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Zénon | Yoga e Qi Gong

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Eric Baret

Sensi soprannaturali: conversazione con Gioia Lussana sullo Yoga della bellezza

7 Gennaio 2022 Francesco Vignotto

foto di Gioia Lussana

Il sé è un danzatore
Il sé interiore è la scena
I sensi sono gli spettatori

Vasugupta, Gli Aforismi di Śiva

Lo yoga della bellezza di Gioia Lussana è uno dei testi più interessanti e originali degli ultimi anni sullo yoga. Il tema di fondo si sviluppa intorno a una intuizione del tantrismo del Kaśmīr medievale ancora poco esplorata, secondo cui lo stupore meravigliato di fronte all’opera d’arte è esperienza del sacro; sacro che attraverso questa breccia può essere colto in ogni aspetto della vita ordinaria.

Gioia Lussana è laureata cum laude in Indologia con Raniero Gnoli e Raffaele Torella ed è dottore di ricerca in Civiltà e Culture dell’Asia presso l’Università Sapienza di Roma. Il rigore con cui affronta le fonti non le impedisce il confronto, da un lato, con la tradizione filosofica e poetica occidentale e, dall’altro, con la sua esperienza di praticante e di insegnante di yoga, contribuendo a espandere gli orizzonti di ciò che intendiamo oggi con questo nome.

Anche per questo, era abbastanza inevitabile parlare direttamente con lei del suo ultimo libro.

Gioia Lussana

Due cose colpiscono subito l’occhio riguardo a Lo yoga della bellezza. La prima è il sottotitolo: “Spunti per una riformulazione contemporanea dello yoga del Kaśmīr”. La seconda è la doppia prefazione: di Raffaele Torella, ovvero uno dei più importanti esperti a livello internazionale di Tantrismo indiano; e di Eric Barét, riformulatore moderno dell’approccio del Kaśmīr come prima di lui Jean Klein (un ulteriore elemento di sorpresa, ma bisogna avere letto il libro, è il tuo contatto diretto con una forma di Haṭha-yoga tradizionale del Kaśmīr).
Per il senso comune, qualcosa che si richiama a una tradizione o vi aderisce letteralmente oppure suona un po’ sospetto; d’altro canto, le riletture contemporanee hanno sempre suscitato qualche alzata di sopracciglia tra gli studiosi. Qui, invece, sembra di trovarsi di fronte a un particolare caso di superamento degli opposti, e allora ti chiedo: cosa intendi con il termine riformulazione? E come può essere possibile riformulare una tradizione di cui, come spieghi, ci mancano ormai molti elementi operativi? Ma soprattutto: se una tradizione può (deve?) essere riformulata, che cosa intendiamo con la parola tradizione?

Ᾱgama, tradizione, in sanscrito è letteralmente un ‘flusso ininterrotto’. Ᾱgama è anche il nome dei testi tantrici śivaiti rivelatori di una visione rivoluzionaria del sacro. Voler dare nuova linfa a una fiorente e antica tradizione è rimanere nell’alveo del suo torrente e continuare a scorrere in esso. Si potrebbe dire mantenendo il ricordo della sorgente, ma attraversando nuovi paesaggi.

Come accenno nel mio libro, già all’inizio del secolo scorso, quando nacque in Kaśmīr Lakshmanjoo, considerato l’ultimo depositario per trasmissione diretta del lignaggio dei maestri medievali, si era persa la decodifica delle pratiche, spesso altamente esoteriche, descritte da Abhinavagupta nelle sue opere. Si potrebbe in ogni caso affermare che lo yoga del Kaśmīr non è uno yoga preminentemente ‘tecnico’, ma incentrato su un messaggio profondo. Ciò che era presentato per iscritto era già
nel X e XI secolo solo una traccia di ciò che veniva essenzialmente comunicato per
via orale da maestro a discepolo e costituiva la prassi vera e propria.

In virtù di ciò è tanto più lecito oggi tentare di riformulare, di interpretare in modo nuovo quel poco che risulta accessibile delle tecniche antiche, cercando soprattutto di non distaccarsi dalla trasmissione originaria – prettamente filosofica – che esse veicolavano attraverso il corpo. Una riformulazione moderna deve in qualche modo farsi carico dell’evoluzione di segno e di senso della visione filosofica originale, da trasporre in uno yoga non iniziatico e alla portata di un vasto pubblico. Uno yoga siffatto non è in ogni caso compatibile con le forme di gran parte dello yoga contemporaneo, classificabili come fenomeno di massa e con una valenza prettamente commerciale.

I maestri śivaiti non erano solo filosofi, retori e maestri di estetica, ma anche potenti yogin che sapevano incarnare creativamente la stupefacente visione filosofica che emerge dai testi. Si tratta oggi di riproporre in un linguaggio attuale il palpito vitale e la profondità concettuale che essi seppero trasfondere nel rito dello yoga.

Credo che riformulare oggi sia essenzialmente dare forma a uno yoga ‘generativo’, che non perda cioè la sua connotazione intuitiva, mai meccanica, sempre nuova, che scaturisce innanzitutto dal calore vitale e dal battito della vita in ognuno di noi, come da una fonte viva e nello stesso tempo cosciente. La tecnica non è che uno sviluppo ulteriore di questa percezione palpitante originaria.

Il modo di esprimersi dell’artista, del fruitore dell’arte e dello yogin prende le mosse da questo ‘bollore vibrante’ – la cifra della vita – e sgorga ispirato da pratibhā, l’intuizione dell’intima coerenza di ogni cosa, la bellezza di ‘ciò che è’.

Pratibhā, è quell’ingenium che ci fa presentire l’Assoluto. Ogni āsana, ogni gesto diviene allora il rito della bellezza e della sacralità dell’esistenza. L’arte dello yoga diviene in tal modo celebrazione della realtà in ogni sua manifestazione, che in quanto viva è allo stesso tempo auto-consapevole. Nei tantra śivaiti è rimarcata difatti la sorprendente omologia tra coscienza/sapienza e movimento della vita, che si riflettono nell’ordinario e nello straordinario con uguale splendore. Il rito dello yoga ha la funzione di intensificare ulteriormente tale ‘sapiente vividezza’.

