Aprirsi i chakra
Nella nostra epoca dove gli insegnamenti più profondi sono stati riformattati in un minestrone insipido, è difficile immaginare che le forze che si evocano abbiano la potenza di un cataclisma. Si preferisce pensare che si tratti di un brivido di piacere che rapisce i sensi e che si considera a torto come un’estasi. […]
Vimalananda si rallegra del fatto che i chakra degli esseri umani siano chiusi o ridotti, come dice Devi, ad ammassi di tensione, perché altrimenti sarebbero pazzi. Allora, assolutamente, non fatevi “aprire” i chakra, come propongono alcuni praticanti.
Daniel Odier, La kundalini nel tantra kashmiro
Probabilmente, per la salute mentale di tutti, è giunta l’ora di sbarazzarci almeno per qualche tempo dell’idea di avere dei chakra e di doverli attivare, e di scordarci di quella vecchia storia della risalita della Kundalini, l’energia cosmica che giacerebbe addormentata alla base della spina dorsale (o secondo visioni più antiche, nel cuore).
Già all’origine fonte di madornali abbagli e ricerche dell’oro, nell’ultimo secolo queste idee sono state oggetto di qualche brillante elucubrazione ma soprattutto di innumerevoli sciocchezze, adattate di volta in volta alle ultime tendenze nell’intrattenimento dei “turisti dell’esoterismo di massa”, come li ha definiti Giorgio Invernizzi.
In realtà, i centri energetici che la tradizione indiana chiama chakra, di cui abbiamo già parlato, sarebbero un modo come un altro per rappresentare i diversi strati della coscienza umana e il loro innestarsi nella corporeità. Queste rappresentazioni sono tuttavia ormai entrate nel gergo comune della sottocultura post-New Age come delle realtà concrete, oggetto di conversazione come le caratteristiche dei segni zodiacali.
Tuttavia, è un'”idea romantica” – come la definisce lo stesso Odier – che attraverso delle tecniche si possano meccanicamente attivare tali centri producendo evoluzione nella consapevolezza e, alla lunga, risvegliando la Kundalini.
Questa idea romantica ha il vantaggio di essere facilmente commerciabile, ma è estremamente miope, perché ignora che spesso le chiusure servono, oltre che a limitare, anche e soprattutto a proteggere e a preservare l’equilibrio in un organismo che funziona male per ragioni strutturali: agire artificialmente su singole localizzazioni non aumenta la consapevolezza dell’individuo ma anzi ne esacerba più spesso gli squilibri.
Non a caso i tentativi di attivare i chakra sono causa di numerose derive psichiatriche nel mondo dei cosiddetti ricercatori spirituali, i quali si procurano spesso in questo modo molti più grattacapi di quanti non sarebbero già chiamati ad affrontare. L’abstract di questa ricerca sulla “Sindrome di Kundalini”, da anni oggetto delle attenzioni degli psichiatri, potrebbe essere l’epitaffio di molte esperienze (naturalmente, può essere adattata anche a chi non è giovane e non appartiene al sesso maschile):
La crescente pratica di filosofie orientali tradizionali nella società moderna ha evidenziato le difficoltà da parte dei praticanti di integrare queste pratiche nel loro stile di vita quotidiano. Le ragioni di ciò sono spesso complesse. Uno dei fattori determinanti potrebbe essere l’insufficiente comprensione o l’acquisizione di una interpretazione superficiale delle tradizioni o filosofie orientali. Il concetto di Kundalini viene dalla filosofia yogica dell’antica India e si riferisce alla materna intelligenza dietro al risveglio yogico e alla maturazione spirituale. Descriviamo qui un caso di un giovane di sesso maschile che ha presentato un deterioramento funzionale sperimentando sintomi psicotici, che lui stesso descrive come risveglio di Kundalini.1A. Valanciute and L.A. Thampy, Physio Kundalini syndrome and mental health, in Mental Health, Religion & Culture, vol. 14, n. 8, pp. 839-842
Tutto aperto, niente cambia
È quindi in un certo senso una grande fortuna che la maggior parte delle proposte oggi siano “un minestrone insipido” che spesso non sortisce alcun risultato concreto tranne un fugace brivido lungo la schiena al praticante e qualche banconota nelle tasche di chi le propone, e che in certe esperienze la Kundalini assomigli più a un innocuo orbettino che a un selvaggio serpente tropicale.
Eppure, ci piace pensare che il suono di una campanella, un sasso o una posizione corporea stimoli e riequilibri centri sottili che non abbiamo mai visto né sentito, anche se averne letto o sentito parlare ce ne suggerisce la suggestione, oltre al bisogno di “pulirli” e “purificarli”. Del resto, anche il mondo post-New Age risponde alle leggi del business: prima di tutto, crei la percezione del bisogno e quindi la domanda e l’indotto della ‘manutenzione’.
