attività volontaria sia fisica sia mentale. È un passaggio fondamentale per ridurre al minimo la reattività sia agli stimoli interni che a quelli esterni.

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Il sigillo di Pashupati rappresenta il Signore degli animali, forma primordiale di Shiva, in posizione meditativa seduta. Il reperto è stato trovato nel sito archeologico di Mohenjo-daro è una delle testimonianze della Civiltà della Valle dell’Indo risalente al III secolo a.C.1Da notare che una raffigurazione molto simile è visibile in uno dei reperti del Calderone di Gundestrup (nell’odierna Danimarca), risalente al periodo tra il II secolo a.C. e il III secolo d.C.

Lo zazen, ossia l’interpretazione Zen di questa pratica, vale la pena di essere citato per la sua essenzialità e per il fatto che, a differenza di altre versioni più progressive che prevedono diversi livelli di pratica, mira a un’esperienza immediata della meditazione:

Si siede sul cuscino (detto zafu), nella posizione del loto o del mezzo loto, con le ginocchia premute a terra e la sommità del capo ben eretta verso il cielo; la colonna arcuata con la quinta lombare spinta in avanti; l’addome completamente rilassato, il collo dritto e il mento spinto all’interno. Si è come un arco teso la cui freccia è la mente. Sedendo in questa postura, senza meta o desiderio di guadagno, mantieni gli occhi fissi circa un metro davanti a te; gli occhi guardano il nulla. La mano sinistra è posata nella destra con i palmi verso l’alto, i pollici uniti come l’orizzonte ‘né montagne né valli’, le spalle affondano naturalmente e la punta della lingua è contro il palato: questa è la postura. Il respiro gioca un ruolo primordiale. Concentrandosi sull’esalazione più lunga possibile, mentre l’attenzione è focalizzata sulla postura, l’inalazione avviene naturalmente. Le idee-immagini che passano attraverso la mente e i pensieri inconsci che sorgono non devono essere fermati o conservati durante lo Zazen. 2Daniel Odier, Meditation Techniques of the Buddhist and Taoist Monks, Bear & Co, 2003 https://www.scribd.com/read/230486661/Meditation-Techniques-of-the-Buddhist-and-Taoist-Masters

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Lo Zen (Chan) è una tradizione buddhista sviluppatasi prima in Cina e poi in Giappone. Il nome stesso Chan deriva dal sanscrito dhyana, ossia “meditazione”, che intende come un mezzo per il satori, ossia il riconoscimento spontaneo della realtà, in cui non c’è differenza tra l’io che osserva e ciò che è osservato.

Il richiamo alla spontaneità, del resto, rivela che lo Zen è altrettanto figlio del Taoismo, in cui del resto ricorre la pratica  del “sedersi nell’oblio”:3Per i rapporti tra Taoismo e Buddhismo si veda il nostro articolo Il mondo è un recipiente sacro e non si può governare

“Che cosa intendi dicendo che ti siedi e dimentichi tutto?”
Yan Hui rispose: “Che mi spoglio del mio corpo, cancello i miei sensi, abbandono ogni forma, sopprimo ogni intelligenza, mi unisco con colui che abbraccia tutto, ecco quello che intendo dicendo che mi siedo e dimentico tutto”.
Zhong-ni concluse: “L’unione con il grande tutto esclude ogni particolarità, evolversi incessantemente esclude qualsiasi fissità. Tu sei veramente un saggio. D’ora in poi ti seguirò.

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Lo Zen, tuttavia, tenendo fede alla sua natura irriverente e iconoclasta, ha molte volte irriso la pratica stessa della meditazione seduta con la quale viene spesso identificato, perché ancora troppo carico di intenzione e di formalità. Del resto, la confusione tra il mezzo e il fine è il tema espresso dalla famosa rana del maestro Sengai Gibon (1750-1830):

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Se un uomo diviene un Buddha sedendo in meditazione…
(io, anche se sono una rana, avrei dovuto diventarlo molto tempo fa)

Zhuang-zi (Chuang-tzu), VI

Daisetz T. Suzuki commenta questo Haiga4L’haiga è una forma espressiva giapponese che combina la pittura con la poesia haiku.: “Se lo zen si fonda soltanto sulla postura della meditazione, allora è certo che la rana raggiungerà la buddhità. Ma lo zen non è semplicemente stare a sedere. Essenziale è il risveglio dell’inconscio o mente.”5Il maestro zen Sengai: poesie e disegni a china, a cura di Daisetz T. Suzuki, Guanda, 1988

Ma allora, cos’è questo qualcosa che può accadere durante la meditazione, ma non è garantito che accada?

Uno sguardo sul vuoto

Grazie alla vibrazione, l’oggetto della percezione vibra nel cuore del vasaio poiché esso è tutt’uno con la coscienza del sé di quest’ultimo.

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Zhuangzi contempla una cascata

Riguardo alla meditazione si parla spesso di uno “stato naturale“. In un certo senso,  meditare è regredire al di qua del pensiero analitico e discorsivo e dell’autocoscienza.

In altre parole, potremmo dire che la meditazione si verifica quando la mente è sufficientemente calma da entrare in risonanza con la sua essenza, il ‘recipiente’ che la contiene, che spesso è descritto in termini di Vacuità, Mente, Tao, Sé.

Questo “recipiente” non è afflitto dai continui mutamenti dei fenomeni né ai processi psicologici: è il presupposto grazie a cui essi si manifestano come lo spazio è il presupposto necessario per il movimento, solo che non esiste reale distinzione tra lo spazio stesso e ciò che vi si muove. È la Coscienza stessa che prescinde dai contenuti e dal senso di un “io” (ma su quest’ultimo punto torneremo più avanti).

Attenzione: come ogni metafora, anche il termine “recipiente” è imperfetto, in quanto suggerisce un limite che in realtà non c’è. Ogni parola, del resto, segna una linea di confine che non ha valore assoluto, anche se rischia di legare alla forma.

Padmasambhava (VIII sec. d.C.) è il fondatore del Buddhismo Tibetano.
Padmasambhava (VIII sec. d.C.) è il fondatore del Buddhismo Tibetano.

Come avverte Tilopa, maestro del Buddhismo Tantrico vissuto nell’XI secolo:

Si definisce “vuoto” lo spazio, ma lo spazio è indicibile.
Similmente, la propria coscienza è detta “chiara luce”, tuttavia in essa non c’è nulla che possa essere definito dicendo “è così”6Tilopa, Mahamudra (Il Grande Sigillo)

E prima di lui Padmasambhava:

Questa mente unica che penetra ogni vita e ogni liberazione
non è riconosciuta benché sia la nostra natura fondamentale.
Il suo flusso è costante, ma noi lo ignoriamo.
La sua intelligenza luminosa e priva di imperfezioni non è percepita
benché emerga da tutte le cose.
(…)
La Mente, in questa luminosa consapevolezza assoluta,
esiste e non esiste contemporaneamente!
È la fonte del piacere, del dolore e della libertà.
Gli insegnamenti la chiamano Realtà della Mente,
Se, o non-Sé,
Mente innata,
Natura assoluta,
Grande Sigillo,
Liberazione naturale,
Perla luminosa,
la Base e l’Ordinario.
Questa realizzazione ha tre porte:
l’assenza di tracce, la chiarezza e lo spazio7Padmashambava, La liberazione attraverso la visione nuda della natura dello spirito

In qualsiasi caso, entrare in meditazione (sempre che “vi si entri”) non implica che le cose in noi o attorno a noi cambino, ma che cambi il nostro stato di coscienza riguardo ad esse e a noi stessi.

Consapevolezza e concentrazione, compassione e vacuità

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Come abbiamo visto in un articolo di un paio di anni fa, il Buddhismo ha una visione apparentemente molto negativa dell’esistenza, di cui considera soprattutto la sofferenza che la affligge. Anche la felicità, essendo soggetta a decadenza, è sua volta fonte di dolore.

In realtà, a uno sguardo più approfondito, il problema fondamentale si rivela l’attaccamento agli oggetti dei desideri, perché anche quando vengono ottenuti sono destinati necessariamente a decadenza.

La meditazione è quindi uno dei mezzi sviluppare un atteggiamento compassionevole ma distaccato e privo di aspettative verso i fenomeni normalmente vissuti con totale identificazione, rinunciando a qualsiasi punto di appoggio tranne che nella vacuità.

Per questo la meditazione è il culmine dell’ottuplice sentiero che racchiude l’insegnamento originario del Buddha Siddharta Gautama: retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retto modo di vivere, retto sforzo, retta consapevolezza (sati), retta concentrazione (samadhi).

Sati e samadhi riguardano propriamente la pratica meditativa e, come si può notare dalla progressione, devono essere accompagnati da una solida disciplina morale e psicologia. Consapevolezza significa osservazione senza giudizio del corpo e del respiro, delle sensazioni fisiche e dei processi interni, dei pensieri e delle emozioni, degli elementi che compongono la mente e il corpo.

La concentrazione consiste nel focalizzare la mente  su un oggetto, fino a che soggetto e oggetto non si fondono. Perché ciò avvenga, la concentrazione dev’essere duratura e stabile: è un processo che richiede costanza e un’incrollabile determinazione, perché la mente tende per sua natura a vagare.

La consapevolezza e la concentrazione sono dei mezzi per deframmentare una mente che allo stato normale è dispersa in mille rivoli spesso in conflitto tra loro, anticipando il futuro in base alle esperienze passate, ma incapace di cogliere il presente che scorre sotto i suoi occhi.

Il maestro indiano Tilopa (988 – 1069), è considerato il primo patriarca della tradizione Kagyu del Buddhismo Tibetano. A lui si deve il celebre Mahamudra, ossia un metodo immediato per conseguire l'illuminazione.
Il maestro indiano Tilopa (988 – 1069), è considerato il primo patriarca della tradizione Kagyu del Buddhismo Tibetano. A lui si deve il celebre Mahamudra, la non-via immediata di conseguimento dell’illuminazione.

Dissolvendo il dualismo della relazione soggetto-oggetto, la meditazione permette di risalire alle cause e realizzare la vacuità al tempo stesso dell’ego del soggetto e dell’oggetto, liberando dalla dualità fondamentale dell’essere e del non essere: dobbiamo ricordare che per il Buddhismo tutto è impermanente.

L’oggetto della concentrazione può essere anche un sasso, o la fiamma di una candela, un concetto astratto, oppure la visualizzazione di un’immagine o di un simbolo. L’esercizio della concentrazione può vertere al tempo stesso sul respiro naturale o sul respiro ‘guidato’, sulla vacuità sostanziale della mente, escludendo sistematicamente ogni pensiero alla radice nel momento stesso in cui sorge; o, ancora, sulla recitazione di mantra o sulla visualizzazione molto elaborate di mandala o di divinità tanto care al Buddhismo tantrico: il repertorio delle tecniche nella meditazione buddhista è pressoché sterminato.

Tuttavia, il Buddhismo ha molte anime, e come abbiamo già visto nei riguardi dello Zen, accanto a metodologie progressive contempla anche anche istanze più dirette, secondo le quali l’esercizio stesso della concentrazione può risultare un artificio.

Per questo, Tilopa ammoniva non solo di non pensare, né di analizzare, né di anticipare, ma anche di non meditare, mantenendo la mente nel suo stato naturale: la meditazione, insomma, deve presentarsi spontaneamente e non-intenzionalmente, “senza cercare di creare artificialmente l’esperienza stessa del vuoto mentale e senza cercare “di afferrare la meditazione come fosse un qualche oggetto solido”.8Khenchen Thrangu Rinpoche, An Ocean of the Ultimate Meaning: Teachings on Mahamudra

Attraverso il corpo o senza il corpo

yogi-himalaya

Gli Yoga Sutra di Patanjali prevedono l’arresto (nirodah) delle fluttuazioni della mente, intese qui come schemi circolari ripetitivi che ne celano lo stato naturale. Il processo per ottenere questo risultato è per ascesi: prevede di ritirarsi progressivamente dalle esperienze esterne e man mano di abbandonare anche i contenuti della conoscenza che derivano dalla meditazione stessa per giungere alla pura Coscienza o Purusha.

Il cammino, come quello buddhista, è articolato in otto membra e comprende delle osservanze e delle restrizioni morali (Yama e Niyama). Asana e Pranayama, come abbiamo visto in un articolo precedente, sono il superamento stesso della corporeità e dei soffi vitali, mentre Pratyahara è l’introversione dei sensi verso la mente, anziché verso il mondo esteriore.

Anche la fase finale, quella più propriamente meditativa, riecheggia quella buddhista e prevede la concentrazione su un punto (Dharana), la costanza del flusso di coscienza, con l’esclusione dei pensieri estranei (Dhyana) e infine la fusione con l’oggetto (Samadhi). Nonostante queste ultime tre fasi possano essere dirette su oggetti particolari per ottenere poteri psichici, è con l’eliminazione dell’oggetto stesso che si ottiene la totale cessazione degli schemi della mente.