Veniamo al tema centrale del libro, ovvero la stretta connessione tra l’esperienza estetica e l’esperienza religiosa. Per sgombrare il campo da equivoci naïf, il bello di cui parliamo non è per nulla ornamentale: si ha anzi l’impressione che la poesia (cito un altro termine-chiave) in questo caso abbia ben poco a che fare con l’evasione della realtà a cui il senso comune l’associa. Puoi parlarci di questo aspetto?
A ciò si collega un’altra domanda: da un approccio così radicalmente non-duale ci si aspetterebbe diffidenza nei confronti delle parole. Eppure nel tuo libro emerge la precisione chirurgica dei maestri del Kaśmīr nel descrivere ma soprattutto nell’evocare l’ineffabile, oltre a un tuo gusto particolare per l’etimologia anche nei confronti delle lingue europee. Evocare: in una riformulazione contemporanea, quanto è importante il linguaggio non solo per descrivere e istruire, ma per evocare una sensibilità straordinaria? Penso ad esempio a quando viene richiesto, nella riformulazione di Klein/Barét, di sentire il muro di fronte, o compiere un asana senza il corpo fisico. Anche qui abbiamo a che vedere con un uso poetico delle parole a tutti gli effetti creativo…

Nella concezione tradizionale la percezione della bellezza (rasāsvāda), investigata con estrema eleganza dai maestri kaśmīri e con suprema maestria in special modo da Abhinavagupta, si qualifica in sostanza come il vero laboratorio dell’esperienza religiosa o spirituale in senso lato: brahmāsvāda, connotata da un vivo assaporamento, intensificato rispetto alla fruizione ordinaria, che vede i nostri sensi spesso assopiti e resi opachi dalla routine. Le due esperienze, entrambe intensissime, scaturiscono dal terreno comune della vita ordinaria, che viene dissodata e resa fertile attraverso questi due vissuti straordinari in virtù di un risveglio che rende straordinario anche l’ordinario. La vita nella sua interezza e in tutte le sue forme acquista allora significato e sapore in quanto celebrazione gratuita, ‘generazione’, come accennavamo precedentemente, compiuta in se stessa. Il rito dello yoga, non confinato dunque a un ambito esclusivamente rituale, si qualifica come una estasiata espressione della vita in quanto tale.

Lo yoga del Kaśmīr, sia nella sua accezione tradizionale, sia nella sua riformulazione contemporanea, è fondamentalmente arte della contemplazione, in una parola bhāvanā, ‘attenzione generativa’, come potremmo tradurre questo termine complesso.

Nel Medioevo in Kaśmīr Bhaṭṭa Nāyaka considera bhāvanā come il ‘desiderio di espressione’ che genera la poesia, l’arte che si propone di alludere a ciò che per sua natura è indescrivibile: la bellezza, ovvero l’essenza della realtà. Lo yoga kaśmīro incarna la capacità creativa che il termine bhāvanā contiene in sé. È risvegliare la presenza consapevole, gustandola attraverso la contemplazione. Uno yoga ‘filosofico’ dunque e altamente ‘poetico’, in quanto si propone di evocare nientemeno che il sacro attraverso la postura, il gesto, l’immagine, il suono.

Per conservare la sua vitalità ispiratrice il linguaggio della pratica deve oggi a mio avviso accendere un significato, tradurre la filosofia in poesia e la poesia in āsana. Lo yoga si assume quindi il compito di suscitare l’intima natura del reale, esprimendo in modo rituale la sua sacralità naturale. Il suono e il gesto conservano in tal modo la loro matrice energetica, prima che discorsiva o intellettuale. Parole e immagini rese ‘corporee’, che non diminuiscono, anzi intensificano la verità delle cose.

Lakshmanjoo

I sensi e in particolar modo il tatto, o meglio la tattilità, altrove considerati una distrazione da cui ritirarsi, sono qui invece lo strumento principale di indagine. Anche in questo caso lo yoga del Kaśmīr sembra da un lato andare in controtendenza rispetto allo yoga classico (viene in mente la famosa critica di Abhinavagupta allo yoga di Patanjali, citato da Torella: “Ritirare i sensi dai loro oggetti porta a rafforzare il legame invece di allentarlo”1R Torella, “Abhinavagupta’s Attitude towards Yoga” in Journal of the American Oriental Society 139.3 (2019)); dall’altro siamo ben distanti anche dalle celebrazioni della positività del corpo-fatto-di-cibo che animano molto yoga contemporaneo. I sensi sembrano qui anzi già appartenere a territori che altrove sarebbero definiti soprannaturali. Puoi dirci qualcosa di più rispetto a questa particolarità?

Rasāsvada, la percezione estetica, è l’esperienza unitaria del sentire attraverso l’uso dispiegato dei sensi, o meglio quella qualità alla base di ogni specifica conoscenza sensoriale: l’assaporamento. Non riguarda semplicemente il senso del gusto, ma quella completezza che deriva dall’usare fino all’estremo uno qualunque di tutti i sensi. Rasa come gustazione denota in generale la primordiale presa di coscienza che tutti i sensi attivano. Sensi che nello śivaismo kaśmīro sono ‘le Dee, le signore dei sensi’ (karaṇeśvarī o svasaṃvid-devī), potenti divinità che risvegliano la capacità di comprendere, di conoscere ovvero di assaporare intensamente la realtà. Sapere è in primis ‘gustare’.

La cifra di questo yoga è sempre l’intensità, fiammante, nuova, per certi versi sempre un po’ spiazzante in quanto contemplazione smisurata e senza inibizioni di quello che c’è, senza omissioni né aggiunte. Questo, come dicevamo, è uno yoga contemplativo. Contemplare la bellezza, anche in ciò che ci spiazza, ci addolora o ci scuote dalle fondamenta.

Contrariamente alla visione del Pātañjala-yoga o yoga classico e di gran parte del pensiero filosofico indiano, dove emozioni, passioni e desideri vengono demonizzati o considerati pericolosi nemici, nel tantrismo non duale del Kaśmīr lo yogin, come l’artista o il fruitore dell’arte, è un rasika, un ragavan o un sahṛdaya ovvero una persona ‘sensibile’, appassionata, che partecipa ‘con tutti i sentimenti’ a ciò che gli è dato di vivere o sperimentare. Potremmo affermare che lo yogin del tantrismo non duale ‘sente esteticamente’, rifacendoci al significato del greco aisthánomai, che è un sentire, comprendere attraverso l’emozione e il sentimento. Lo stato di coscienza estetico è in qualche modo ‘estatico’ per il particolare tipo di gioia che produce nel soggetto, completamente indipendente da un’utilità personale.

L’intensità di un cuore attento e partecipe (heartful potremmo dire, prima che mindful), pur essendo spontanea, a volte richiede un allenamento per attivarsi e incrementarsi. Lavorare la mente-cuore rappresenta un livello specifico di yoga, forse il più diffuso nelle scuole non duali, interessate a dissodare la mente dai suoi impedimenti più che a potenziare la struttura muscolare del corpo. Il training della mente-cuore è in ogni caso un lavoro ‘tattile’, concreto, come impastare il pane o smuovere la terra per seminarla. Richiede la stessa cura, costanza, dedizione. Richiede non soltanto una mente pronta, ma anche un cuore vibrante e un corpo disponibile ad accogliere e custodire l’intensità. Ed è il calore vitale, come dicevamo, e l’emozione della vita in noi che si genera da questo calore, a creare la forma dell’āsana e a originare la dinamica del corpo nello spazio. Il movimento in queste scuole diventa radianza di luce e calore, in ultima analisi, gioia. Espansione del cuore, danza del cuore.