Ho conosciuto molte persone, inamovibili nella propria convinzione di aver vissuto una risalita della Kundalini, “aperture” di chakra, morti mistiche o altre extra-ordinarie esperienze spirituali grazie a una sessione con qualche operatore olistico, sia esso sciamano, massaggiatore istruttore di yoga o master reiki, o una macedonia di tutte queste figure.
Eppure, per dubitare dell’eccezionalità di tali esperienze basterebbe constatare che la loro vita procede invariata, con gli stessi ritmi sonnolenti e gli stessi problemi coniugali, la stessa ipocondria, lo stesso bisogno di certezze di sempre. Spesso – a discapito dell’abuso della terminologia terapeutica – anche con più o meno gravi problemi di salute che spesso si aggravano per non aver fatto ricorso a cure adeguate. Se vi è entusiasmo assoluto all’inizio, il più piccolo richiamo alla realtà della vita fa crollare tutto il castello di carte, gettando l'”adepto” nel sentimento opposto.
Basterebbe insomma questo per constatare che, delle due l’una: o le esperienze mistiche descritte dai testi come cataclismi non sono un granché dal punto di vista della vita pratica – avvallando quindi la poco entusiasmante tesi che ‘vita’ e spirito corrano su binari separati – oppure le suddette pratiche non sono servite a molto.
Ancora più seri dubbi dovrebbero nascere considerando che i risultati promessi siano offerti a chiunque paghi la quota di partecipazione, come abbiamo già notato altrove, senza alcuna considerazione per le problematiche pregresse con cui queste pratiche possano interagire.
Da parte mia, trovo veramente poco sensato pilotare voli pindarici quando il problema fondamentale di ogni persona è di non essere in grado di sentire intere aree del proprio corpo. Paradossalmente, questi sintomi psicosomatici possono essere letti proprio come conseguenze di uno squilibrio energetico, ma l’idea di avere un chakra fuori posto o evocare potenze cosmiche è molto più spesso un’altra sovrastruttura che separa dalla capacità di percepirsi, alimentando un dualismo tra materia e spirito che aliena ancora di più dalla realtà.
Fanno eccezione, ovviamente, i casi in cui per qualche disgraziata coincidenza qualcosa sortisce veramente un effetto, ricadendo nella casistica più sopra accennata, nel qual caso suggerisco un bravo psichiatra.
Ma quali Chakra?
E qui giungiamo all’altro corno della questione, che forse è ancora più importante. I “sette chakra” e la geografia energetica annessa fanno parte ormai ‘assodata’ della fisiologia sottile legata non solo allo yoga, ma a tutta una serie di successive pratiche e teorie nate in seno all’Oriente e all’Occidente.
Basta scegliere un sito a caso per conoscerne la collocazione, il colore, i suoni associati e tutte le altre caratteristiche di ognuno di essi. Queste informazioni sono ricavabili da numerosi manuali – a volte anche molto autorevoli – che per ragioni didattiche possono anche essere utili, ma la cui assertività sembra spesso far dimenticare che ci troviamo di fronte più a un artefatto culturale che a una descrizione anatomica con pretese di realismo.
Del resto, se per la tradizione indiana i centri energetici sono generalmente sette fiori di loto, mentre per quella cinese sono più sinteticamente tre campi di cinabro, è per la scelta di un particolare algoritmo, del simbolismo più affine alla propria sensibilità, e anche per un po’ di folklore.
Ma anche all’interno del paradigma indiano a sette centri, la dose di interpretazione rispetto alle fonti è molto maggiore di quanto non sembri, e in una certa misura dipende dalla diversità delle esperienze e delle sensibilità di cui parleremo tra breve, ma ci fa anche comprendere quanto sia problematico voler definire fenomeni energetici con gli attributi della massa.
Particolare incertezza riguarda ad esempio la localizzazione del terzo centro, Manipura Chakra, sede dell’energia vitale e della capacità di assimilazione: comunemente collocato all’altezza dell’ombelico, secondo alcuni si trova due dita al di sotto di esso, come il dan tien addominale cinese o l’hara giapponese; secondo altri ancora si trova al plesso solare, il quale però è a volte considerato un centro a parte, Surya Chakra.[irp]
Del resto non è mai chiaro se i centri o i loro punti di innesto siano da collocare sull’asse frontale del busto, sul dorso o su entrambi i lati, o se si debba considerare due serie distinte di chakra anteriori e posteriori.