Molto citati quale base teorica dalle scuole di Yoga moderne ma poco praticati e poco praticabili in un contesto come quello contemporaneo, gli Yoga Sutra propongono essenzialmente un percorso di negazione del mondo – senza peraltro la dimensione della compassione centrale nel Buddhismo – che non è condivisa da tutte le tradizioni yogiche. Negando, lascia dietro di sé una “altra parte”.

Eric Baret ha espresso in modo piuttosto colorito le implicazioni di questa visione:

Quando la persona ha purificato il suo psichismo, il suo corpo, può raggiungere questo stato menzionato negli Yoga Sutra, che è il “blank state”.
Questo stato assomiglia un po’ a quello di un asino nella sua cella. Dovunque si gira vede bianco. È spesso il risultato della via progressiva. Vede solo bianco. È sempre un asino. Ha purificato il suo corpo, il suo psichismo. C’è tranquillità. E questa tranquillità è ancora un oggetto. Crede a questo oggetto indipendentemente dal soggetto che lo percepisce, e a causa di questo non può esserci riassorbimento. Bisogna che abbia la grazia d’incontrare un istruttore che si sia stabilito lui stesso al di là del “blank state” per poter rompere questo circolo.9Eric Baret, Lo Yoga tantrico del Kashmir, Om Edizioni, 2016

Matsyendranath, il leggendario fondatore dell'Hatha Yoga, considerato un santo nella tradizione Buddhista e Induista, che emerge dal pesce nel cui ventre, secondo una delle tante versioni, passò numerosi anni apprendendo da Shiva in persona i segreti dello Yoga.
Matsyendranath, il leggendario fondatore dell’Hatha Yoga, considerato un santo anche nella tradizione Buddhista e Induista, che emerge dal pesce nel cui ventre, secondo una delle tante versioni, passò numerosi anni apprendendo da Shiva in persona i segreti dello Yoga.

Sono convinto che i metodi dell’Hatha Yoga non siano semplicemente un segmento preparatorio del percorso descritto dagli Yoga Sutra, come vorrebbero molte vulgate correnti, bensì possano essere considerate un percorso autonomo.

Estraneo alle restrizioni morali di Patanjali (che collocano quest’ultimo in un contesto religioso), nell’Hatha Yoga vige il principio tantrico per cui l’unico modo di superare le restrizioni della conoscenza sensibile e della corporeità è attraverso i sensi e il corpo stesso.

I presupposti della concentrazione sono dunque generati somaticamente. Asana, Pranayama e Mudra (questi ultimi assenti nella trattazione di Patanjali) diventano così molteplici tecniche per decondizionare la mente attraverso il corpo e i soffi vitali.

E sebbene sia il pranayama il principale ponte verso il samadhi, anche la pratica di alcune asana archetipiche, quali ad esempio sarvangasana, sirshasana o paschimottanasana, può già da sé risolversi in meditazione, a patto di una pressoché completa distensione, e un tempo prolungato di mantenimento: condizioni che non sempre sono realizzabili nei contesti moderni di pratica, e non sempre rientrano negli obiettivi di una pratica fisica.

Quanto detto in questo paragrafo, ovviamente, risente della mia personale opinione ed esperienza, conscio che esistono visioni molto differenti in tema.

L’io è un pensiero come un altro

ego

Comunque stiano le cose, non possiamo evitare una questione fondamentale: il senso dell’io.

Siamo abituati per educazione religiosa e per pregiudizio culturale a considerare l’anima individuale – o, in una prospettiva più laica, un io costante – come la parte più spirituale dell’essere umano.

A questo proposito giova ricordare che, a differenza della psicologia occidentale e di gran parte delle religioni monoteiste, le filosofie orientali attribuiscono al sé individuale un carattere transitorio e interdipendente. Non esiste, in altre parole, alcuna anima da “salvare” e nessun ego da ricomporre.

In questo senso, il Buddhismo è particolarmente drastico, in quanto ritiene che l’individuo sia solamente un composto di cinque aggregati senza alcun sostrato.10A riguardo, si veda questo estratto ben esplicativo Afferma Nagarjuna:

Quando il sé concepito dagli estremisti viene analizzato con logica, non può essere trovato tra gli aggregati (del corpo e della mente) 11Nagarjuna, A Commentary on the Awakening Mind

Sotto la lente della pratica meditativa, insomma, la ‘vita animica’ o le avventure dell’io sono fenomeni del tutto frammentari e relativi. Non bisogna tuttavia cadere nell’estremo opposto e ritenere che occorra mortificare e sopprimere l’io: occorre solo ricondurlo nel contesto della sua fonte, perché la coscienza di essere un individuo è comunque una traccia, un riflesso della sua essenza.

In altre parole, come ha scritto Giorgio Invernizzi ne Il concetto del sacro, “l’uomo non è il proprietario delle risorse mentali, emozionali e materiali che trova dentro e fuori di sé, ma solo l’amministratore”.

Allo stesso tempo, anche le pratiche cosiddette spirituali rischiano di essere un’altra delle tante avventure episodiche dell’io, che proprio grazie a questo rafforza il suo falso senso di separazione e di indipendenza.

Anche per questo, risulta abbastanza evidente come la meditazione si presti male in quanto strumento di “crescita personale” o di “sviluppo del potenziale umano” – per citare alcuni termini oggi di moda – perché queste pratica non “cura” e non “risolve” i problemi della personalità: erode anzi la certezza della chiusura stagna del contenitore (e pertanto non è consigliabile a personalità già particolarmente disgregate).

Ma allora, quando si medita, chi medita? Visto che da un punto di vista ordinario meditare è un’azione come un’altra, allora vale come per qualsiasi altro agire. Avverte Jean Klein:

Quando agisci, sei tutt’uno con l’azione, è soltanto in seguito che l’ego si appropria dell’atto, da cui era assente. Ma l’ego è un pensiero come un altro e quindi non può essere il suo stesso creatore.12Jean Klein, Neither This nor That

È proprio questo il punto: l’io – qualsiasi punto dell’universo dica “io” – è un pensiero come un altro.

La vita né attiva, né contemplativa

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Guarda deh lo stupefacente comportamento della mente! Della mente, dico, che colla rinuncia si afferra agli oggetti, e coll’afferrarli, ci rinuncia e li abbandona!

Bhagavad Gita, II, stanza di riassunto13Il Canto del Beato (Bhagavadgita), commento di Abhinavagupta, a cura di Raniero Gnoli, UTET, 1976 http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/vedanta/gnolibhg.pdf p.80

Si ritiene spesso che la meditazione sia una “pratica” e uno “stato” introspettivi, ma a ben vedere anche questo in ultima analisi non è esatto. Torniamo al dilemma a cui accennavamo in apertura: distinguere tra interno ed esterno significa vivere il “momento” della pratica e il “momento” della vita come fossero distinti. Questo pericolo è del resto sempre stato noto. Per questo è sempre stata idea abbastanza comune che la pratica meditativa riguardi anche la vita attiva.

Se qualcuno ricorda il motto benedettino “ora et labora”, si ricordi anche che in molte sette i sufi conducono una vita del tutto normale, formando una famiglia e svolgendo lavori normalmente considerati umili, e che nello Zen il lavoro manuale è considerato di pari importanza (o in alcuni casi addirittura superiore) alla pratica dello zazen.

Famoso è l’incontro tra il futuro maestro giapponese Dogen con un anziano monaco cinese che svolgeva l’umile mansione di sguattero: alla sorpresa di Dogen per il fatto che a un monaco così anziano non fosse concesso di dedicarsi alla pratica meditativa per progredire nella via, il vecchio monaco rispose che quella stessa mansione era già la Via.14Si veda Dogen Zenji; Uchiyama Roshi Kosho, Istruzioni a un cuoco zen. Ovvero come ottenere l’illuminazione in cucina, Astrolabio

Nella Bhagavad Gita, Krishna invita Arjuna a non ritrarsi dall’agire, ma a gettarsi nella mischia della battaglia, indifferente alla sconfitta o alla vittoria. Nel karma yoga (ossia lo Yoga dell’azione) esposto da Krishna il mezzo di emancipazione non è la rinuncia all’azione, bensì la rinuncia ai frutti dell’azione.

In realtà, lo stato di meditazione compare al punto di confluenza tra introspezione e azione, ed è indipendente anche dalla direzione scelta. Il fatto è che questo stato è un paradosso proprio perché è una “terza via” normalmente non contemplata.

Satyananda ha descritto molto bene questo concetto nei termini dell’Hatha Yoga:

L’epitome della modalità attiva è lo stato di mente e corpo di un tassista che guida durante le ore di punta. L’epitome della modalità recettiva è il rilassamento profondo in Yoga Nidra, o lo stato di introversione della meditazione formale. Il vero stato meditativo, che pochi ricercatori scientifici considerano ma che è il vero obiettivo dello Yoga, è un esempio del terzo modo, ovvero del funzionamento di sushumna, in cui attivo e passivo sono completamente bilanciati. Una persona in questo stato è simultaneamente focalizzata interiormente ed esternamente. Per esempio, potremmo guidare un taxi e nello stesso tempo essere in uno stato di rilassamento o “non agire”. O potremmo sedere assolutamente immobili ed essere riempiti della energia dinamica di shakti in modo tale da essere totalmente svegli e attivi internamente. È uno stato molto difficile da descrivere.15Swami Satyananda, Kundalini Tantra, Yoga Publication Trust

Non meditare!

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Il Vijnanabhairava Tantra è forse il testo più rappresentativo dello shivaismo tantrico del Kashmir. La sua stesura in forma scritta risale al IX secolo d.C., anche se si ritiene che le origini dei suoi contenuti e delle tecniche contenute datino di qualche millennio addietro. Secondo Daniel Odier, si tratta del più antico testo sullo Yoga.

La sua cristallina essenzialità e il suo accento sull’immediatezza riecheggia – per affinità se non per influenza diretta – in tutte quelle tradizioni che hanno posto l’accento sulla realizzazione spontanea dello stato naturale della mente, come il Taoismo, il Buddhismo Chan (Zen), e diverse correnti del Buddhismo Tantrico (il Mahamudra di Tilopa, lo Dzogchen) e persino del Sufismo.

L’assunto principale del Vijnanabhairava è che non vi è alcuna differenza tra la Coscienza e l’Energia, rappresentate rispettivamente nei due amanti Shiva (ovvero Bhairava) e Shakti (Bhairavi), che al termine del dialogo ritornano abbracciati nel loro amplesso.

Mentre le visioni dualiste considerano le creazioni della Shakti come inganno da cui astrarsi con una progressiva purificazione, per il tantrismo monista la vera illusione è soltanto l’esperienza della dualità tra i due principi: dualità che si rivela un gioco in seno alla Coscienza che si specchia in sé stessa celando ora la propria essenza, ora l’aspetto fenomenico.

L’energia delle fiamme non è altro che il fuoco. Qualsiasi distinzione non è che un preludio alla via della vera conoscenza.

Vijnanabhairava Tantra, 19

Afferma Abhinavagupta:

Mi inchino davanti alla non dualità assoluta, totale identità di Paramasiva e dell’energia che prima rivela, fuori della pienezza senza desiderio, l'”Io” che si esprime a sé stesso, poi ha il desiderio di scindere il suo proprio potere in due rami: io e quello.
Allora a partire dall’essenza ultima, si dona al gioco del unmesa-nimesa: se dispiega l’universo, nasconde la sua essenza e se egli rivela la sua essenza, l’universo sparisce.16Abhinavagupta, Pratyabhijnavimarsini

E il suo discepolo Ksemaraja:

La coscienza assoluta tramite il suo movimento libero e spontaneo manifesta, mantiene e riassorbe l’universo.
La coscienza ha il potere di dispiegare la realtà di fronte al suo stesso specchio.
La molteplicità illusoria dell’universo appare attraverso la relazione del soggetto e dell’oggetto.
Il praticante la cui coscienza è contratta percepisce l’universo nella sua forma contratta.
La coscienza assoluta diviene coscienza individuale a causa di questa stessa contrazione provocata dagli oggetti della coscienza.
La coscienza individuale è la coscienza assoluta.17Ksemaraja, Pratyabhijñâhrdayam – Il Cuore Del Riconoscimento

Date queste premesse, il Vijnanabhairava espone 112 metodi di meditazione realizzabili in ogni istante. La particolarità di queste meditazioni (alcune codificate anche all’interno dell’Hatha Yoga o nel Buddhismo) è che abbracciano pressoché l’intero spettro delle possibili esperienze umane.

bhairava1
Bhairava o Kala Bhairava è l’aspetto più terrifico di Shiva, che rappresenta la distruzione di qualsiasi barriera. Spesso è rappresentato con una testa in una delle sue mani, che secondo una leggenda narrata dai Purana apparterrebbe a Bhrama, il dio della creazione.