Inevitabile non notare quanto qui sia decentrato il ruolo della tecnica, al contrario di quanto avvenga nello yoga classico e in quello contemporaneo, dove sembrerebbe che il riconoscimento della propria reale natura – o, a essere più modesti, i vari benefici dello yoga – derivino dall’esecuzione di procedure definite e dalla loro ripetizione. Nello yoga del Kaśmīr i rapporti causali sembrano capovolti, o forse sarebbe meglio dire sconvolti da cause di forza maggiore: prima c’è il riconoscimento e poi la tecnica. Anche per le nostre menti contemporanee, dominate dalla tecnica (penso ad esempio all’attributo intelligente riferito a un algoritmo), può sembrare di trovarsi di fronte a un koan: com’è possibile anche solo chiedere di realizzare qualcosa senza realizzarlo?

Rāga, desiderio, anziché vairagya, distacco (letteralmente ‘scoloramento del rosso’ ovvero del desiderio) e kṣana, istante, anziché abhyāsa, ripetizione nel tempo, sono i pilastri dello yoga non duale rispetto al Pātañjala-yoga. Lo yoga del Kaśmīr valorizza lo slancio (udyama) anziché lo sforzo o la coazione a ripetere. Come spiego nel mio libro, quella dello yogin è un’azione vitale spontanea (akṛtaka) che nella pratica si traduce in presenza consapevole e partecipazione emotiva, espansività, la direzione privilegiata dello yoga non duale.

Abhinavagupta chiama camatkāra quel particolare assaporamento meravigliato e consapevole in cui il soggetto lascia sgorgare dall’interno il gesto yogico. Non si tratta di un appagamento per aver finalmente ottenuto un oggetto desiderato o aver raggiunto un obiettivo, ma una felicità del tutto diversa e autosufficiente, non dipendente dall’esterno, ma riconducibile all’intima sensazione di essere vivi, consapevoli dell’inesauribile desiderio della vita di esprimersi come da una fonte che zampilla e irrora tutto lo spazio del corpo e oltre il corpo. Tale attitudine interna è, come dicevamo, l’aspetto centrale di questo yoga, anziché la tecnica, relegata al livello di yoga più grossolano o minimale, ānava-upāya. Ma nella visione di Abhinavagupta anche uno yoga ‘meramente tecnico’ conduce in ultima analisi all’insight che ‘ognuno di noi è Śiva’…. Ognuno di noi è già perfetto così com’è. E ogni livello di yoga conduce naturalmente e imperiosamente a questa evidenza.

Lo slancio, la smisuratezza, il traboccare, il fuori scala sembrano essere cifre caratteristiche di questo yoga. Se ci fermassimo qui potremmo pensare a uno yoga di gesti eclatanti e di supersforzi. E invece, l’attenzione viene più spesso orientata alla sensibilità minuta, del momento liminale, dello spazio tra due cose/due esperienze, allo ‘stare per’ o al morire di un’esperienza. Anche qui sembra che venga chiesto l’impossibile: come si possono intraprendere due direzioni apparentemente divergenti, l’esuberanza e l’estremamente piccolo?

Il traboccamento (antarucchalana) del gesto e del cuore in uno slancio smisurato non contraddice in effetti l’attenzione minuta dello yogin verso ciò che è liminale, indefinito, evanescente.

La non contraddizione sta nel fatto che niente viene fatto ‘per se stessi’, ma in una modalità per così dire ‘generalizzata’ ovvero neutrale. Le stesse famigerate citta-vṛtti (modi della coscienza che comprendono cognizioni/emozioni) non portano a schiavitù se vissute ‘in modalità estetica’ ovvero lasciate libere di dispiegare la loro carica energetica prima che la mente razionale se ne appropri, asservendole ai propri bisogni. Esse diventano ostacoli quando il contenuto emotivo è al servizio dell’ego. Tale attitudine non appropriativa, comune peraltro a tutte le grandi tradizioni mistiche, purifica ogni desiderio dalla sua componente di avidità accaparratrice e trabocca come ‘desiderio aperto’, pronto ad accogliere e ad amare esattamente quello che c’è, così com’è, come ben sapevano e mettevano in pratica gli stoici nella nostra tradizione occidentale. Secondo questa visione non soltanto ciò che è sottile o liminale, ma anche ciò che è doloroso o negativo trova posto nella mente-cuore dello yogin, dove tutto senza esclusione ha la sua ragion d’essere.

Mark Dyczkowski, Daniel Odier, Christopher Wallis: cito tre nomi tra i tanti legati, in modo molto diverso tra loro, al tantrismo del Kaśmīr. Quali sono le affinità e le divergenze con l’approccio de Lo yoga della bellezza?

Tutti e tre gli autori che citi hanno contribuito in diversa misura alla diffusione e alla conoscenza della tradizione del Kaśmīr medievale. Non mi risulta però che nessuno di loro abbia particolarmente approfondito la produzione estetica dei maestri kaśmīri, riscoperta invece e valorizzata sulle orme di Raniero Gnoli da uno dei più insigni interpreti della tradizione manoscritta medievale, Raffaele Torella.

La traduzione dei testi di estetica medievali è in ogni caso un fenomeno relativamente recente, di cui Gnoli alla fine degli anni’50 fu uno dei primi al mondo ad interessarsi. Negli ultimi vent’anni stanno emergendo in traduzione delle vere e proprie perle di questa visione estetica, un filone estremamente promettente che getta una nuova luce interpretativa anche sul significato stesso di yoga in generale e dello yoga non duale in particolare. Qui la percezione della bellezza gioca il ruolo di vero e proprio laboratorio dell’esperienza religiosa in senso lato e yogica in senso specifico. Qui si può a ragion veduta concepire uno yoga ‘estetico’ che si contrappone a uno yoga ‘ascetico’ dominante in tutta la ben nota tradizione dello Haṭha-yoga.

Nel tuo libro non risparmi connessioni con il pensiero e la poesia occidentale, da Platone a Bachelard, da Leopardi a Weil e Candiani. Sembra di intravedere che, sebbene l’idea di una philosophia perennis non goda più di grande popolarità, sia tuttavia possibile almeno trovare un terreno comune di dialogo, che vi sia un referente comune, per quanto per sua natura ineffabile, che altri, altrove, hanno intuito con formulazioni diverse. Cosa ne pensi?

Già nel Vangelo di Giovanni – su cui si fonda tutta la tradizione mistica occidentale a seguire – il primato della vita in tutte le sue diverse accezioni è la matrice concreta della spiritualità nelle sue forme più elevate. È allora lecito riscoprire in contesti tra loro anche molto diversi, dalla poetica all’estetica fino alla prassi yogica o alla fenomenologia husserliana tratti di un filo comune che unisce il vasto campo delle esperienze umane. La percezione/emozione della nostra vitalità interna può essere considerato questo fil rouge.