Come si può comprendere, le localizzazioni energeticamente rilevanti sono molto più di sette, e non solo lungo l’asse centrale del corpo: stabilire le capitali e i capoluoghi di provincia ha senso solo rispetto a un sistema, e i sistemi sono tanti.
La fonte del modello a 7 chakra oggi dominante è il Shatchakranirupana, un testo del XVI secolo reso celebre agli inizi del Novecento dalla traduzione di Arthur Avalon.2Arthur Avalon, Il Potere del Serpente, Mediterranee, Roma Secondo Eric Baret, questo testo si rifà a sua volta al Kubjikamata-tantra del X secolo, appartenente alla tradizione tantrica Kaula.
Lo stesso schema dei chakra è riprodotto anche nella Shiva Samhita, uno dei testi medievali ritenuti fondamentali dell’haṭhayoga, sebbene, come osserva Mallinson, i primissimi testi di questa tradizione non nominino né i chakra ne la Kundalini, che sarebbero stati introdotti in seguito a una sintesi più tarda.3James Mallinson, Interview with James Mallinson “Sanskrit and paragliding”
Come osserva Christopher Wallis, la divulgazione di Avalon rimane la fonte principale di tutte le trattazioni occidentali sul tema e, di ritorno, ha influito pesantemente anche sulle scuole orientali contemporanee (caso non raro, come ho evidenziato alle āsana yogiche). Tuttavia, anche nell’ambito del tantrismo indiano questo è solo uno dei tanti sistemi di chakra, dato che ogni tradizione ne aveva elaborato uno: a cinque, a sei, a sette, a dieci, a venti o anche più chakra.
Ma c’è un elemento ancora più importante che secondo Wallis sarebbe sfuggito alla traduzione di Avalon. I sistema dei chakra non descriverebbe degli “organi” della fisiologia energetica, bensì prescriverebbe delle pratiche di visualizzazione in determinate localizzazioni particolarmente sensibili, ma che varierebbero a seconda dello scopo della pratica.
I testi […] dicono ciò che si deve fare per raggiungere un obiettivo specifico per scopi mistici. Quando il sanscrito letterale recita, nel suo modo ellittico, ‘loto a quattro petali alla base del corpo’ dovremmo comprendere ‘lo yogi dovrebbe visualizzare un loto a quattro petali …’
Del resto, anche Eric Baret ammoniva:
Insegnate come una realtà da imparare a memoria per gli esami delle federazioni di yoga, il senso tradizionale di queste immagini spesso non viene capito. Quando si indica un colore che corrisponde a un centro sottile non si tratta di un colore che può essere immaginato dalla nostra memoria, ma che si riferisce piuttosto a una percezione: un uomo nero non implica l’appartenenza alla razza africana, un uomo leggero non implica l’assenza di peso, un uomo amaro non implica il sapore della pelle. Così, i colori, gli odori, le forme attribuite ai diversi recettori del corpo sottile non sono da prendere alla lettera.4Eric Baret, Yoga Tantrico: Asana e Prāṇāyāma del Kashmir
Insomma, prendere alla lettera i sette chakra (o i cinque, i tre, i dodici…) e i loro attributi sarebbe come interpretare la teoria tradizionale dei cinque elementi alla stessa stregua della tavola periodica della chimica moderna.
In conclusione
La vera questione, tuttavia, non è tanto stabilire una verità con la filologia, bensì quanto la convinzione di avere dei chakra possa colorare e limitare l’esperienza entro schemi arbitrari.
Personalmente, ritengo che la presunzione scolastica di un percorso lineare (apertura dei chakra, apertura della sushumna, risalita della kundalini) allontani da un vero lavoro veramente ‘olistico’ che si sviluppi in ogni direzione, creando a priori l’esperienza e portando a trascurare e a considerare come periferici fenomeni altrettanto importanti ma non presenti sulle mappe, percezioni che, in quanto autentiche, non hanno nome.
Del resto, basterebbe consultare due o tre manuali che illustrano le āsana per accorgerci che ognuno attribuisce alla stessa posizione la stimolazione o l’attivazione di centri energetici diversi. Ciò potrebbe indurre a domande imbarazzanti: dove dobbiamo dirigere l’attenzione nell’eseguire trikonāsana? È proprio vero che le posture di apertura del torace stimolano il centro del cuore, come sostengono i tutorial delle riviste di yoga? E la posizione sulla testa attiva davvero il chakra della corona?
Il fatto è che ognuna di queste informazioni, ogni cosa che pensiamo debba accadere è una contrazione della capacità di ascoltare l’āsana che prende forma.