Non essendoci dualità con il mondo esterno, anche ciò che sperimentiamo attraverso i sensi può ricondurci alla fonte prima. Le 112 tecniche del Vijnanabhairava addestrano pertanto a penetrare la dimensione dell’assoluto  in ogni momento e in qualunque esperienza: sia durante il godimento dei sensi, sia nel rinunciare all’oggetto del desiderio cogliendo la “spazialità luminosa” (termine chiave nel Vijnanabhairava) da cui esso proviene; sia nell’azione, sia nello spazio tra la risoluzione di agire e l’azione; sia nella concentrazione, sia nella dispersione mentale e nell’esperienza di sentimenti violenti e negativi.

73. Fonditi nella gioia provata durante il godimento della musica o in quello che rapisce gli altri sensi. Se tu sei solo questa gioia, accedi al divino.

E ancora:

96. Quando prendi coscienza di un desiderio, consideralo il tempo di uno schioccar di dita, poi subito abbandonalo. Allora ritorna nello spazio da dove è appena sorto.
97. Prima di desiderare, prima di sapere: «Chi sono io, dove sono?», è questa la vera natura dell’“io”. Questa è la spazialità profonda della realtà.

Non c’è quindi nessuna intenzione di correggere o riformare l’essere umano: tutto ciò che nella vita comune può portare sempre più lontano dalla contemplazione, può essere in realtà penetrato per accedere alla sostanziale identità di Coscienza ed Energia.

Lo Spandakarika, testo della scuola Spanda che esprime l’unità fondamentale in termini di fremito o vibrazione chiarisce questo concetto in maniera molto chiara:

L’energia del fremito che attraversa l’essere ordinario lo rende schiavo, mentre questa stessa energia libera colui che è sulla Via.

Vijnanabhairava Tantra, 19

Proprio per questo, una serie di equivoci accompagna spesso questo approccio, benché il fatalismo (“è tutto già qui”) e la dissolutezza (ossia la totale identificazione nei sensi) sono in realtà del tutto estranei al tantrismo. Tuttavia, questa via è talmente immediata da essere poco praticabile da chi non coltivi un atteggiamento del tutto disinteressato nei confronti della vita e del vantaggio personale: tale è la sua semplicità, tale l’estrema difficoltà di camminare sul filo di una lama.

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Il Vijnanabhairava riconosce, peraltro, che le dottrine dualiste e le vie progressive abbiano uno ruolo propedeutico, per orientare le coscienze individuali che ancora siano eccessivamente identificate nel mondo dei sensi; tutte le sottili distinzioni e progressioni tra mondo materiale e mondo spirituale sono insomma “delle ghiottonerie destinate a incitare gli aspiranti a una condotta etica e a una pratica spirituale, in modo che possano un giorno realizzare che la natura ultima di Bhairava non è separata dal loro proprio Sé”.18Vijnanabhairava Tantra, 13

Chi invece si avventuri per la via esposta dal Vijnanabhairava dev’essere in grado sia di immergersi nei piaceri sensoriali, sia di abbandonarli in qualsiasi momento con la stessa equanimità; del resto, se l’assoluto è ovunque e il praticante può riconoscere la sua stessa coscienza in qualsiasi manifestazione della realtà, la soddisfazione o non soddisfazione dei propri desideri è un concetto molto relativo.

63. Contempla le forme indivise del tuo corpo e quelle dell’intero universo come appartenenti alla stessa natura, così, il tuo essere onnipresente e la tua forma riposeranno nell’unità e raggiungerai la natura della coscienza.

Riformuliamo quindi la domanda posta molte righe più sopra: quando si medita, chi medita? Ma soprattutto: medita?

Piccola conclusione: tornare al mercato

Scalzo e col petto nudo, mi mescolo alla gente del mondo. Le mie vesti sono lacere e impolverate, e io sono sempre colmo di beatitudine. Non uso magie per prolungare la mia vita; Ora, davanti a me, gli alberi morti diventano vivi.

Kakuan, 10 Tori19Contenuto in Mumon, La porta senza porta: seguito da 10 Tori di Kakuan e da Trovare il centro, Adelphi. È degno di nota che questa edizione di due classici dello Zen includa in appendice un condensato del Vijnanabhairava.

I 10 Tori sono un classico della letteratura Zen e descrivono altrettanti stadi di consapevolezza. Il toro smarrito e cercato dal pastore è il principio eterno della vita. In realtà, il toro non è mai stato perso, ma è soltanto la confusione circa la propria natura a generare questo smarrimento. Il pastore lo rintraccerà attraverso le sue orme e lo catturerà. Una volta domato con frusta e corda, potrà ritornare a casa sul suo dorso e infine riposarsi.

La serie classica antica terminava con l’ottava tavola, che rappresenta il Vuoto, in cui non vi è più distinzione tra il pastore, il toro, la frusta e la corda.

Tuttavia, nel XIII secolo, il maestro Zen cinese Kakuan Zenji ne volle aggiungere altre due. La nona tavola rappresenta il ritorno alla fonte, in cui il protagonista contempla “le forme dell’integrazione e della disintegrazione”, conscio che “chi non è legato alla forma non ha bisogno di essere riformato”.

La decima tavola, il cui testo è citato più sopra, riguarda il ritorno nel mondo. Non vi è più alcuna opposizione allo scorrere della vita, ma proprio per questo, visitando la bettola o il mercato, chiunque il protagonista guardi “diventa illuminato”.

I 10 Tori di Kakuan
I 10 Tori di Kakuan

Abbiamo esaminato molte strade in questo articolo, e molti punti di vista differenti. La morale di questa storia è che se tutto si risolvesse nel nulla dell’ottava tavola, rimarrebbe irrisolto il mistero fondamentale: perché tanta confusione, per ritrovare ciò che non era mai stato perduto.

Per questo, qualunque realizzazione e qualunque altissimo stadio di consapevolezza si possa (o si ritenga) conseguire tramite la meditazione – che non è soltanto stare seduti o eseguire una tecnica – è del tutto inutile se non si completa il quadro tornando del mondo, che è semplicemente l’altra faccia, per quanto possa apparire deformata, dell’assoluto tanto cercato.

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Note[+]

Note
↑1 Da notare che una raffigurazione molto simile è visibile in uno dei reperti del Calderone di Gundestrup (nell’odierna Danimarca), risalente al periodo tra il II secolo a.C. e il III secolo d.C.
↑2 Daniel Odier, Meditation Techniques of the Buddhist and Taoist Monks, Bear & Co, 2003 https://www.scribd.com/read/230486661/Meditation-Techniques-of-the-Buddhist-and-Taoist-Masters
↑3 Per i rapporti tra Taoismo e Buddhismo si veda il nostro articolo Il mondo è un recipiente sacro e non si può governare
↑4 L’haiga è una forma espressiva giapponese che combina la pittura con la poesia haiku.
↑5 Il maestro zen Sengai: poesie e disegni a china, a cura di Daisetz T. Suzuki, Guanda, 1988
↑6 Tilopa, Mahamudra (Il Grande Sigillo)
↑7 Padmashambava, La liberazione attraverso la visione nuda della natura dello spirito
↑8 Khenchen Thrangu Rinpoche, An Ocean of the Ultimate Meaning: Teachings on Mahamudra
↑9 Eric Baret, Lo Yoga tantrico del Kashmir, Om Edizioni, 2016
↑10 A riguardo, si veda questo estratto ben esplicativo
↑11 Nagarjuna, A Commentary on the Awakening Mind
↑12 Jean Klein, Neither This nor That
↑13 Il Canto del Beato (Bhagavadgita), commento di Abhinavagupta, a cura di Raniero Gnoli, UTET, 1976 http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/vedanta/gnolibhg.pdf p.80
↑14 Si veda Dogen Zenji; Uchiyama Roshi Kosho, Istruzioni a un cuoco zen. Ovvero come ottenere l’illuminazione in cucina, Astrolabio
↑15 Swami Satyananda, Kundalini Tantra, Yoga Publication Trust
↑16 Abhinavagupta, Pratyabhijnavimarsini
↑17 Ksemaraja, Pratyabhijñâhrdayam – Il Cuore Del Riconoscimento
↑18 Vijnanabhairava Tantra, 13
↑19 Contenuto in Mumon, La porta senza porta: seguito da 10 Tori di Kakuan e da Trovare il centro, Adelphi. È degno di nota che questa edizione di due classici dello Zen includa in appendice un condensato del Vijnanabhairava.
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Tu non hai chakra

30 Giugno 2016 Francesco Vignotto


Aprirsi i chakra

Nella nostra epoca dove gli insegnamenti più profondi sono stati riformattati in un minestrone insipido, è difficile immaginare che le forze che si evocano abbiano la potenza di un cataclisma. Si preferisce pensare che si tratti di un brivido di piacere che rapisce i sensi e che si considera a torto come un’estasi. […]

Vimalananda si rallegra del fatto che i chakra degli esseri umani siano chiusi o ridotti, come dice Devi, ad ammassi di tensione, perché altrimenti sarebbero pazzi. Allora, assolutamente, non fatevi “aprire” i chakra, come propongono alcuni praticanti.

Daniel Odier, La kundalini nel tantra kashmiro

Probabilmente, per la salute mentale di tutti, è giunta l’ora di sbarazzarci almeno per qualche tempo dell’idea di avere dei chakra e di doverli attivare, e di scordarci di quella vecchia storia della risalita della Kundalini, l’energia cosmica che giacerebbe addormentata alla base della spina dorsale (o secondo visioni più antiche, nel cuore).

Già all’origine fonte di madornali abbagli e ricerche dell’oro, nell’ultimo secolo queste idee sono state oggetto di qualche brillante elucubrazione ma soprattutto di innumerevoli sciocchezze, adattate di volta in volta alle ultime tendenze nell’intrattenimento dei “turisti dell’esoterismo di massa”, come li ha definiti Giorgio Invernizzi.

chakra hinduism

In realtà, i centri energetici che la tradizione indiana chiama chakra, di cui abbiamo già parlato, sarebbero un modo come un altro per rappresentare i diversi strati della coscienza umana e il loro innestarsi nella corporeità. Queste rappresentazioni sono tuttavia ormai entrate nel gergo comune della sottocultura post-New Age come delle realtà concrete, oggetto di conversazione come le caratteristiche dei segni zodiacali.

Tuttavia, è un'”idea romantica” – come la definisce lo stesso Odier – che attraverso delle tecniche si possano meccanicamente attivare tali centri producendo evoluzione nella consapevolezza e, alla lunga, risvegliando la Kundalini.

Questa idea romantica ha il vantaggio di essere facilmente commerciabile, ma è estremamente miope, perché ignora che spesso le chiusure servono, oltre che a limitare, anche e soprattutto a proteggere e a preservare l’equilibrio in un organismo che funziona male per ragioni strutturali: agire artificialmente su singole localizzazioni non aumenta la consapevolezza dell’individuo ma anzi ne esacerba più spesso gli squilibri.

Non a caso i tentativi di attivare i chakra sono causa di numerose derive psichiatriche nel mondo dei cosiddetti ricercatori spirituali, i quali si procurano spesso in questo modo molti più grattacapi di quanti non sarebbero già chiamati ad affrontare. L’abstract di questa ricerca sulla “Sindrome di Kundalini”, da anni oggetto delle attenzioni degli psichiatri, potrebbe essere l’epitaffio di molte esperienze (naturalmente, può essere adattata anche a chi non è giovane e non appartiene al sesso maschile):

La crescente pratica di filosofie orientali tradizionali nella società moderna ha evidenziato le difficoltà da parte dei praticanti di integrare queste pratiche nel loro stile di vita quotidiano. Le ragioni di ciò sono spesso complesse. Uno dei fattori determinanti potrebbe essere l’insufficiente comprensione o l’acquisizione di una interpretazione superficiale delle tradizioni o filosofie orientali. Il concetto di Kundalini viene dalla filosofia yogica dell’antica India e si riferisce alla materna intelligenza dietro al risveglio yogico e alla maturazione spirituale. Descriviamo qui un caso di un giovane di sesso maschile che ha presentato un deterioramento funzionale sperimentando sintomi psicotici, che lui stesso descrive come risveglio di Kundalini.1A.   Valanciute  and  L.A.   Thampy, Physio Kundalini syndrome and mental health, in Mental Health, Religion & Culture, vol. 14, n. 8, pp. 839-842

Tutto aperto, niente cambia

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È quindi in un certo senso una grande fortuna che la maggior parte delle proposte oggi siano “un minestrone insipido” che spesso non sortisce alcun risultato concreto tranne un fugace brivido lungo la schiena al praticante e qualche banconota nelle tasche di chi le propone, e che in certe esperienze la Kundalini assomigli più a un innocuo orbettino che a un selvaggio serpente tropicale.