Eric Barét

Nel tuo libro precedente, La dea che scorre, resoconto dei tuoi studi sul campo in Assam, accenni a un probabile contatto tra la tradizione tantrica indiana e quella taoista. In effetti, e non è solo una mia impressione, osservando la pratica e la gestualità di Eric Barét o di Nathalie Delay è difficile non notare un’affinità con il Qi Gong e con le arti marziali ‘interne’ (che del resto, mutatis mutandis, implicano un approccio intimamente tattile all’energia vitale), più che con le varie filiazioni dello Haṭha–yoga moderne e premoderne. Ho parlato di gestualità volutamente, in quanto sia in Barét che in Delay sembra quasi una forma di Qi Gong spontaneo. Cosa ne pensi?

Fin dalla prima volta che incontrai lo yoga di Eric Baret dodici anni fa, mi resi conto che si trattava di uno yoga per così dire ‘prāṇico’, che lavorava essenzialmente un corpo fatto di calore vitale, respiro e spazio, relegando a un costrutto mentale il corpo denso, muscolare, generalmente considerato protagonista dello yoga più diffuso. Lavorare la dimensione energetica in una percezione del corpo allargata a comprendere tutta la vastità in cui il corpo è inscritto è una peculiarità dello yoga del Kaśmīr contemporaneo e senz’altro presenta notevoli affinità con il Qi gong tradizionale cinese, che io stessa ho avuto la fortuna di praticare in prima persona con un maestro taoista.

In uno yoga siffatto l’āsana diventa una ‘forma senza forma’. Una forma che attraverso il silenzio e l’immobilità viva che la costituiscono, lascia che i suoi contorni scolorino fino ad abbracciare tutto lo spazio intorno. Scompare allora la percezione fisica della postura in cui si dimora e rimane soltanto ‘il soffio interno’, la calda e vibrante sensazione della vita in noi, che i kaśmīri chiamavano spanda e i taoisti Qi.

Vorrei concludere con tre suggestioni che mi hanno suscitato la lettura del tuo libro. La prima è di un poeta a me molto caro, Yves Bonnefoy: “Ciò che non ha pace è ancora la pace”.
La seconda è di un poeta a me ancora più caro, Milo De Angelis, che abbiamo intervistato qualche tempo fa proprio su questo sito: “L’infinito appare nel poco/come l’ultima nota di un grido/che si dilegua”.
L’ultima suggestione viene dall’ultimo capitolo de Gli imperdonabili di Cristina Campo, intitolato guarda caso “Sensi soprannaturali”. L’ambito sembrerebbe essere proprio distante, infatti si parla di una supplica del mistico greco medievale Simeone Metafraste, ma anche per questo la connessione spicca in modo bruciante: “È perfettamente apparente […] come l’acquisizione dei sensi soprannaturali importi l’oblazione dei naturali: questi gettati in quelli, accesi e consumati in quelli, come le resine preziose nella mischianza del santo crisma. […] Che si possa parlare qui di repressione o di sublimazione è degradante al solo ricordo, e persino una parola del tutto canonica, mortificazione, appare in qualche modo mortificante.”

Bellissime le tre suggestioni che riporti nella tua ultima domanda.
‘Ciò che non ha pace è ancora la pace’ mi ricorda una mattina in Kaśmīr, quando arrivai completamente fradicia alla piccola casa del maestro, in fondo al villaggio. Una tempesta di pioggia mi aveva sorpreso sulla strada fangosa e al mio arrivo venni scaldata e rifocillata con latte caldo. Quindi il maestro mi scrisse queste poche parole su un pezzo di carta: ‘Non c’è pace senza intensità’. In questa breve frase c’è una bella sintesi della visione non duale. La pace può essere assaporata in ogni cosa o situazione, anche in mezzo al freddo di una tempesta di pioggia, anche in mezzo alla ‘non pace’. La pace è intensità.

La quiete è sempre qualcosa di vivo, vibrante come un cuore che batte. In mezzo a quel battito si può dimorare, indisturbati, in āsana.

E allora l’infinito ‘appare nel poco….” per riprendere le parole di Milo De Angelis. In una forma circoscritta – l’āsana appunto – custodita in un corpo immobile, si può avere la percezione dell’immensità di ogni cosa, che si estende ben oltre il nostro limitato orizzonte ordinario.

E a proposito di ‘sensi sovrannaturali’, questa è proprio l’indicazione dello śivaismo kaśmīro. Lo yogin fermo in āsana, dopo aver assaporato pienamente la realtà con tutti i sensi dispiegati, accede a una conoscenza non più sensoriale o forse ‘ultra-sensoriale’. Arriva a intuire l’essenza luminosa e cosciente delle cose, la loro intima bellezza, gratuita e svincolata da giudizi, pregiudizi e conclusioni della mente intellettuale, senza dover più ricorrere ai sensi, ma sviluppando un presentimento, un sentore spirituale. Attraverso l’arte o il rito dello yoga si arriva a presentire, gustandolo, ciò che non è altrimenti conoscibile, poiché ben al di là del nostro campo esperienziale.


Piccola nota finale

Non potevamo ovviamente approfondire qui l’argomento per ragioni di spazio e di tempo, ma anche il precedente libro di Gioia Lussana merita di essere menzionato: La dea che scorre. La matrice femminile dello yoga tantrico, che come accennato più esplora sul campo l’antichissimo culto della dea Kāmākhyā in Assam, tutt’oggi vivo, da cui emergono elementi molto arcaici del fenomeno tantrico che possono contribuire ad allargare ulteriormente gli orizzonti sullo yoga stesso.

Note[+]

Note
↑1 R Torella, “Abhinavagupta’s Attitude towards Yoga” in Journal of the American Oriental Society 139.3 (2019)
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Archiviato in: Articoli, interviste, Yoga Contrassegnato con: asana, Eric Baret, Gioia Lussana, qi gong, tantra, yoga

Accetta i tuoi limiti, ma vedi di toccarti i piedi in fretta

27 Giugno 2018 Francesco Vignotto

Tira!

Einstürzende Neubauten, Yu Gung (fütter mein Ego, “nutri il mio ego”)

Quando andavo a lezione di yoga diversi anni fa, ero molto orgoglioso di piegarmi in avanti fino ad appoggiare il busto sulle gambe, o di posarlo a terra se le gambe erano divaricate. A quel punto spesso l’insegnante interveniva con un’energica spinta sui lombi per farmi arrivare ancora più in là. Solo più tardi ho avuto il coraggio di lasciare emergere la domanda che già allora echeggiava in sottofondo: arrivare dove?