Insomma, il rischio di questi schemi ormai scontati nello yoga di massa è di restaurare un riduzionismo cambiandone solo i termini, e allora il tanto decantato paradigma olistico è semplicemente, come si suol dire nel mondo contadino, un “cambiar sacco”, scambiare le proprie lenti colorate con lenti di altro colore.
Citando di nuovo Odier e tirando le somme:
Dimenticate i chakra, la loro percezione è completamente condizionata e illusoria, e dipende dalle vostre credenza. Se pensate che siano sette, ne sentirete sette. Se pensate che siano dodici, ne sentirete dodici. Se credete che non esistano affatto, ne sentirete mille. L’importante è che l’attenzione diventi più intensa, la capacità di concentrazione più acuta, e ciò porta alla possibilità di sentire intensamente tanto le aperture quanto le chiusure.5Daniel Odier, L’incendio del cuore: il canto tantrico del fremito, Editrice Psiche
La scelta non è mai tra un sistema teorico giusto e uno sbagliato. La scelta è sempre tra farsi raccontare cosa bisognerebbe sentire o farsi mettere nelle condizioni di sentire noi stessi. Con la prima opzione, si finisce spesso a ricercare infelicemente le indie segnate sulle mappe, senza accorgersi di camminare già in un continente sconosciuto che si ricrea a ogni istante.
In definitiva, aprirsi un chakra può essere interessante soltanto finché c’è qualche vantaggio personale da ricercare, sia esso imparare ad amare o smettere di litigare con i colleghi di lavoro. Il fatto è che nel momento stesso in cui c’è appropriazione, tutto è finito, proprio come quando si cerca di appropriarsi del silenzio mentale nella meditazione. Per guarire da questo, e ho davvero terminato, voglio concludere con un passo di Jean Klein, che aggiunge l’unico tassello senza il quale ogni sforzo – e ogni discorso – risulterebbe oltremodo farsesco:
D: Perché si verifichi la realizzazione, il chakra della corona deve aprirsi?
JK: La comprensione porta all’apertura spontanea dei centri energetici. Non interagisci con questi centri in sé stessi. Puoi, ovviamente, aprire certi centri, ma ciò non ti porterà la comprensione. È la comprensione che ti apre.
[…] Quando [il chakra della corona] è realmente aperto attraverso la comprensione, non c’è più alcuna identità con l’ego e non consideri più te stesso come una entità personale. È la consapevolezza che sei un canale, niente più. 6Jean Klein, The book of listening, Non-Duality Press, 2008-2013
Post scriptum del 2018
Credo sia interessante riportare in appendice un brano da Roots of Yoga di James Mallinson e Mark Singleton, che all’epoca della prima pubblicazione di questo articolo era ancora inedito. Il capitolo V, Yogic Body porta alla luce la grande variabilità dei modelli premoderni di corpo nelle diverse tradizioni (pur rilevando temi comuni che hanno portato a un modello più omogeneo), e le dissonanze cognitive dovute al trapianto di tali modelli nel contesto del moderno yoga globalizzato, dominato dal modello medico scientifico (per maggiori approfondimenti invito a leggere il capitolo – se non il volume – per intero):
Uno dei principali contesti concettuali per il corpo del praticante nell’odierno yoga globalizzato è il corpo empirico, anatomico, biologico e bio-medico. La predominanza del realismo medico-scientifico nel discorso popolare sullo yoga tende a oscurare o dislocare visioni più tradizionali del corpo e ha pertanto, mutatis mutandis, rimodellato la funzione percepita delle pratiche yogiche in sé. Ciò è altrettanto (e forse in special modo) vero quando i termini della fisiologia yogica vengono importati nelle moderne pratiche di yoga e sono reinterpretate entro parametri culturali ed ermeneutici lontani da quelli premoderni.