Eppure, ci piace pensare che il suono di una campanella, un sasso o una posizione corporea stimoli e riequilibri centri sottili che non abbiamo mai visto né sentito, anche se averne letto o sentito parlare ce ne suggerisce la suggestione, oltre al bisogno di “pulirli” e “purificarli”. Del resto, anche il mondo post-New Age risponde alle leggi del business: prima di tutto, crei la percezione del bisogno e quindi la domanda e l’indotto della ‘manutenzione’.

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Ho conosciuto molte persone, inamovibili nella propria convinzione di aver vissuto una risalita della Kundalini, “aperture” di chakra, morti mistiche o altre extra-ordinarie esperienze spirituali grazie a una sessione con qualche operatore olistico, sia esso sciamano, massaggiatore istruttore di yoga o master reiki, o una macedonia di tutte queste figure.

Eppure, per dubitare dell’eccezionalità di tali esperienze basterebbe constatare che la loro vita procede invariata, con gli stessi ritmi sonnolenti e gli stessi problemi coniugali, la stessa ipocondria, lo stesso bisogno di certezze di sempre. Spesso – a discapito dell’abuso della terminologia terapeutica – anche con più o meno gravi problemi di salute che spesso si aggravano per non aver fatto ricorso a cure adeguate. Se vi è entusiasmo assoluto all’inizio, il più piccolo richiamo alla realtà della vita fa crollare tutto il castello di carte, gettando l'”adepto” nel sentimento opposto.

Basterebbe insomma questo per constatare che, delle due l’una: o le esperienze mistiche descritte dai testi come cataclismi non sono un granché dal punto di vista della vita pratica – avvallando quindi la poco entusiasmante tesi che ‘vita’ e spirito corrano su binari separati – oppure le suddette pratiche non sono servite a molto.

Ancora più seri dubbi dovrebbero nascere considerando che i risultati promessi siano offerti a chiunque paghi la quota di partecipazione, come abbiamo già notato altrove, senza alcuna considerazione per le problematiche pregresse con cui queste pratiche possano interagire.

Da parte mia, trovo veramente poco sensato pilotare voli pindarici quando il problema fondamentale di ogni persona è di non essere in grado di sentire intere aree del proprio corpo. Paradossalmente, questi sintomi psicosomatici possono essere letti proprio come conseguenze di uno squilibrio energetico, ma l’idea di avere un chakra fuori posto o evocare potenze cosmiche è molto più spesso un’altra sovrastruttura che separa dalla capacità di percepirsi, alimentando un dualismo tra materia e spirito che aliena ancora di più dalla realtà.

Fanno eccezione, ovviamente, i casi in cui per qualche disgraziata coincidenza qualcosa sortisce veramente un effetto, ricadendo nella casistica più sopra accennata, nel qual caso suggerisco un bravo psichiatra.

Ma quali Chakra?

ajna-chakra2

E qui giungiamo all’altro corno della questione, che forse è ancora più importante. I “sette chakra” e la geografia energetica annessa fanno parte ormai ‘assodata’ della fisiologia sottile legata non solo allo yoga, ma a tutta una serie di successive pratiche e teorie nate in seno all’Oriente e all’Occidente.

Basta scegliere un sito a caso per conoscerne la collocazione, il colore, i suoni associati e tutte le altre caratteristiche di ognuno di essi. Queste informazioni sono ricavabili da numerosi manuali – a volte anche molto autorevoli – che per ragioni didattiche possono anche essere utili, ma la cui assertività sembra spesso far dimenticare che ci troviamo di fronte più a un artefatto culturale che a una descrizione anatomica con pretese di realismo.

Del resto, se per la tradizione indiana i centri energetici sono generalmente sette fiori di loto, mentre per quella cinese sono più sinteticamente tre campi di cinabro, è per la scelta di un particolare algoritmo, del simbolismo più affine alla propria sensibilità, e anche per un po’ di folklore.

Ma anche all’interno del paradigma indiano a sette centri, la dose di interpretazione rispetto alle fonti è molto maggiore di quanto non sembri, e in una certa misura dipende dalla diversità delle esperienze e delle sensibilità di cui parleremo tra breve, ma ci fa anche comprendere quanto sia problematico voler definire fenomeni energetici con gli attributi della massa.

Particolare incertezza riguarda ad esempio la localizzazione del terzo centro, Manipura Chakra, sede dell’energia vitale e della capacità di assimilazione: comunemente collocato all’altezza dell’ombelico, secondo alcuni si trova due dita al di sotto di esso, come il dan tien addominale cinese o l’hara giapponese; secondo altri ancora si trova al plesso solare, il quale però è a volte considerato un centro a parte, Surya Chakra.[irp]

Del resto non è mai chiaro se i centri o i loro punti di innesto siano da collocare sull’asse frontale del busto, sul dorso o su entrambi i lati, o se si debba considerare due serie distinte di chakra anteriori e posteriori.

Come si può comprendere, le localizzazioni energeticamente rilevanti sono molto più di sette, e non solo lungo l’asse centrale del corpo: stabilire le capitali e i capoluoghi di provincia ha senso solo rispetto a un sistema, e i sistemi sono tanti.

Traditional alternative therapy or medicine, also concept of healthy lifestyle, silhouette of man with chakras

La fonte del modello a 7 chakra oggi dominante è il Shatchakranirupana, un testo del XVI secolo reso celebre agli inizi del Novecento dalla traduzione di Arthur Avalon.2Arthur Avalon, Il Potere del Serpente, Mediterranee, Roma Secondo Eric Baret, questo testo si rifà a sua volta al Kubjikamata-tantra del X secolo, appartenente alla tradizione tantrica Kaula.

Lo stesso schema dei chakra è riprodotto anche nella Shiva Samhita, uno dei testi medievali ritenuti fondamentali dell’haṭhayoga, sebbene, come osserva Mallinson, i primissimi testi di questa tradizione non nominino né i chakra ne la Kundalini, che sarebbero stati introdotti in seguito a una sintesi più tarda.3James Mallinson, Interview with James Mallinson “Sanskrit and paragliding”

Come osserva Christopher Wallis, la divulgazione di Avalon rimane la fonte principale di tutte le trattazioni occidentali sul tema e, di ritorno, ha influito pesantemente anche sulle scuole orientali contemporanee (caso non raro, come ho evidenziato alle āsana yogiche). Tuttavia, anche nell’ambito del tantrismo indiano questo è solo uno dei tanti sistemi di chakra, dato che ogni tradizione ne aveva elaborato uno: a cinque, a sei, a sette, a dieci, a venti o anche più chakra.

Ma c’è un elemento ancora più importante che secondo Wallis sarebbe sfuggito alla traduzione di Avalon. I sistema dei chakra non descriverebbe degli “organi” della fisiologia energetica, bensì prescriverebbe delle pratiche di visualizzazione in determinate localizzazioni particolarmente sensibili, ma che varierebbero a seconda dello scopo della pratica.

I testi […] dicono ciò che si deve fare per raggiungere un obiettivo specifico per scopi mistici. Quando il sanscrito letterale recita, nel suo modo ellittico, ‘loto a quattro petali alla base del corpo’ dovremmo comprendere ‘lo yogi dovrebbe visualizzare un loto a quattro petali …’

Del resto, anche Eric Baret ammoniva:

Insegnate come una realtà da imparare a memoria per gli esami delle federazioni di yoga, il senso tradizionale di queste immagini spesso non viene capito. Quando si indica un colore che corrisponde a un centro sottile non si tratta di un colore che può essere immaginato dalla nostra memoria, ma che si riferisce piuttosto a una percezione: un uomo nero non implica l’appartenenza alla razza africana, un uomo leggero non implica l’assenza di peso, un uomo amaro non implica il sapore della pelle. Così, i colori, gli odori, le forme attribuite ai diversi recettori del corpo sottile non sono da prendere alla lettera.4Eric Baret, Yoga Tantrico: Asana e Prāṇāyāma del Kashmir

Insomma, prendere alla lettera i sette chakra (o i cinque, i tre, i dodici…) e i loro attributi sarebbe come interpretare la teoria tradizionale dei cinque elementi alla stessa stregua della tavola periodica della chimica moderna.

In conclusione

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Sistema a sei chakra del Buddhismo Tantrico tibetano.

La vera questione, tuttavia, non è tanto stabilire una verità con la filologia, bensì quanto la convinzione di avere dei chakra possa colorare e limitare l’esperienza entro schemi arbitrari.

Personalmente, ritengo che la presunzione scolastica di un percorso lineare (apertura dei chakra, apertura della sushumna, risalita della kundalini) allontani da un vero lavoro veramente ‘olistico’ che si sviluppi in ogni direzione, creando a priori l’esperienza e portando a trascurare e a considerare come periferici fenomeni altrettanto importanti ma non presenti sulle mappe, percezioni che, in quanto autentiche, non hanno nome.

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Del resto, basterebbe consultare due o tre manuali che illustrano le āsana per accorgerci che ognuno attribuisce alla stessa posizione la stimolazione o l’attivazione di centri energetici diversi. Ciò potrebbe indurre a domande imbarazzanti: dove dobbiamo dirigere l’attenzione nell’eseguire trikonāsana? È proprio vero che le posture di apertura del torace stimolano il centro del cuore, come sostengono i tutorial delle riviste di yoga? E la posizione sulla testa attiva davvero il chakra della corona?

Il fatto è che ognuna di queste informazioni, ogni cosa che pensiamo debba accadere è una contrazione della capacità di ascoltare l’āsana che prende forma.

Insomma, il rischio di questi schemi ormai scontati nello yoga di massa è di restaurare un riduzionismo cambiandone solo i termini, e allora il tanto decantato paradigma olistico è semplicemente, come si suol dire nel mondo contadino, un “cambiar sacco”, scambiare le proprie lenti colorate con lenti di altro colore.

Citando di nuovo Odier e tirando le somme:

Dimenticate i chakra, la loro percezione è completamente condizionata e illusoria, e dipende dalle vostre credenza. Se pensate che siano sette, ne sentirete sette. Se pensate che siano dodici, ne sentirete dodici. Se credete che non esistano affatto, ne sentirete mille. L’importante è che l’attenzione diventi più intensa, la capacità di concentrazione più acuta, e ciò porta alla possibilità di sentire intensamente tanto le aperture quanto le chiusure.5Daniel Odier, L’incendio del cuore: il canto tantrico del fremito, Editrice Psiche

La scelta non è mai tra un sistema teorico giusto e uno sbagliato. La scelta è sempre tra farsi raccontare cosa bisognerebbe sentire o farsi mettere nelle condizioni di sentire noi stessi. Con la prima opzione, si finisce spesso a ricercare infelicemente le indie segnate sulle mappe, senza accorgersi di camminare già in un continente sconosciuto che si ricrea a ogni istante.

In definitiva, aprirsi un chakra può essere interessante soltanto finché c’è qualche vantaggio personale da ricercare, sia esso imparare ad amare o smettere di litigare con i colleghi di lavoro. Il fatto è che nel momento stesso in cui c’è appropriazione, tutto è finito, proprio come quando si cerca di appropriarsi del silenzio mentale nella meditazione. Per guarire da questo, e ho davvero terminato, voglio concludere con un passo di Jean Klein, che aggiunge l’unico tassello senza il quale ogni sforzo – e ogni discorso – risulterebbe oltremodo farsesco:

D: Perché si verifichi la realizzazione, il chakra della corona deve aprirsi?
JK: La comprensione porta all’apertura spontanea dei centri energetici. Non interagisci con questi centri in sé stessi. Puoi, ovviamente, aprire certi centri, ma ciò non ti porterà la comprensione. È la comprensione che ti apre.
[…] Quando [il chakra della corona] è realmente aperto attraverso la comprensione, non c’è più alcuna identità con l’ego e non consideri più te stesso come una entità personale. È la consapevolezza che sei un canale, niente più. 6Jean Klein, The book of listening, Non-Duality Press, 2008-2013

Post scriptum del 2018

Credo sia interessante riportare in appendice un brano da Roots of Yoga di James Mallinson e Mark Singleton, che all’epoca della prima pubblicazione di questo articolo era ancora inedito. Il capitolo V, Yogic Body porta alla luce la grande variabilità dei modelli premoderni di corpo nelle diverse tradizioni (pur rilevando temi comuni che hanno portato a un modello più omogeneo), e le dissonanze cognitive dovute al trapianto di tali modelli nel contesto del moderno yoga globalizzato, dominato dal modello medico scientifico (per maggiori approfondimenti invito a leggere il capitolo – se non il volume – per intero):

Uno dei principali contesti concettuali per il corpo del praticante nell’odierno yoga globalizzato è il corpo empirico, anatomico, biologico e bio-medico. La predominanza del realismo medico-scientifico nel discorso popolare sullo yoga tende a oscurare o dislocare visioni più tradizionali del corpo e ha pertanto, mutatis mutandis, rimodellato la funzione percepita delle pratiche yogiche in sé. Ciò è altrettanto (e forse in special modo) vero quando i termini della fisiologia yogica vengono importati nelle moderne pratiche di yoga e sono reinterpretate entro parametri culturali ed ermeneutici lontani da quelli premoderni.