L’approccio alla pratica posturale, nello yoga moderno, è principalmente volontaristico: volere è potere; il dominio sul tuo corpo; la rimozione dei blocchi fisici, emotivi, mentali, come se quei nodi non fossero parte integrante di ciò che sei, e come se il volertene sbarazzare in tutta fretta non fosse cibo per la tensione stessa; il maestro, che ti fa ‘andare oltre’, espressione con cui si è giustificato ogni genere di azioni e correzioni altrimenti discutibili e inconsulte: spesso, il maestro vuole solo farti entrare nell’idea che i suoi schemi mentali gli hanno imposto.

‘Ascolta il tuo corpo’ e ‘rispetta i tuoi limiti’ sono allora belle frasi di circostanza, che suonano spesso involontariamente sarcastici, come il celebre meme sui giornali femminili: accettati per come sei, però intanto perdi dieci chili e rifatti le labbra; rispetta i tuoi limiti e prenditi il tuo tempo, però vedi di afferrare quei piedi, e possibilmente prima della fine della lezione. Con buona pace dell’interiorizzazione che, secondo il luogo comune, la flessione in avanti dovrebbe favorire.

Il problema è che, di fronte ai piedi da prendere o al pavimento da toccare, ogni disponibilità all’ascolto è già evaporata. Non c’è nulla che posso sentire, nel ‘qui ed ora’ tanto caro alla retorica olistica, quando sono proiettato verso un risultato. Non sono né qui né ora dove mi trovo, bensì là e dopo dove ancora non sono. Perché naturalmente anche quando avrò raggiunto l’obiettivo, cercherò qualcosa di fisicamente oltre: e ciò può avere un senso, ma non vedo perché catalogarlo sotto il termine yoga.

Con gli anni, ho imparato che nella fretta di allungarmi, nella ricerca della conferma di essere flessibile come ieri, c’era qualcosa a cui non prestavo attenzione, ma che lasciava una traccia molto più profonda e meno dissimulabile di quanto pensassi. Una tensione nell’area dell’anca destra interveniva a un certo punto dell’avanzare, come a frenare da quel lato. Come appariva logico, e applicando tutte le precauzioni – avendo cura che il bacino ruotasse in avanti, estendendo le ginocchia, avanzando verso le gambe dal basso ventre al torace eccetera –  pensavo che lavorando analiticamente sulla posizione avrei sciolto il nodo che mi affliggeva: insomma, dovevo allungare le catene cinetiche posteriori, sul manuale era tutto così semplice, simmetrico e lineare!

Ma ciò, al contrario, estendeva la geografia della tensione lungo tutta la linea destra: psoas, scapola, gluteo, polpaccio, pianta del piede. Ora penso con un sorriso alla frustrazione che provavo quando camminavo zoppicando dopo aver praticato una tecnica che avrebbe dovuto riallinearmi, e invece scompaginava l’equilibrio del mio corpo – equilibrio che, come più tardi ho imparato, è fatto anche di tante piccole anomalie e zoppicamenti, che però suonano bene insieme, a differenza di quel clangore artificioso e stucchevole.

Ma quando non sei ancora disposto a negoziare sull’efficacia di ciò che stai facendo, pensi che sei tu a essere sbagliato, di avere qualche difetto congenito da correggere e finisci per essere ancora più intransigente (forse non ‘tiro’ abbastanza).  Ti viene in aiuto, poi, la psicologia spiccia: stai “buttando fuori” tensioni molto profonde e antiche; senza sofferenza non si cresce; il tuo lato destro bloccato indica un problema con la tua parte razionale; il dolore – o il fastidio – è il tuo maestro. Ipotesi non del tutto peregrine (almeno le prime due, sulle restanti ho qualche dubbio), ma altamente improbabili quando la tensione si cronicizza. Non si può ‘buttare fuori’ per sempre: significa che la cura stessa è il problema.

Beninteso, avrei potuto anche fregarmene: nella posizione, almeno esteriormente, io ci arrivavo. E col tempo ho cominciato a sospettare che per molti sia così, visto che diversi insegnanti di lunga data e molto più aitanti di me cominciano a confessare di soffrire di dolori cronici e in alcuni casi di essere ricorsi a operazioni di sostituzione dell’anca.

Ma le mie remore erano di natura diversa: perché, in un certo senso, era la percezione globale del corpo a essermi sottratta, e la pratica di alcune posizioni sembrava generare più danno di quanti problemi volessero risolvere. E soprattutto, sentivo che non era questa o un’altra procedura per entrare in posizione la soluzione del problema, ma che la questione era a monte.

Ho evitato per molto tempo le posizioni di piegamento in avanti a terra, un po’ come quando tra amici si evita un argomento che in passato ha generato discussioni. Poi, siccome non potevo insegnare qualcosa su cui io stesso nutrivo dei dubbi, ho deciso di indagare la questione cominciando da ciò che un tempo era l’impensabile: regredire volontariamente nella posizione, come se non fossi in grado di ‘arrivare’.

La prima cosa che ho imparato è che senza alcuna forzatura ero in grado di fare ben poco. Le gambe stese a terra erano come un chiodo conficcato nel terreno che impedivano al mio tronco di muoversi. Spesso, praticando a gambe piegate, ascoltavo la rotazione del bacino e quella strana sensazione avvolgente che proviene ‘da dietro’ quando le lombari avanzano e la distensione penetra fin nelle viscere. Ho compreso allora che lo stiramento di quella zona ottenuto tramite la forza, oltre a essere estremamente dispendioso, non ha nulla a che vedere con una reale distensione, ma rimane solo in superficie.

Poi a un certo punto, lasciando lavorare il respiro a partire dalla cintura addominale, imparando a non rifiutare la sensazione di tensione, a retrocedere e riprendere da capo, qualcosa accade di inaspettato, in principio come uno smottamento involontario: il busto avanza da solo, come se il ventre attraversasse frontalmente le gambe senza incontrare nulla di denso. Non sei tu a muoverti, ma il movimento accade, ti porta con sé.

Senza voler arrivare, riprendi da capo. È questione inizialmente di millimetri, eventi così piccoli da essere quasi impercettibili. Esplorando con la sensazione lo spazio della bocca senti un rilascio nel bacino, ma attenzione a stabilire corrispondenze valide per ogni circostanza. Senti le gambe, senti il pavimento, senti la tensione, senti la distensione, ti accorgi che là dove pensavi di alleviare stai invece alimentando, dove togli peso lo stai portando, dove credi di compensare stai depredando, ma non puoi mettere a posto tutto questo con la ragione: tensione e distensione sono due facce della stessa medaglia, interdipendenti. C’è qualcos’altro prima ancora, che attraversa e sostiene entrambe.