(…) Differenti tradizioni presentano differenti corpi yogici, alcuni dei quali sono complementari e comparabili, altri dei quali non lo sono (per non parlare della vasta variabilità di corpi in altre branche del pensiero e delle prassi indiane pre-moderne, come nell’Ayurveda). Ciò accade in parte perché i corpi yogici compaiono in accordo a un particolare rituale, a requisiti filosofici o dottrinali della tradizione in questione, e perché sono espressioni di tali requisiti, piuttosto che descrizioni di corpi empirici auto-evidenti comuni a tutti gli umani. In altre parole, i fini di un particolare sistema determinano il modo in cui il corpo è immaginato e utilizzato nelle pratiche yogiche. Il corpo yogico era – e continua a essere in circoli di praticanti – qualcosa di costruito o ‘scritto’ sul e nel corpo del praticante dalla tradizione stessa.7J. Mallinson, M. Singleton, Roots of Yoga, Penguin, 2017
Note
↑1 | A. Valanciute and L.A. Thampy, Physio Kundalini syndrome and mental health, in Mental Health, Religion & Culture, vol. 14, n. 8, pp. 839-842 |
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↑2 | Arthur Avalon, Il Potere del Serpente, Mediterranee, Roma |
↑3 | James Mallinson, Interview with James Mallinson “Sanskrit and paragliding” |
↑4 | Eric Baret, Yoga Tantrico: Asana e Prāṇāyāma del Kashmir |
↑5 | Daniel Odier, L’incendio del cuore: il canto tantrico del fremito, Editrice Psiche |
↑6 | Jean Klein, The book of listening, Non-Duality Press, 2008-2013 |
↑7 | J. Mallinson, M. Singleton, Roots of Yoga, Penguin, 2017 |
irenebimbasperduta dice
Grazie! Un articolo bellissimo! hai espresso magnificamente ciò che ho intuito da molto e che non sono mai riuscita ad esprimere con tanta chiarezza, certamente per mancanza di cultura yogica. Non sono, infatti, un’esperta in materia e, sinceramente, non voglio diventarlo. Per carità ho profondo rispetto per la cultura Yogi ma proprio per questo non ho mai approfondito i chakra. Personalmente mi occupo di cartomanzia, ne studio la storia, l’utilizzo in meditazione ecc. considerandoli uno dei mille strumenti a nostra disposizione per conoscerci meglio, sapere chi siamo e risvegliare la nostra vera natura. I Tarocchi, però, poco o nulla hanno da spartire con i chakra ed a me il polpettone piace solo al forno e il minestrone solo d’inverno, mentre fuori piove o nevica.
Uso tuttavia molto raramente la parola chakra perché è spesso il modo più veloce per spiegare un concetto, specialmente quando facciamo alcune meditazioni che nascono dal mio personale percorso. Penso che, se per te va bene, citerò spesso e userò questo tuo articolo, ovviamente citando adeguatamente la fonte. Un’ultima cosa. Questa mattina, in meditazione, ho chiesto un segno per una cosa e il tuo articolo è la risposta che cercavo. Grazie mille.
paolorrrossi dice
“…è sufficiente leggere o testi per rendersi conto che si tratta di esperienze “transfisiologiche”, che tutti questi “chakra” rappresentano degli “stati yoga” inaccessibili senza un’ascesa spirituale: le mortificazioni e le discipline puramente psicofisiologiche non sono sufficienti a “risvegliare” i “chakra” o per penetrarli…”
Mircea Eliade, Lo Yoga, p223, trad Furio Jesi, BUR, 1973 (prima edizione 1954)
Gabriele Andreoli dice
Questo discorso ha perfettamente senso (come quello di Wallis) sul piano razionale. La sua logica però indica a mio avviso una pratica yogica poco efficace. Concordo che non sia bene fissarsi sui chakra e che c’è molta confusione a riguardo, negarne la preminenza significa però gettare il bambino con l’acqua sporca. Manipura si trova esattamente fra la 12a vertebra toracica e la 1a lombare. Non ci sono dubbi. È vero che lo si può percepire anche in punti circostanti, come quando si ha un forte mal di denti e il dolore si espande ben oltre il dente cariato! In questo non c’è nulla di ‘prescrittivo’, altrimenti non si spiega come chiunque ne sperimenti il risveglio lo descriva esattamente con le stesse parole: tat twam asi – questo sei tu. E l’esperienza dell’identità assoluta cambia eccome le cose sul piano soggettivo! Niente è più uguale a prima, mai più. Questo significa che possiamo smettere di mangiare, pagare il mutuo, fare sesso e fare figli con tutte le difficoltà e i conflitti che ciò comporta? Certo che no. Certo che il piano di realtà è totalmente separato da quello spirituale! Lentamente, il risveglio spirituale agisce sul modo in cui ci relazioniamo con la realtà, ma questo è un processo graduale e… dolorosissimo! Qui sta forse il principale equivoco: il risveglio dei chakra è solo l’inizio dello yoga, non la fine 😉
Francesco Vignotto dice
Gentile Gabriele,
puoi sentire il manipura chakra dove hai indicato. Chi te lo proibisce?
L’articolo pone dei problemi sul piano pedagogico, tenendo conto che in varie tradizioni (nello yoga, e non solo) sono espresse idee diverse, e invita a contemplare questi apparenti contrasti.
Le tue piante crescono? Poco importa che il tuo metodo di coltivazione mi risulti inefficace sulla carta, buon per te!
Un saluto
Francesco