(…) Differenti tradizioni presentano differenti corpi yogici, alcuni dei quali sono complementari e comparabili, altri dei quali non lo sono (per non parlare della vasta variabilità di corpi in altre branche del pensiero e delle prassi indiane pre-moderne, come nell’Ayurveda). Ciò accade in parte perché i corpi yogici compaiono in accordo a un particolare rituale, a requisiti filosofici o dottrinali della tradizione in questione, e perché sono espressioni di tali requisiti, piuttosto che descrizioni di corpi empirici auto-evidenti comuni a tutti gli umani. In altre parole, i fini di un particolare sistema determinano il modo in cui il corpo è immaginato e utilizzato nelle pratiche yogiche. Il corpo yogico era – e continua a essere in circoli di praticanti – qualcosa di costruito o ‘scritto’ sul e nel corpo del praticante dalla tradizione stessa.7J. Mallinson, M. Singleton, Roots of Yoga, Penguin, 2017

Note[+]

Note
↑1 A.   Valanciute  and  L.A.   Thampy, Physio Kundalini syndrome and mental health, in Mental Health, Religion & Culture, vol. 14, n. 8, pp. 839-842
↑2 Arthur Avalon, Il Potere del Serpente, Mediterranee, Roma
↑3 James Mallinson, Interview with James Mallinson “Sanskrit and paragliding”
↑4 Eric Baret, Yoga Tantrico: Asana e Prāṇāyāma del Kashmir
↑5 Daniel Odier, L’incendio del cuore: il canto tantrico del fremito, Editrice Psiche
↑6 Jean Klein, The book of listening, Non-Duality Press, 2008-2013
↑7 J. Mallinson, M. Singleton, Roots of Yoga, Penguin, 2017
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Lo Zen e l’arte di spaccarsi le palle con la meditazione

31 Maggio 2016 Francesco Vignotto


Su internet circolano ormai moltissime infografiche che illustrano i benefici del meditare sotto l’aspetto fisiologico e mentale. Lo fanno spesso con qualche immagine stereotipata di tramonti o di cascate, volti sorridenti e corredandolo con qualche nuovo studio ‘scientifico’ sull’attività cerebrale dei meditanti – abbiamo visto, del resto, quanto gli studi scientifici raramente siano compresi per quello che vogliono dire e arrivino spesso di terza o quarta mano al lettore medio.

Leggo inoltre che grandi aziende hanno inserito la meditazione nelle attività per i dipendenti, in modo da ridurre i livelli di stress in azienda e aumentare la produttività. I maligni del Guardian sostengono che si tratti di un escamotage per non affrontare le reali cause dello stress sul posto di lavoro, ma tant’è.

Dopo qualche secolo di esaltazione dell’iperattività, di abusi alimentari e di sostanze eccitanti, sembra insomma che sedersi immobili e concentrarsi (o semplicemente pensare di non pensare) sia qualcosa di altrettanto cool quanto la dieta vegana e i rave salutisti, e che la sua immagine abbia perso le tinte austere con cui, ad esempio, l’ho conosciuta io.

Non rimpiango certo quelle tinte, che oggi appaiono un po’ bacchettone e scoraggianti. Tuttavia c’è qualcosa di caricaturale nell’euforia odierna, e cercherò di spiegarmi in questo articolo, conscio che la mia è solo una opinione tra le tante possibili.

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Innanzitutto, come per lo Yoga – qui inteso per comodità “merceologica” come disciplina che comprende anche la pratica psicofisica – la gente vuole sapere se la meditazione fa male o la meditazione fa bene. Il problema è che la meditazione, come lo yoga, non fa nessuna delle due cose. Anzi, non fa proprio. Per lungo tempo – e forse in senso assoluto – la meditazione si occupa di dis-fare, e mi si perdoni il terribile gioco di parole.

Anche per questo mi trovo a volte in imbarazzo nel rispondere a persone che chiedono di partecipare alle lezioni di meditazione qui a Zénon. Spesso non sanno di cosa si tratti esattamente, ma sulla base delle notizie in loro possesso ritengono che possa risolvere i loro problemi. Qualcuno si sente ansioso, qualcuno è depresso, alcuni pensano di pensare troppo (e già questo è un doppio problema), e a volte la pratica meditativa viene suggerita loro dal medico – e d’altro canto non sempre, lo dico al di sopra di ogni sospetto (qui a Zénon ci sono dei medici), la prescrizione è effettuata con cognizione di causa.

Ebbene, di fronte a queste aspettative mi sento in tutta sincerità di invitare a provare prima con lo Yoga, o con il Qi Gong o con il Tai Chi (potrebbe essere anche altro, ma mi limito a quello che può offrire la casa), specificando che queste pratiche, per noi, significano anche meditazione. Il “rodaggio” con queste pratiche che contemplano una maggior integrazione degli aspetti corporei è anzi ormai una regola fissa qui a Zénon per accedere alle ore di meditazione, anche a costo di scontentare qualcuno.

Il motivo è che, a mio parere, iniziare con una pratica volta a disciplinare la mente per mezzo della mente significa spesso cercare di costruire una casa partendo dal tetto, con risultati a volte disastrosi, anche se in altri casi, in presenza di venditori particolarmente abili e incuranti, si riesce a convincere l’acquirente che le fondamenta non servono a niente.

Tuttavia, quanto abbiamo appena detto non è del tutto esatto: nella meditazione non si utilizza solo la mente, come potrebbe sembrare, perché la meditazione richiede dei prerequisiti psicofisici, tra cui la capacità di trovarsi a proprio agio in una (relativa) immobilità corporea rimanendo al tempo stesso rilassati.

Alcune tradizioni prescrivono la postura del loto o altre posture sedute tutt’altro che naturali per noi occidentali, che devono diventare “comode e stabili” (tale è la celebre definizione yogica della postura seduta). Altre forme di meditazione dinamica richiedono una certa scioltezza fisica che è profondamente diversa da quella di un ginnasta, perché deriva non dalla semplice flessibilità muscolare ma richiedono lo stesso stato di disponibilità mentale della meditazione “statica”.

Ma anche sedendo su una sedia senza troppe formalità, il punto più difficile è gestire il naturale dinamismo della mente, di cui il dinamismo corporeo è un sottoprodotto, così come la tendenza a saltare di pensiero in pensiero: tutto ciò può costituire un ostacolo insormontabile senza un’adeguata preparazione.

Scriveva Aurobindo:

L’attività normale della nostra mente è fatta in gran parte di un’agitazione disordinata, piena di sperpero e di energie sprecate in frettolosi tentativi, di cui appena una piccolissima parte è utile alle operazioni di una volontà padrona di sé stessa (si tratta, ben inteso, di sperpero dal nostro punto di vista, non secondo quello della Natura universale in cui tutto ciò che a noi sembra spreco serve gli scopi della sua economia). L’attività del nostro corpo è fatta di questa agitazione. 1Aurobindo, La sintesi dello Yoga, Ubaldini

Proprio per questo, prosegue Aurobindo nello stesso scritto, l’haṭhayoga 2A scanso di equivoci, con questo termine intendiamo qui – e lo intendeva Aurobindo – lo Yoga che prevede l’utilizzo di tecniche psicofisiche quali le principali sono āsana e prāṇāyāma. Quasi ogni forma di Yoga oggi praticato nelle palestre, a dispetto della varietà di etichette e delle varie elaborazioni didattiche, è riconducibile a questa tradizione, anche se a volte con profonde differenze che solo in parte abbiamo visto in Lo Yoga in una posizione. può essere una solida base di partenza, perché comincia ad affrontare il problema dall’altro bandolo della matassa, quello più facile da disciplinare.

Da notare anche che Aurobindo, la cui prospettiva di Yoga Integrale è molto vasta e articolata, non era esattamente un grandissimo estimatore dell’haṭhayoga, così come della meditazione, che riteneva mezzi utili solo temporaneamente, laddove in molte tradizioni sono considerate delle vie autosufficienti che possono condurre sulle più alte vette.

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Illustrazione di Nick Lowndes per il Guardian

Mentre l’haṭhayoga permette infatti di drenare preliminarmente parecchie tensioni mentali attraverso il corpo in modo graduale e senza cadere nelle varie trappole della mente, la meditazione è molto più spesso una “cura da cavallo” che rischia di essere troppo drastica – o inutile- se affrontata da sola.

Durante la meditazione la mente si comporta infatti come un organismo sottoposto a un digiuno: ridotta o sospesa l’alimentazione (è il primo cibo disciplinato sono gli stimoli sensoriali), comincia a fare pulizia interna rigurgitando anche i contenuti sedimentati molto in profondità. Ammesso che la mente riesca a disciplinarsi in tale dieta, il rischio è che la mente finisca più spesso per ubriacarsi di sé stessa, piuttosto che smaltire la sbornia da iperattività a cui è normalmente soggetta.

Il problema non è tanto la quantità di materiale da smaltire, che paradossalmente potrebbe essere eliminato in un istante, ma la capacità di lasciare esaurire la sua produzione, dacché la mente non solo “contiene” ma “crea” in continuazione, allentando la reattività a agli stimoli (ne avevo parlato riguardo al concetto di rilassamento profondo in Dormire col demone che grida).

In questo bisogna arrivare già preparati quando ci si siede a meditare, altrimenti il gradino rischia di essere troppo alto. La mia, ripeto, è un’opinione, mentre altrettanto autorevoli fonti ritengono che basti la meditazione in sé (si veda ancora Lo Yoga in una posizione). Anche se questa contrapposizione è in ultima analisi relativa, ritengo che a favore della mia tesi ci siano parecchi argomenti troppo spesso sottovalutati.

Anche alla luce di tutto questo, la meditazione è da affrontare con cautela in caso di problematiche che turbano lo stato mentale. Anzi, a maggior ragione sconsiglio di meditare a tutti coloro che riferiscono di problematiche di stress, ansia, depressione o siano semplicemente già troppo inclini a rimuginare. Per questi ultimi, in particolare, la meditazione è l’ultima attività da intraprendere, in quanto li scollegherebbe ancora di più dalla realtà. Il che è ben diverso dal realizzare l’illusorietà del mondo fenomenico come formulato in molte tradizioni: significa anzi rimanere ancora più vittime delle illusioni della propria mente.

Insomma, la meditazione, anche e forse soprattutto nelle sue forme più “semplici” e a dispetto dell’aspetto “sexy” oggi attribuitole, può essere spesso una pratica molto frustrante. In molti casi, terribilmente noiosa. Non di rado, quando si hanno parecchi spettri nella bisaccia (che quasi mai sono noti o evidenti), può scatenare conflitti piuttosto violenti nel praticante.

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Tuttavia, l’incontro con questa noia e con questa frustrazione, anche con questi conflitti, è un segnale in un certo senso positivo ed entro certe dosi è un passaggio necessario, perché significa che la pratica sta agendo il suo effetto. Peggio è ancora quando il praticante fin dall’inizio riferisce di esperienze meravigliose e di una pace intensa, perché spesso è il segnale che nessuna purga può scalfire la costipazione. Ho imparato a dubitare seriamente della salute mentale di chi si delizia dell’olio di ricino come di una prelibatezza, ma tra le varie disfunzioni alimentari esiste oggi di sicuro anche questa. Sempre che, ovviamente, l’amara medicina non sia stata contraffatta e depotenziata, come vedremo tra poco.

In ogni caso, il problema è: come avanzare oltre questa noia e questa frustrazione? Elenco alcune possibili vie pessimistiche. In un primo caso, piuttosto frequente, è molto facile l’abbandono di una strada ritenuta troppo difficile.

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Un caso intermedio, ma non raro in alcune nicchie oggi come un tempo, è che al lassativo si sostituisca qualche sostanza psicotropa o qualche palliativo colorato (app per gli smartphone, palline fluorescenti, santini del guru e suggestioni emotive di varia natura) nell’illusione di tagliare per vie abbreviate.

Purtroppo, come ripeto sempre in questi casi, un somaro in LSD a cui appare lo Spirito Santo in persona rimane pur sempre un somaro, posto che il più delle volte lo Spirito Santo è un’ulteriore proiezione della sua mente più intossicata del consueto. Non si può pensare che l’esperienza abbia efficacia a prescindere dal livello di coscienza di chi la sperimenta, il che lo si conquista con un durissimo lavoro.

Ma spesso anche chi persevera non se la passa molto meglio. Abbiamo visto infatti generazioni di meditanti continuare la pratica senza grandi risultati, nella rassegnazione a rompersi discretamente le scatole, osservando i puntini comparire e scomparire all’orizzonte del loro personale Deserto dei Tartari, credendo di scorgervi ogni giorno i segnali di una svolta che non arriverà mai.

In quest’ultimo caso, la meditazione diventa come le famose cinque razioni di frutta e verdura da mangiare ogni giorno o la messa per il cristiano svogliato. E spesso questa noia è percepita quale giusta dose di sofferenza da accollarsi per salvarsi l’anima (o, nel gergo, per bruciare un po’ di karma), siccome ogni cosa che salvi l’anima è dolorosa (così almeno ci hanno detto).