Ritorni ancora indietro, respiri, senza fretta, e riprendi. Ripetizione dopo ripetizione, la sensazione corporea e la sensazione del respiro diventano una sola: il corpo diventa un unico spazio dilatato dove i punti di resistenza vengono divorati. O forse, quelle resistenze appaiono nella loro necessità per l’equilibrio del tutto, poco importa.

Forse non si arriva mai a terra, forse ci vuole, almeno all’inizio, molto più tempo di quanto siamo disposti a dedicarvi nella fretta di arrivare. È difficile ammettere che il pavimento in realtà è solo una costruzione mentale che può inizialmente servire, ma in seguito è un inutile ingombro.

Forse è vero che ‘vince chi arriva ultimo’, come proclamava ironicamente Eric Barét durante un seminario, congelando la foga con cui i praticanti (tra i quali il sottoscritto) si gettavano nella posizione. Ed è anche un po’ a lui che devo il merito di avermi inizialmente complicato la vita, instillando il dubbio là dove c’era una geometrica certezza.

Ma forse – e credo che Barét sarebbe d’accordo – in ultimo non c’è nessuno che vince e nessuno che arriva: questo è lo yoga.

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Tu non hai chakra

30 Giugno 2016 Francesco Vignotto


Aprirsi i chakra

Nella nostra epoca dove gli insegnamenti più profondi sono stati riformattati in un minestrone insipido, è difficile immaginare che le forze che si evocano abbiano la potenza di un cataclisma. Si preferisce pensare che si tratti di un brivido di piacere che rapisce i sensi e che si considera a torto come un’estasi. […]

Vimalananda si rallegra del fatto che i chakra degli esseri umani siano chiusi o ridotti, come dice Devi, ad ammassi di tensione, perché altrimenti sarebbero pazzi. Allora, assolutamente, non fatevi “aprire” i chakra, come propongono alcuni praticanti.

Daniel Odier, La kundalini nel tantra kashmiro

Probabilmente, per la salute mentale di tutti, è giunta l’ora di sbarazzarci almeno per qualche tempo dell’idea di avere dei chakra e di doverli attivare, e di scordarci di quella vecchia storia della risalita della Kundalini, l’energia cosmica che giacerebbe addormentata alla base della spina dorsale (o secondo visioni più antiche, nel cuore).

Già all’origine fonte di madornali abbagli e ricerche dell’oro, nell’ultimo secolo queste idee sono state oggetto di qualche brillante elucubrazione ma soprattutto di innumerevoli sciocchezze, adattate di volta in volta alle ultime tendenze nell’intrattenimento dei “turisti dell’esoterismo di massa”, come li ha definiti Giorgio Invernizzi.

chakra hinduism

In realtà, i centri energetici che la tradizione indiana chiama chakra, di cui abbiamo già parlato, sarebbero un modo come un altro per rappresentare i diversi strati della coscienza umana e il loro innestarsi nella corporeità. Queste rappresentazioni sono tuttavia ormai entrate nel gergo comune della sottocultura post-New Age come delle realtà concrete, oggetto di conversazione come le caratteristiche dei segni zodiacali.

Tuttavia, è un'”idea romantica” – come la definisce lo stesso Odier – che attraverso delle tecniche si possano meccanicamente attivare tali centri producendo evoluzione nella consapevolezza e, alla lunga, risvegliando la Kundalini.

Questa idea romantica ha il vantaggio di essere facilmente commerciabile, ma è estremamente miope, perché ignora che spesso le chiusure servono, oltre che a limitare, anche e soprattutto a proteggere e a preservare l’equilibrio in un organismo che funziona male per ragioni strutturali: agire artificialmente su singole localizzazioni non aumenta la consapevolezza dell’individuo ma anzi ne esacerba più spesso gli squilibri.

Non a caso i tentativi di attivare i chakra sono causa di numerose derive psichiatriche nel mondo dei cosiddetti ricercatori spirituali, i quali si procurano spesso in questo modo molti più grattacapi di quanti non sarebbero già chiamati ad affrontare. L’abstract di questa ricerca sulla “Sindrome di Kundalini”, da anni oggetto delle attenzioni degli psichiatri, potrebbe essere l’epitaffio di molte esperienze (naturalmente, può essere adattata anche a chi non è giovane e non appartiene al sesso maschile):

La crescente pratica di filosofie orientali tradizionali nella società moderna ha evidenziato le difficoltà da parte dei praticanti di integrare queste pratiche nel loro stile di vita quotidiano. Le ragioni di ciò sono spesso complesse. Uno dei fattori determinanti potrebbe essere l’insufficiente comprensione o l’acquisizione di una interpretazione superficiale delle tradizioni o filosofie orientali. Il concetto di Kundalini viene dalla filosofia yogica dell’antica India e si riferisce alla materna intelligenza dietro al risveglio yogico e alla maturazione spirituale. Descriviamo qui un caso di un giovane di sesso maschile che ha presentato un deterioramento funzionale sperimentando sintomi psicotici, che lui stesso descrive come risveglio di Kundalini.1A.   Valanciute  and  L.A.   Thampy, Physio Kundalini syndrome and mental health, in Mental Health, Religion & Culture, vol. 14, n. 8, pp. 839-842

Tutto aperto, niente cambia

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È quindi in un certo senso una grande fortuna che la maggior parte delle proposte oggi siano “un minestrone insipido” che spesso non sortisce alcun risultato concreto tranne un fugace brivido lungo la schiena al praticante e qualche banconota nelle tasche di chi le propone, e che in certe esperienze la Kundalini assomigli più a un innocuo orbettino che a un selvaggio serpente tropicale.

Eppure, ci piace pensare che il suono di una campanella, un sasso o una posizione corporea stimoli e riequilibri centri sottili che non abbiamo mai visto né sentito, anche se averne letto o sentito parlare ce ne suggerisce la suggestione, oltre al bisogno di “pulirli” e “purificarli”. Del resto, anche il mondo post-New Age risponde alle leggi del business: prima di tutto, crei la percezione del bisogno e quindi la domanda e l’indotto della ‘manutenzione’.

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Ho conosciuto molte persone, inamovibili nella propria convinzione di aver vissuto una risalita della Kundalini, “aperture” di chakra, morti mistiche o altre extra-ordinarie esperienze spirituali grazie a una sessione con qualche operatore olistico, sia esso sciamano, massaggiatore istruttore di yoga o master reiki, o una macedonia di tutte queste figure.

Eppure, per dubitare dell’eccezionalità di tali esperienze basterebbe constatare che la loro vita procede invariata, con gli stessi ritmi sonnolenti e gli stessi problemi coniugali, la stessa ipocondria, lo stesso bisogno di certezze di sempre. Spesso – a discapito dell’abuso della terminologia terapeutica – anche con più o meno gravi problemi di salute che spesso si aggravano per non aver fatto ricorso a cure adeguate. Se vi è entusiasmo assoluto all’inizio, il più piccolo richiamo alla realtà della vita fa crollare tutto il castello di carte, gettando l'”adepto” nel sentimento opposto.

Basterebbe insomma questo per constatare che, delle due l’una: o le esperienze mistiche descritte dai testi come cataclismi non sono un granché dal punto di vista della vita pratica – avvallando quindi la poco entusiasmante tesi che ‘vita’ e spirito corrano su binari separati – oppure le suddette pratiche non sono servite a molto.

Ancora più seri dubbi dovrebbero nascere considerando che i risultati promessi siano offerti a chiunque paghi la quota di partecipazione, come abbiamo già notato altrove, senza alcuna considerazione per le problematiche pregresse con cui queste pratiche possano interagire.

Da parte mia, trovo veramente poco sensato pilotare voli pindarici quando il problema fondamentale di ogni persona è di non essere in grado di sentire intere aree del proprio corpo. Paradossalmente, questi sintomi psicosomatici possono essere letti proprio come conseguenze di uno squilibrio energetico, ma l’idea di avere un chakra fuori posto o evocare potenze cosmiche è molto più spesso un’altra sovrastruttura che separa dalla capacità di percepirsi, alimentando un dualismo tra materia e spirito che aliena ancora di più dalla realtà.

Fanno eccezione, ovviamente, i casi in cui per qualche disgraziata coincidenza qualcosa sortisce veramente un effetto, ricadendo nella casistica più sopra accennata, nel qual caso suggerisco un bravo psichiatra.

Ma quali Chakra?

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E qui giungiamo all’altro corno della questione, che forse è ancora più importante. I “sette chakra” e la geografia energetica annessa fanno parte ormai ‘assodata’ della fisiologia sottile legata non solo allo yoga, ma a tutta una serie di successive pratiche e teorie nate in seno all’Oriente e all’Occidente.

Basta scegliere un sito a caso per conoscerne la collocazione, il colore, i suoni associati e tutte le altre caratteristiche di ognuno di essi. Queste informazioni sono ricavabili da numerosi manuali – a volte anche molto autorevoli – che per ragioni didattiche possono anche essere utili, ma la cui assertività sembra spesso far dimenticare che ci troviamo di fronte più a un artefatto culturale che a una descrizione anatomica con pretese di realismo.

Del resto, se per la tradizione indiana i centri energetici sono generalmente sette fiori di loto, mentre per quella cinese sono più sinteticamente tre campi di cinabro, è per la scelta di un particolare algoritmo, del simbolismo più affine alla propria sensibilità, e anche per un po’ di folklore.

Ma anche all’interno del paradigma indiano a sette centri, la dose di interpretazione rispetto alle fonti è molto maggiore di quanto non sembri, e in una certa misura dipende dalla diversità delle esperienze e delle sensibilità di cui parleremo tra breve, ma ci fa anche comprendere quanto sia problematico voler definire fenomeni energetici con gli attributi della massa.

Particolare incertezza riguarda ad esempio la localizzazione del terzo centro, Manipura Chakra, sede dell’energia vitale e della capacità di assimilazione: comunemente collocato all’altezza dell’ombelico, secondo alcuni si trova due dita al di sotto di esso, come il dan tien addominale cinese o l’hara giapponese; secondo altri ancora si trova al plesso solare, il quale però è a volte considerato un centro a parte, Surya Chakra.[irp]

Del resto non è mai chiaro se i centri o i loro punti di innesto siano da collocare sull’asse frontale del busto, sul dorso o su entrambi i lati, o se si debba considerare due serie distinte di chakra anteriori e posteriori.

Come si può comprendere, le localizzazioni energeticamente rilevanti sono molto più di sette, e non solo lungo l’asse centrale del corpo: stabilire le capitali e i capoluoghi di provincia ha senso solo rispetto a un sistema, e i sistemi sono tanti.

Traditional alternative therapy or medicine, also concept of healthy lifestyle, silhouette of man with chakras

La fonte del modello a 7 chakra oggi dominante è il Shatchakranirupana, un testo del XVI secolo reso celebre agli inizi del Novecento dalla traduzione di Arthur Avalon.2Arthur Avalon, Il Potere del Serpente, Mediterranee, Roma Secondo Eric Baret, questo testo si rifà a sua volta al Kubjikamata-tantra del X secolo, appartenente alla tradizione tantrica Kaula.

Lo stesso schema dei chakra è riprodotto anche nella Shiva Samhita, uno dei testi medievali ritenuti fondamentali dell’haṭhayoga, sebbene, come osserva Mallinson, i primissimi testi di questa tradizione non nominino né i chakra ne la Kundalini, che sarebbero stati introdotti in seguito a una sintesi più tarda.3James Mallinson, Interview with James Mallinson “Sanskrit and paragliding”

Come osserva Christopher Wallis, la divulgazione di Avalon rimane la fonte principale di tutte le trattazioni occidentali sul tema e, di ritorno, ha influito pesantemente anche sulle scuole orientali contemporanee (caso non raro, come ho evidenziato alle āsana yogiche). Tuttavia, anche nell’ambito del tantrismo indiano questo è solo uno dei tanti sistemi di chakra, dato che ogni tradizione ne aveva elaborato uno: a cinque, a sei, a sette, a dieci, a venti o anche più chakra.

Ma c’è un elemento ancora più importante che secondo Wallis sarebbe sfuggito alla traduzione di Avalon. I sistema dei chakra non descriverebbe degli “organi” della fisiologia energetica, bensì prescriverebbe delle pratiche di visualizzazione in determinate localizzazioni particolarmente sensibili, ma che varierebbero a seconda dello scopo della pratica.

I testi […] dicono ciò che si deve fare per raggiungere un obiettivo specifico per scopi mistici. Quando il sanscrito letterale recita, nel suo modo ellittico, ‘loto a quattro petali alla base del corpo’ dovremmo comprendere ‘lo yogi dovrebbe visualizzare un loto a quattro petali …’

Del resto, anche Eric Baret ammoniva:

Insegnate come una realtà da imparare a memoria per gli esami delle federazioni di yoga, il senso tradizionale di queste immagini spesso non viene capito. Quando si indica un colore che corrisponde a un centro sottile non si tratta di un colore che può essere immaginato dalla nostra memoria, ma che si riferisce piuttosto a una percezione: un uomo nero non implica l’appartenenza alla razza africana, un uomo leggero non implica l’assenza di peso, un uomo amaro non implica il sapore della pelle. Così, i colori, gli odori, le forme attribuite ai diversi recettori del corpo sottile non sono da prendere alla lettera.4Eric Baret, Yoga Tantrico: Asana e Prāṇāyāma del Kashmir

Insomma, prendere alla lettera i sette chakra (o i cinque, i tre, i dodici…) e i loro attributi sarebbe come interpretare la teoria tradizionale dei cinque elementi alla stessa stregua della tavola periodica della chimica moderna.