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Non manca chi suggerisce di aiutare la meditazione tramite l’utilizzo di cannabis, per “aiutare ad allentare le resistenze”.

Il primo e l’ultimo caso sono tipici – anche se non sempre –  di quel particolare profilo di praticante che si dedica alla sola meditazione “seduta” ritenendo che le magagne del proprio corpo possano essere separate da quelle della propria mente (a onor del vero un giorno parleremo anche dei praticanti “esperti” di yoga che dopo molti anni non riescono a tollerare anche solo pochi istanti di inattività: è l’altro lato di una medaglia che si tenta sempre di scindere).

Insomma, la meditazione molto spesso e per molto tempo sembra accumulare sul tavolo i problemi, invece di risolverli.

Ma siamo sicuri di aver capito cosa sia la meditazione? A dire il vero, più passano gli anni e più confesso di avere idee felicemente sempre meno definite e sempre più sfocate sulla questione. È anche per questo che scrivere questo articolo mi ha creato parecchio imbarazzo, in quanto per necessità espressiva so di aver usato alcuni stereotipi e dando parecchio per scontato.

Le persone che si informano su un corso di meditazione vogliono sapere quale tipo di meditazione si faccia, se è “statica” o “dinamica”, sciamanica, cristiana, buddhista, laica o trascendentale, insomma vogliono sapere che cosa aspettarsi da quell’oretta alla settimana e di poterlo inquadrare in base alle etichette correnti. Il che, in un certo senso, è del tutto comprensibile dal punto di vista di un acquirente che poco si fida della scatola chiusa, e in molti casi fa bene.

Ma qui si rivela quanto la meditazione poco si concili con le categorie merceologiche. Il più grande equivoco è infatti dare per scontato che la meditazione sia quel qualcosa che “si fa” quando si “decide” di meditare, il che, come vedremo nel seguito di questo articolo, non è per nulla scontato, dacché pensare di fare e di decidere, o connotare con qualche colorante folkloristico significa rimanere ancora intrappolati ben prima del nodo da sciogliere.

Moltissime tradizioni che hanno tenuto in gran conto la meditazione, del resto, hanno anche detto che meditare è inutile. Non soltanto nel senso che non dev’esserci aspettativa di vantaggio alcuno – il che poco di concilia con la meditazione per aumentare la produttività, o anche per migliorare la concentrazione o ridurre lo stress. Molte tradizioni affermano infatti da un lato che meditare è la via, dall’altro che meditare è controproducente.

Ma allora cos’è la meditazione e perché tutte queste contraddizioni?  Per amor di sintesi, e per non aggiungere per ora troppa carne al fuoco, affronteremo l’argomento nel prossimo articolo.

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Note
↑1 Aurobindo, La sintesi dello Yoga, Ubaldini
↑2 A scanso di equivoci, con questo termine intendiamo qui – e lo intendeva Aurobindo – lo Yoga che prevede l’utilizzo di tecniche psicofisiche quali le principali sono āsana e prāṇāyāma. Quasi ogni forma di Yoga oggi praticato nelle palestre, a dispetto della varietà di etichette e delle varie elaborazioni didattiche, è riconducibile a questa tradizione, anche se a volte con profonde differenze che solo in parte abbiamo visto in Lo Yoga in una posizione.
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Pranayama: vita, respiro, morte e miracoli

4 Dicembre 2014 Francesco Vignotto


Vita e morte, in un soffio

Non avevo realmente idea di cosa fosse il respiro, fino alla morte di mio padre. Praticavo Yoga da alcuni anni, e sicuramente quando mi dicevano di inspirare e di espirare ero convinto di farlo. Ma quel giorno, o meglio in quell’istante, mi accorsi che non ne sapevo in realtà nulla.

Mio padre non morì dopo una lunga malattia debilitante, ma per infarto, nel giro di pochi secondi. Del suo trapasso ricordo solo un intenso e lungo espiro, nel quale tutto si risolse. Qualunque resistenza sarebbe stata inutile al suo passaggio: quel suono, che partiva dalle viscere, tagliò come un rasoio tutti nodi che incontrava. E come da uno strato di sogno si è svegliati a un altro, un attimo prima il corpo era vivo, un attimo dopo era morto.

Al di là dell’estremo shock della circostanza e di tutte le implicazioni personali della vicenda, credo che mio padre – che non praticò mai pratiche respiratorie in vita sua – mi abbia dato al momento della sua morte un insegnamento che difficilmente si può cogliere nei testi.

Numerose tradizioni a Oriente e Occidente parlano della vita – e, se vogliamo – dell’anima insufflata dal respiro divino. Le parole greche pneuma e psiche, così come il sanscrito Atman (il Sé) nascondono nell’etimo il doppio significato di respiro, anima e spirito.
Il primo respiro ci accompagna alla nascita e l’ultimo alla morte. Sarebbe però errato considerare soltanto gli estremi: l’esperienza dello spirare di mio padre innescò la consapevolezza l’intera vita è una pulsazione tra questi due poli, tra affermazione e negazione, a ogni istante e a ogni inspiro ed espiro, e come nel Taijitu taoista lo yin è contenuto il seme dello yang e viceversa.

Nella tradizione yogica indiana, di cui parlerà questo articolo, la pulsazione del respiro è solo l’indizio di una dinamica molto più vasta, sia all’interno del singolo individuo, sia, del fenomeno della vita e dell’energia nell’universo, che qui è chiamata Prana, ossia il legame, l’equazione ritmica tra la materia e la coscienza.

In questo articolo parlerò anche di pranayama, ossia l’insieme di pratiche yogiche dedicate specificamente al controllo del prana, ma non mi addentrerò nella descrizione di particolari tecniche di pranayama: sia perché aggiungerebbe troppa carne al fuoco a un articolo già corposo, sia perché lo scopo è qui di approfondire i principi generali.

Prima di entrare nel vivo, un avvertenza e una preghiera: quanto segue è naturalmente filtrato attraverso un’esperienza individuale – piccola o grande che sia – e anche i testi citati sono filtrati attraverso tutti i limiti di quell’esperienza. Non ha la pretesa quindi di essere esaustiva sull’argomento, né di fornire l’interpretazione autentica di una tradizione che vanta diverse migliaia di anni e altrettante filiazioni e visioni differenti.

In quanto tale, qualunque contributo che ne condivida lo stesso spirito (leggi: senza la presunzione di possedere la verità ultima) sarà accolto a braccia aperte.

Prana, respiro, energia

Invero tutti gli esseri nel prana stesso vanno a riassorbirsi e dal prana emergono

Chandogya Upanishad, I, 11, 5
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Quando si parla di respiro nello Yoga e nella tradizione indiana, è di fatto impossibile scinderlo dal molto più vasto aspetto energetico vitale e universale a cui esso è collegato.

Per questo, il termine Prana ricorre con diversi significati, dei quali uno dei più particolari è il processo respiratorio propriamente detto.

Nella sua accezione più generale, invece, il Prana è l’energia, il principio dinamico, presente illimitatamente e ovunque nello spazio e che sostiene la vita nell’universo. È errato tuttavia ritenere che il Prana sia relativo alla sola vita organica, o alla vita individuale, ma occorre precisare che il concetto di ‘vita’ è qui onnicomprensivo:

Dal punto di vista yogico, l’intero cosmo è vivo, palpitante di prana.
Il Prana è sempre presente in ogni aspetto della creazione. Il prana all’interno di ogni oggetto creato dona esistenza materiale e forma, che si tratti di un pianeta, un asteroide, un filo d’erba o un albero. Se non ci fosse il prana, non ci sarebbe vita. Se il prana si ritraesse dall’universo, ci sarebbero la disintegrazione totale. Tutti gli esseri, viventi o non viventi, esistono a causa del prana. Ogni manifestazione nella creazione fa parte di una matrice infinita di particelle di energia, disposte in diverse densità, combinazioni e variazioni. Il principio universale del prana può essere in una fase statica o dinamica, ma è dietro a ogni esistenza su ogni piano dell’essere dal più alto al più basso. 1Swami Niranjanananda Saraswati, Prana and Pranayama, Yoga Publications Trust, 2009, p.9

In altre parole, il piano fisico sarebbe lo stato più ‘denso’ o statico di un flusso energetico in costante movimento. Interessante a questo proposito l’etimologia della parola prana secondo Gitananda Giri:

La parola prana, a sua volta, può essere scomposta in due parti; pra che sta per “esistere indipendentemente” o “avere un’esistenza precedente”, e ana che è l’abbreviazione di anna, (anu) una cellula. Un atomo o una molecola si chiamano anu di cui tutta la vita è costituita.
Prana esprime quindi l’idea di ciò che esisteva prima della nascita della vita atomica o cellulare. 2Swami Gitananda Giri, La voce del re serpente: saggi sull’Astanga Yoga di Patanjali, Ed. Laksmi, p.86

Socrates Geens: Secrets of the five bodies
Socrates Geens: Secrets of the five bodies

Al Prana cosmico, corrisponde un Prana individuale. La sopravvivenza del corpo fisico umano (annamaya kosha, “corpo fatto di cibo”) dipende direttamente da quella del corpo pranico (pranamaya kosha), alimentato sia dall’aria che respiriamo, ma anche dagli elementi vitali che assorbiamo attraverso il cibo.

Il prana, inoltre, è il legame tra il corpo fisico e gli strati ulteriormente sottili del complesso umano: il corpo mentale (manomaya kosha), il corpo intuitivo (vijnanamaya kosha) e il corpo di beatitudine (anandamaya kosha). Il “contenuto” ultimo di questi involucri è l’Atman o Purusha, il Sé, l’essenza spirituale o pura coscienza individuale che non sempre (non secondo tutte le visioni) è distinta (o ha senso distinguere) da quella universale.

L’uomo è dunque un continuum di corpo fisico, energia, mente, subconscio e inconscio che interagiscono grazie al prana. Agire su questo link energetico per far emergere in ultima istanza il “contenuto” di pura coscienza è lo scopo delle tecniche yogiche in generale, ma soprattutto di quelle che rientrano sotto il nome di Pranayama.

Ma che cos’è il Pranayama?

Il pranayama è un complesso di tecniche yogiche che utilizzano principalmente il respiro per regolare i processi energetici e mentali conducendoli a uno stato di quiete. Nello Yoga vengono normalmente introdotte dopo aver padroneggiato le posture (asana).

La parola pranayama è interpretabile secondo due significati etimologici: prana-ayama e prana-yama. Ayama significa espandere, mentre yama significa controllare, ritenere il respiro.

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Come vedremo, entrambe le interpretazioni sono corrette e, nonostante l’apparente paradosso, conciliabili: attraverso l’espansione del prana si arriva al controllo dei soffi vitali e quindi a ridurre il loro dinamismo fino all’immobilità, così come la pratica delle asana ha l’obiettivo dell’immobilità del corpo; e così come asana e pranayama convergono verso l’immobilità della mente, per condurre a esperire lo stato di pura coscienza.

Ma che cos’è, in pratica, il pranayama? Proviamo a formulare una sintesi dal punto di vista pratico:

  1. Nella fase propedeutica, il pranayama comprende un serie di tecniche per rendere il praticante consapevole della respirazione naturale, per poi rendere gradualmente più ampia la respirazione, coinvolgendo l’apparato muscolo-scheletrico (in particolar modo la colonna vertebrale, la gabbia toracica, la muscolatura relativa e il diaframma) e favorendo il pieno utilizzo dei polmoni; questa fase non è ancora definibile propriamente come pranayama, ma svolge un’importante funzione di igiene respiratoria, oltre ad armonizzare i processi psicofisici e a fornire la base tecnica per le fasi successive.
  2. Il pranayama propriamente detto consiste nella regolazione delle fasi di inspiro ed espiro e delle fasi di ritenzione (a polmoni pieni e a polmoni vuoti), secondo diversi ritmi e combinazioni. In questa fase l’attenzione si sposta gradualmente dalla respirazione ‘fisica’ a quella più puramente pranica: lo scopo principale è la pulizia dei canali energetici e degli ostacoli psichici alla circolazione del Prana.
  3. Il naturale sbocco del pranayama è l’interiorizzazione: il respiro diviene sempre più sottile, fino a divenire quasi impercettibile o cessare completamente. È la fase di ritenzione spontanea, che conduce alle fasi dello Yoga descritte da Patanjali come: ritrazione dei sensi (Pratyahara), concentrazione (Dharana), meditazione (Dhyana) e riassorbimento (Samadhi).

Come vedremo, la respirazione è connessa in modo molto complesso al funzionamento del sistema nervoso autonomo e ai processi psichici. Proprio per questo ogni testo dedicato al pranayama avverte che le tecniche devono essere apprese sotto la sorveglianza di una guida esperta, in quanto l’errata applicazione può provocare seri disturbi.