In conclusione

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Sistema a sei chakra del Buddhismo Tantrico tibetano.

La vera questione, tuttavia, non è tanto stabilire una verità con la filologia, bensì quanto la convinzione di avere dei chakra possa colorare e limitare l’esperienza entro schemi arbitrari.

Personalmente, ritengo che la presunzione scolastica di un percorso lineare (apertura dei chakra, apertura della sushumna, risalita della kundalini) allontani da un vero lavoro veramente ‘olistico’ che si sviluppi in ogni direzione, creando a priori l’esperienza e portando a trascurare e a considerare come periferici fenomeni altrettanto importanti ma non presenti sulle mappe, percezioni che, in quanto autentiche, non hanno nome.

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Del resto, basterebbe consultare due o tre manuali che illustrano le āsana per accorgerci che ognuno attribuisce alla stessa posizione la stimolazione o l’attivazione di centri energetici diversi. Ciò potrebbe indurre a domande imbarazzanti: dove dobbiamo dirigere l’attenzione nell’eseguire trikonāsana? È proprio vero che le posture di apertura del torace stimolano il centro del cuore, come sostengono i tutorial delle riviste di yoga? E la posizione sulla testa attiva davvero il chakra della corona?

Il fatto è che ognuna di queste informazioni, ogni cosa che pensiamo debba accadere è una contrazione della capacità di ascoltare l’āsana che prende forma.

Insomma, il rischio di questi schemi ormai scontati nello yoga di massa è di restaurare un riduzionismo cambiandone solo i termini, e allora il tanto decantato paradigma olistico è semplicemente, come si suol dire nel mondo contadino, un “cambiar sacco”, scambiare le proprie lenti colorate con lenti di altro colore.

Citando di nuovo Odier e tirando le somme:

Dimenticate i chakra, la loro percezione è completamente condizionata e illusoria, e dipende dalle vostre credenza. Se pensate che siano sette, ne sentirete sette. Se pensate che siano dodici, ne sentirete dodici. Se credete che non esistano affatto, ne sentirete mille. L’importante è che l’attenzione diventi più intensa, la capacità di concentrazione più acuta, e ciò porta alla possibilità di sentire intensamente tanto le aperture quanto le chiusure.5Daniel Odier, L’incendio del cuore: il canto tantrico del fremito, Editrice Psiche

La scelta non è mai tra un sistema teorico giusto e uno sbagliato. La scelta è sempre tra farsi raccontare cosa bisognerebbe sentire o farsi mettere nelle condizioni di sentire noi stessi. Con la prima opzione, si finisce spesso a ricercare infelicemente le indie segnate sulle mappe, senza accorgersi di camminare già in un continente sconosciuto che si ricrea a ogni istante.

In definitiva, aprirsi un chakra può essere interessante soltanto finché c’è qualche vantaggio personale da ricercare, sia esso imparare ad amare o smettere di litigare con i colleghi di lavoro. Il fatto è che nel momento stesso in cui c’è appropriazione, tutto è finito, proprio come quando si cerca di appropriarsi del silenzio mentale nella meditazione. Per guarire da questo, e ho davvero terminato, voglio concludere con un passo di Jean Klein, che aggiunge l’unico tassello senza il quale ogni sforzo – e ogni discorso – risulterebbe oltremodo farsesco:

D: Perché si verifichi la realizzazione, il chakra della corona deve aprirsi?
JK: La comprensione porta all’apertura spontanea dei centri energetici. Non interagisci con questi centri in sé stessi. Puoi, ovviamente, aprire certi centri, ma ciò non ti porterà la comprensione. È la comprensione che ti apre.
[…] Quando [il chakra della corona] è realmente aperto attraverso la comprensione, non c’è più alcuna identità con l’ego e non consideri più te stesso come una entità personale. È la consapevolezza che sei un canale, niente più. 6Jean Klein, The book of listening, Non-Duality Press, 2008-2013

Post scriptum del 2018

Credo sia interessante riportare in appendice un brano da Roots of Yoga di James Mallinson e Mark Singleton, che all’epoca della prima pubblicazione di questo articolo era ancora inedito. Il capitolo V, Yogic Body porta alla luce la grande variabilità dei modelli premoderni di corpo nelle diverse tradizioni (pur rilevando temi comuni che hanno portato a un modello più omogeneo), e le dissonanze cognitive dovute al trapianto di tali modelli nel contesto del moderno yoga globalizzato, dominato dal modello medico scientifico (per maggiori approfondimenti invito a leggere il capitolo – se non il volume – per intero):

Uno dei principali contesti concettuali per il corpo del praticante nell’odierno yoga globalizzato è il corpo empirico, anatomico, biologico e bio-medico. La predominanza del realismo medico-scientifico nel discorso popolare sullo yoga tende a oscurare o dislocare visioni più tradizionali del corpo e ha pertanto, mutatis mutandis, rimodellato la funzione percepita delle pratiche yogiche in sé. Ciò è altrettanto (e forse in special modo) vero quando i termini della fisiologia yogica vengono importati nelle moderne pratiche di yoga e sono reinterpretate entro parametri culturali ed ermeneutici lontani da quelli premoderni.

(…) Differenti tradizioni presentano differenti corpi yogici, alcuni dei quali sono complementari e comparabili, altri dei quali non lo sono (per non parlare della vasta variabilità di corpi in altre branche del pensiero e delle prassi indiane pre-moderne, come nell’Ayurveda). Ciò accade in parte perché i corpi yogici compaiono in accordo a un particolare rituale, a requisiti filosofici o dottrinali della tradizione in questione, e perché sono espressioni di tali requisiti, piuttosto che descrizioni di corpi empirici auto-evidenti comuni a tutti gli umani. In altre parole, i fini di un particolare sistema determinano il modo in cui il corpo è immaginato e utilizzato nelle pratiche yogiche. Il corpo yogico era – e continua a essere in circoli di praticanti – qualcosa di costruito o ‘scritto’ sul e nel corpo del praticante dalla tradizione stessa.7J. Mallinson, M. Singleton, Roots of Yoga, Penguin, 2017

Note[+]

Note
↑1 A.   Valanciute  and  L.A.   Thampy, Physio Kundalini syndrome and mental health, in Mental Health, Religion & Culture, vol. 14, n. 8, pp. 839-842
↑2 Arthur Avalon, Il Potere del Serpente, Mediterranee, Roma
↑3 James Mallinson, Interview with James Mallinson “Sanskrit and paragliding”
↑4 Eric Baret, Yoga Tantrico: Asana e Prāṇāyāma del Kashmir
↑5 Daniel Odier, L’incendio del cuore: il canto tantrico del fremito, Editrice Psiche
↑6 Jean Klein, The book of listening, Non-Duality Press, 2008-2013
↑7 J. Mallinson, M. Singleton, Roots of Yoga, Penguin, 2017
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