Ma dopo questa sintesi sommaria, scendiamo nel dettaglio e vediamo come il pranayama agisce, cogliendo l’occasione per approfondire il funzionamento del corpo energetico umano.

I cinque soffi vitali o Prana Vayu

elettrocardiogramma

Nel corpo pranico, il Prana si differenzia in cinque principali soffi o venti vitali, i Prana Vayu, connessi tra loro in modo molto complesso. 3Per la precisione, esisterebbero anche altri 5 soffi sussidiari, di cui qui non parleremo per non rendere il discorso troppo complesso. I Prana Vayu sono da intendere come qualità diverse di un unico Prana, e i punti di localizzazione sono da interpretare come i centri di gravità di energie che in realtà influiscono sull’intero organismo:

Il corpo pranico: Prana, Apana, Samana, Udana e Vyana (quest'ultimo pervade l'intero corpo)
Il corpo pranico: Prana, Apana, Samana, Udana e Vyana (quest’ultimo pervade l’intero corpo)
  • Prana (qui da intendersi come soffio particolare e da non confondere con il Prana corsmico): è situato nel torace, è correlato all’inspiro e più in generale all’assorbimento del Prana non solo dall’aria respirata, ma anche dal cibo e dall’atmosfera.
  • Apana: ha sede nella regione pelvica, governa organi escretori e riproduttivi; è correlato all’espiro e in generale all’escrezione e alla sessualità.
  • Samana: situato nella regione dell’ombelico, è il soffio responsabile della digestione del cibo sotto ogni forma, compresi i pensieri e le emozioni, alimentando quindi Udana.
  • Udana: situato nel capo e negli arti, è il soffio che porta ‘in alto’ il prodotto di Samana, regolando il funzionamento degli organi sensoriali e degli organi dell’azione, alimentando Vyana.
  • Vyana: circola nell’intero corpo, ed è il soffio responsabile della distribuzione dell’energia allo stato più raffinato.

Prana e Apana, la pulsazione vitale

Prana e Apana sono l’input e l’output dell’essere umano e controllano le due funzioni macroscopiche del ciclo energetico e determinano il flusso degli altri tre Prana Vayu. Se Prana e Apana si arrestassero, tutti gli altri soffi vitali cesserebbero di conseguenza e moriremmo nel giro di pochi minuti.

In relazione alla respirazione umana, Prana viene normalmente utilizzato come sinonimo di inspiro, e Apana come sinonimo di espiro.

In altri termini, Apana è l’energia che ci mette in contatto con il mondo fisico, permettendoci di interagire con esso tramite il corpo, di eliminare la materia densa ma anche di generare nuova vita; Prana invece è la spinta ascensionale verso l’energia pranica e ne stimola l’assimilazione: Apana e Prana sono Yin e Yang, espressi nei termini della Tradizione Cinese: vuoto e pieno che contengono l’uno il seme dell’altro, così come il vuoto creato dalla contrazione del diaframma al termine dell’espiro genera l’inspiro. Il loro ritmico alternarsi è la pulsazione di ogni essere vivente, anche se non associato alla respirazione aerobica polmonare.

prana-apana
Prana e Apana

Nelle Upanishad si afferma tuttavia che la parte interiore dell’essere umano, costantemente spinta da queste due forze pulsanti in direzioni opposte, non possa mai emergere. 

La Dhyana Bindu Upanishad descrive l’anima come un uccello che, spiccando continuamente il volo spinto da Prana, viene regolarmente tirato in basso dalla corda Apana, per un principio di azione e reazione, come un pallone che salta in alto proprio perché è stato percosso verso il basso, perché “Prana sempre si trae da Apana”. 4
“Lo Jiva [l’anima individuale] che si trova sotto l’influenza di Prana e Apana va su e giù.
Lo Jiva a causa del suo muoversi continuo sul percorso destro e sinistro, non è visibile. Proprio come una palla percossa (sulla terra) salta in alto, così Jiva sempre lanciato da Prana e Apana non è mai a riposo.
Conosce lo Yoga chi sa che Prana sempre si trae da Apana e Apana  trae da Prana, come un uccello (allontanandosi e tuttavia non liberandosi) dalla stringa (ad cui è legato).”
Dhyana Bindu Upanishad, 58-61a

Su questo passo vedi anche Swami Muktibodhananda, Swara Yoga: The Tantric Science of Brain Breathing, Yoga Publications Trust, p. 43-45.

In altre parole, questa pulsazione vitale è ambivalente: da un lato ci mantiene in vita, ma al tempo stesso ci comprime in un circolo chiuso, che non permette evoluzione. Avendo penetrato questa dinamica, e nella consapevolezza che non si può ‘tagliare la corda’ di Apana senza recidere anche Prana, lo Yoga utilizza queste due forze normalmente divergenti facendole convergere e generando così un surplus di energia.

Samana, il fuoco; la mente, il sacrificante

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Per questo occorre utilizzare un principio trasmutatore, una terza forza: questa forza è Samana, il fuoco. Come abbiamo visto, Samana è il soffio che ‘digerisce’: aria, cibo, pensieri, emozioni.

Nel Pranayama, l’azione di Samana viene potenziata regolando consapevolmente inspiro ed espiro e invertendo quindi la loro direzione, portando Prana in basso e Apana in alto, ed esercitando la terza fase del respiro, cioè la ritenzione, aumentando quindi il tempo di assimilazione di Prana e Apana.5Swami Muktibodhananda. Swara Yoga: The Tantric Science of Brian Breathing, Yoga Publications Trust, p. 44 Quest’operazione è spesso descritta nei termini del rito sacrificale vedico:

Altri offrono come sacrificio il respiro esalante [Apana] nell’inalante [Prana], e l’inalante nell’espirante, controllando il corso dei respiri esalanti ed inalanti [pranapana-gati], completamente assorbiti nel dominio del respiro.

Bhagavad Gita, IV, 29

Quello che reca equamente queste due oblazioni, che sono l’inspirazione [Prana] e l’espirazione [Apana] è il samana. La mente, in verità, è il sacrificante.

Prasna Upanishad, IV, 4
Pranayama

Oltre a Prana, Apana e Samana, i due passi tratti dalla Bhagavad Gita e dalla Prasna Upanishad aggiungono un elemento in più: nel pranayama è infatti richiesta la presenza del sacrificante, ossia la mente. Non si tratta però di un’operazione meramente concettuale e dobbiamo prescindere dall’accezione di sacrificio come rinuncia o immolazione. Il sacrificio (da sacer facere, letteralmente “rendere sacro”) è, in ultima analisi, compiere consapevolmente ciò che in condizioni normali viene compiuto sotto la pressione degli impulsi.

Quando l’oggetto del sacrificio è il respiro, ciò assume un significato particolare, perché questa è l‘unica funzione autonoma che possiamo alterare volontariamente, a differenza della  del battito cardiaco, della circolazione del sangue o della digestione, che tuttavia dal respiro sono fortemente influenzati.

Il prana, come abbiamo visto, è il nesso tra mente conscia, funzioni autonome, corpo e tutti gli altri ‘strati’ dell’essere umano. Ciò significa anche che regolando volontariamente il respiro possiamo regolare da un lato tutti gli altri processi vegetativi; dall’altro, l’attività della mente stessa.

Recita l’Hata-yoga Pradipika:

Colui che ha controllato il respiro, allo stesso tempo ha controllato la mente. E colui che ha controllato la mente, ha controllato anche il respiro.

Hata-Yoga Pradipika IV, 21

Finché il respiro è continuo, la mente rimane instabile, quando (esso) si arresta, (la mente) diviene calma e lo Yoghi raggiunge l’immobilità assoluta. Per questo si deve ritenere il respiro.

Hata-yoga Pradipika, II, 2

Come abbiamo già evidenziato, la ritenzione spontanea è il fine ultimo delle tecniche di pranayama: il respiro si riduce al minimo, o cessa completamente, ottenendo  il completo controllo sul corpo e l’immobilità della mente, permettendo così di percepire gli ‘strati’ più sottili che in condizioni normali sono offuscati dall’attività corporea e da quella mentale. 6

Significativi sono i pochi sutra dedicati da Patanjali al pranayama:


Realizzato questo [la padronanza del corpo con le asana] si ha il pranayama che è controllo e cessazione del movimento d’inspirazione e d’espirazione.
Questa regolazione della respirazione durante le sue fasi di espirazione, inspirazione e ritenzione, è inoltre soggetta a condizioni di tempo, luogo e numero, ognuna di queste potendo essere lunga o breve.
Vi è una tecnica particolare per regolare la respirazione che è in rapporto sia con quanto detto nel sutra precedente, sia con la sfera interiore del respiro.
Per mezzo di questa regolazione della respirazione l’offuscamento della mente, che è il normale risultato dell’influenza del corpo, è eliminato.
E così la mente si trova pronta per gli atti consapevoli.
Yoga Sutra, II, 49-53

Secondo l’Hata-yoga Pradipika, inoltre, la ritenzione spontanea è il vero pranayama:

Il pranayama è diviso in tre parti: rechaka (espirazione), puraka (inspirazione), e kumbhaka (ritenzione). Si ritiene che vi siano due tipi di kumbhaka: sahita [accompagnato da rechaka e puraka] e kevala [solo, senza rechaka né puraka].
Si deve praticare sahita-kumbhaka, finché non si ottiene il successo in kevala-kumbhaka, che è la semplice ritenzione del respiro, senza recaka né puraka.
Questo kumbhaka, puro, isolato, rappresenta il vero pranayama.
(Yoga Sutra, II, 49-53)

Energia e coscienza

Oltre al dualismo di Prana e Apana, c’è un’altra coppia di opposti che lo Yoga mira a unificare: quella tra l’energia vitale e l’energia mentale, due espressioni della stessa energia a livelli vibratori differenti, simboleggiati da Sole e Luna.

Per comprendere quali sono i termini di questa coppia di opposti dobbiamo fare però almeno un accenno agli ‘organi’ che regolano e distribuiscono il Prana  all’interno del corpo energetico umano.

Nadi e chakra

Le 72.000 nadi
Le nadi: come si può intuire, la questione è molto complessa…

Secondo la fisiologia indiana, il prana scorre attraverso una rete fittissima di canali, detti nadi, e il suo flusso è regolato da diverse centraline, ovvero i chakra, che funzionano da veri e propri ‘server’ nella trasmissione dell’energia.  7
“La generazione e la distribuzione del prana nell’organismo umano possono essere paragonate a quelle dell’energia elettrica. L’energia dell’acqua che cade o del vapore che ascende fa ruotare le turbine entro un campo magnetico per generare l’elettricità. L’elettricità viene poi immagazzinata negli accumulatori, e l’energia viene resa più o meno intensa mediante i trasformatori che regolano il voltaggio o la corrente. Quindi viene trasmessa lungo i cavi per illuminare le città o far funzionare i macchinari. Il prana è come l’acqua che cade o il vapore che ascende. L’area toracica è il campo magnetico. I processi della respirazione, inalazione, esalazione e ritenzione del respiro funzionano come le turbine, mentre i chakra rappresentano gli accumulatori e i trasformatori. L’energia (ojas) generata dal prana è come l’elettricità. Viene resa più o meno intensa dai chakra, e distribuita in tutto l’organismo lungo nadi, dhamani e sira, che sono i cavi di trasmissione. Se l’energia generata non viene debitamente regolata, distrugge il macchinario e l’equipaggiamento. Lo stesso avviene con il prana e l’ojas, perché essi possono distruggere il corpo e la mente del sadhaka.”
B.K.S Iyengar, Teorie e tecniche del pranayama, ed. Mediterranee, p.67

Senza voler entrare in una digressione che ci porterebbe lontano, ci limiteremo a osservare che sia per le nadi sia per i chakra si è tentato di individuare un corrispettivo fisiologico nel sistema circolatorio, nelle ghiandole endocrine e nei plessi nervosi.

Tuttavia, sebbene nadi e chakra trovino spesso delle corrispondenze nel corpo, ritengo che sia un errore voler identificare l’organo fisico con la sua controparte energetica: sarebbe come confondere la mente con la fisiologia del cervello, o, come abbiamo visto più sopra, il ciclo dell’ossigeno nella respirazione grossolana con la circolazione del prana.

Gli organi fisici sono quindi da intendere come i punti di interconnessione, o meglio le interfacce tra le attività fisiologiche e le attività energetiche e psichiche. Queste ultime, peraltro, sono allo stato ordinario espresse perlopiù solo in potenza. Comunque sia, come tutta la geografia sottile, nulla è da prendere  schematicamente alla lettera.

Socrates Geens: Sacred Mirror
Socrates Geens: Sacred Mirror

Si considerano comunemente sette chakra principali, anche se spesso si fa riferimento a numerosi centri secondari, disposti tra il perineo (Muladhara chakra) e la sommità della testa (Sahasrara chakra, che non sempre però è considerato alla stregua degli altri chakra). Queste due estremità rappresentano i poli attraverso cui si sviluppa l’esperienza yogica: l’Energia o Spazio (Shakti) e la Coscienza o Tempo (Shiva) che al culmine di tale esperienza realizzano l’originaria identità.

Tra di essi, vi è il centro sessuale (Svadhisthana), il centro vitale e dinamico (Manipura, nella regione dell’ombelico), il centro cardiaco, sede delle emozioni più raffinate e incondizionate (Anhata), il centro della gola (Vishuddhi) e quello mentale (Ajna, o “centro di controllo” situato in corrispondenza dell’epifisi).

Le nadi, infine, sono state quantificate in diverse decine di migliaia (72.000 o addirittura 350.000 secondo la Shiva Samhita), tuttavia lo Yoga si occupa principalmente delle tre nadi più importanti, che regolano il funzionamento di tutte le altre. In realtà, delle tre soltanto due (Ida e Pingala) sono normalmente attive, mentre la terza (Sushumna) è allo stato normale solo una potenzialità.

Ha-tha: Ida e Pingala, sole e luna

Ida e Pingala scorrono rispettivamente a sinistra e a destra della colonna vertebrale. Originano entrambe nella regione pelvica (sede del chakra mooladhara, centro dell’energia fisica), e terminano nell’Ajna chakra, nel centro del capo. Tra questi due estremi, a voler essere precisi, i tragitti di Ida e Pingala non sono lineari (come indicato simbolicamente dell’immagine qui a fianco) ma formano due sinusoidi che attraversano ogni centro, come in questa figura:

idapingala

Con Ida e Pingala incontriamo un’altra polarità, un’altra coppia di Yin e Yang. Se il dualismo Prana-Apana rappresentano energeticamente alto e basso, cioè la spinta verso la materia (escrezione) e quella verso l’energia più raffinata (assorbimento di Prana), quello di Ida e Pingala rappresenta il polo energetico negativo e quello positivo dell’essere umano, tra energia mentale ed energia vitale. Nell’essere umano, questa polarità si riflette sia nella lateralità corporea, sia a livello di sistema nervoso centrale, sia di quello periferico:

  • Ida è il polo ‘negativo’, regolato dalla respirazione della narice sinistra. È correlata all’attività mentale, emotiva e ricettiva, orientando l’attenzione verso l’interno. Corrisponde al sistema nervoso parasimpatico e all’attività dell’emisfero destro dell’encefalo, che controlla il lato sinistro del corpo.
  • Pingala è il polo ‘positivo’, regolato dalla respirazione nella narice destra. È correlata all’energia vitale fisica e al pensiero lineare, orientando l’attenzione verso il mondo esterno. Corrisponde al sistema nervoso simpatico e all’attività dell’emisfero sinistro del cervello, che controlla il lato destro del corpo.8Swami Niranjanananda Saraswati, Prana and Pranayama, Bihar School of Yoga, p.40-49
La polarità energetica rappresentata in un dipinto alchemico occidentale
La polarità energetica rappresentata in un dipinto alchemico occidentale

In condizioni normali, l’attività delle due narici non è mai omogenea, ma vi è sempre la predominanza di una narice sull’altra, secondo un’alternanza ciclica: nelle ore notturne, ad esempio, Ida è predominante, mentre Pingala domina durante il giorno, ma il discorso è molto complesso e sarà meglio affrontarlo in un articolo dedicato.

Nondimeno, questi due canali, allo stato ‘normale’ dell’essere umano, presentano quasi sempre delle impurità o delle ostruzioni che non solo provocano squilibri nell’intero complesso, e rendono inoltre impossibile attivare la sintesi.

Per questo lo scopo del pranayama, oltre a unire Prana e Apana, è di ‘pulire’ e di equilibrare i due canali laterali. Il termine stesso Hata Yoga indica la fusione di questi due principi, Ha (Sole, Pingala) e Tha (Luna, Ida).

La tecnica più rappresentativa di questa operazione è nadi sodhana, la respirazione a narici alternate, dove si inspira ciclicamente da una narice e si espira da quella opposta, e viceversa, inserendo poi le fasi di ritenzione.

Questa operazione attiva un terzo canale, ovvero Sushumna.

Sushumna o ‘il sentiero di mezzo’

Socrates Geens: Samadhi
Socrates Geens: Samadhi

Laddove Ida e Pingala rappresentano la polarità  energetica, Sushumna è il “sentiero di mezzo”, che scorre lungo la colonna vertebrale. Sushumna è il canale neutro.

La sua attivazione tramite le pratiche yogiche  di sushumna avviene quando entrambe le narici sono ugualmente attive e il flusso di Ida e Pingala è stato equalizzato. In condizioni normali, ciò avviene solo per pochi secondi nel momento di interscambio tra Ida e Pingala.

Lo Yoga mira a rendere stabile questo equilibrio. Tutte le tecniche dello Hata Yoga mirano a questo obiettivo finale. La stessa fusione di Prana in Apana, descritta più sopra, è finalizzata all’apertura di Sushumna.

Con l’attivazione del terzo canale, si sperimenta uno stato in cui entrambi gli emisferi si attivano contemporaneamente. L’energia vitale (prana shakti) e quella mentale (manas shakti) si bilanciano e si fondono. Ancora una volta, il dinamismo generato dalla dualità viene riassorbito in una sintesi superiore conducendo a stati di coscienza non ordinari:

Il Sole e la Luna sono i fattori del tempo, che è formato dal giorno e dalla notte. Sushumna divora il tempo: questo è considerato un segreto.

Hata-yoga Pradipika, IV, 17

Qui, lo Hata-Yoga Pradipika descrive due fenomeni, che in realtà sono due aspetti dell’attivazione di Sushumna: il riassorbimento (laya) dell’energia individuale e della mente individuale nella mente e nell’energia universali; e, dall’altro lato, il risveglio dell’energia cosmica all’interno dell’essere umano – la famosa Kundalini, il Mahaprana (prana cosmico) che giace dormiente alla base della colonna vertebrale: è l’unione del centro sacrale e di quello della sommità del capo, l’accoppiamento di Shakti e Shiva.

Ma qui siamo giunti molto lontano nel nostro percorso…

Miracoli

Miracoli termodinamici… eventi così improbabili da essere impossibili, come l’ossigeno che si trasforma spontaneamente in oro.

Alan Moore, Watchmen
La pratica del Tummo tra gli yogin tibetani
La pratica del Tummo tra gli yogin tibetani

Cosa sono dunque i miracoli? Nei testi antichi spesso si descrivono le siddhi, i poteri miracolosi che derivano dalle pratiche yogiche, come l’ubiquità o la facoltà di divenire infinitamente piccoli o infinitamente grandi.

Anche la pratica del pranayama, da sola, pare dispensi una buona dose di poteri extra-ordinari. Tuttavia, normalmente le siddhi vengono enumerate proprio per avvertire il praticante di non lasciarsi distrarre dai fuochi d’artificio.

Il vero miracolo, la magia operata dallo yoga è invece un’altra, e il pranayama ne è un esempio: è il procedimento tipicamente  tantrico attraverso cui una condizione limitante viene superata utilizzando i termini stessi di quella condizione, facendo lavorare insieme due forze normalmente opposte e generando un’enorme surplus di energia.

Senza comprendere questo, ripetere che Yoga significa unione (con il divino) rischia di rimanere lettera morta, una vuota formula-contenitore che può essere riempita da tutto e niente.

Ciò che spero sia emerso con questo articolo, è che l’unione significa conciliare il dualismo in un essere umano fondamentalmente scisso, in continuo movimento nel ciclo tra opposti che non permettono alle componenti più profonde di emergere e di risolversi, né di evolvere.

yoga exhibit2

Al di là delle esperienze descritte nei testi – inaccessibili per i più, e sulle quali si è molto fantasticato – ritengo che lo Yoga attraverso il pranayama offra uno strumento potenzialmente dirompente per penetrare e risolvere i processi fisici, psichici e mentali aggirando la trappola dell’intellettualizzazione da un lato, e della riduzione a puro esercizio fisico dall’altro.

È inoltre un veicolo perfetto per giungere stati di meditazione, portando alla quiete della mente attraverso la regolazione del Prana, laddove le tecniche di meditazione propriamente dette agiscono in senso opposto e complementare, giungendo all’immobilità dei soffi vitali attraverso l’immobilità della mente: entrambi gli approcci sono validi e anzi ricevono un enorme potenziamento se abbinati.

I grandi traguardi, tuttavia, sono contenuti nei piccoli traguardi. La chiave, appunto, è ciò che accomuna coscienza e corpo, e che può condurre all’unità di entrambi: l’energia, in ogni espiro e in ogni inspiro, sotto la testimonianza vigile della mente.

Note[+]

Note
↑1 Swami Niranjanananda Saraswati, Prana and Pranayama, Yoga Publications Trust, 2009, p.9
↑2 Swami Gitananda Giri, La voce del re serpente: saggi sull’Astanga Yoga di Patanjali, Ed. Laksmi, p.86
↑3 Per la precisione, esisterebbero anche altri 5 soffi sussidiari, di cui qui non parleremo per non rendere il discorso troppo complesso.
↑4
“Lo Jiva [l’anima individuale] che si trova sotto l’influenza di Prana e Apana va su e giù.
Lo Jiva a causa del suo muoversi continuo sul percorso destro e sinistro, non è visibile. Proprio come una palla percossa (sulla terra) salta in alto, così Jiva sempre lanciato da Prana e Apana non è mai a riposo.
Conosce lo Yoga chi sa che Prana sempre si trae da Apana e Apana  trae da Prana, come un uccello (allontanandosi e tuttavia non liberandosi) dalla stringa (ad cui è legato).”
Dhyana Bindu Upanishad, 58-61a

Su questo passo vedi anche Swami Muktibodhananda, Swara Yoga: The Tantric Science of Brain Breathing, Yoga Publications Trust, p. 43-45.

↑5 Swami Muktibodhananda. Swara Yoga: The Tantric Science of Brian Breathing, Yoga Publications Trust, p. 44
↑6

Significativi sono i pochi sutra dedicati da Patanjali al pranayama:

Realizzato questo [la padronanza del corpo con le asana] si ha il pranayama che è controllo e cessazione del movimento d’inspirazione e d’espirazione.
Questa regolazione della respirazione durante le sue fasi di espirazione, inspirazione e ritenzione, è inoltre soggetta a condizioni di tempo, luogo e numero, ognuna di queste potendo essere lunga o breve.
Vi è una tecnica particolare per regolare la respirazione che è in rapporto sia con quanto detto nel sutra precedente, sia con la sfera interiore del respiro.
Per mezzo di questa regolazione della respirazione l’offuscamento della mente, che è il normale risultato dell’influenza del corpo, è eliminato.
E così la mente si trova pronta per gli atti consapevoli.

Yoga Sutra, II, 49-53

Secondo l’Hata-yoga Pradipika, inoltre, la ritenzione spontanea è il vero pranayama:

Il pranayama è diviso in tre parti: rechaka (espirazione), puraka (inspirazione), e kumbhaka (ritenzione). Si ritiene che vi siano due tipi di kumbhaka: sahita [accompagnato da rechaka e puraka] e kevala [solo, senza rechaka né puraka].
Si deve praticare sahita-kumbhaka, finché non si ottiene il successo in kevala-kumbhaka, che è la semplice ritenzione del respiro, senza recaka né puraka.
Questo kumbhaka, puro, isolato, rappresenta il vero pranayama.

(Yoga Sutra, II, 49-53)

↑7
“La generazione e la distribuzione del prana nell’organismo umano possono essere paragonate a quelle dell’energia elettrica. L’energia dell’acqua che cade o del vapore che ascende fa ruotare le turbine entro un campo magnetico per generare l’elettricità. L’elettricità viene poi immagazzinata negli accumulatori, e l’energia viene resa più o meno intensa mediante i trasformatori che regolano il voltaggio o la corrente. Quindi viene trasmessa lungo i cavi per illuminare le città o far funzionare i macchinari. Il prana è come l’acqua che cade o il vapore che ascende. L’area toracica è il campo magnetico. I processi della respirazione, inalazione, esalazione e ritenzione del respiro funzionano come le turbine, mentre i chakra rappresentano gli accumulatori e i trasformatori. L’energia (ojas) generata dal prana è come l’elettricità. Viene resa più o meno intensa dai chakra, e distribuita in tutto l’organismo lungo nadi, dhamani e sira, che sono i cavi di trasmissione. Se l’energia generata non viene debitamente regolata, distrugge il macchinario e l’equipaggiamento. Lo stesso avviene con il prana e l’ojas, perché essi possono distruggere il corpo e la mente del sadhaka.”
B.K.S Iyengar, Teorie e tecniche del pranayama, ed. Mediterranee, p.67
↑8 Swami Niranjanananda Saraswati, Prana and Pranayama, Bihar School of Yoga, p.40-49
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