• Skip to primary navigation
  • Skip to main content
Zénon Yoga Novara

Zénon Yoga Novara

  • Home
  • Corsi
    • Tutti i corsi e gli orari
    • Yoga
      • Yoga (lezioni collettive)
      • Respirazione – Pranayama
      • Tandava
    • Yoga in gravidanza
    • Attività Post Parto: yoga e allenamento funzionale
    • Qi Gong e Taijiquan
    • Functional Training
    • Meditazione
  • Eventi
  • Chi siamo
  • Blog
  • Contatti

meditazione Novara

Articoli    meditazione    Yoga

Meditare nel post-pandemia: un’inversione di tendenza

7 Giugno 2022 di Francesco Vignotto

C’era tutto un discorso in quel silenzio,
tutto un parlare in ogni muto gesto;
pareva come se avessero appreso
ch’era stato salvato un mondo intero,
o che un mondo era andato in distruzione;

W. Shakespeare, Il racconto d’inverno

Saranno stati i due anni di follia pandemica e il presente ancora più subdolamente fosco, saranno i mantra della normalità che, falliti una volta, non si libereranno facilmente di quel sapore di impostura. Eppure devo registrare – personale statistica senza pretese universali – un crescente interesse nei confronti della meditazione e in generale per gli aspetti più interiori dello yoga, più che per i suoi risvolti cosmetici a livello corporeo.

Altrove si parla addirittura di un italiano su cinque che medita regolarmente: forse è una stima un po’ esagerata, ma gli umori che fiuto nell’aria mi dicono che la materia è uscita dalla nicchia e dal gergo della sottocultura. La novità è che, a quel che vedo, è un interesse asciutto, essenziale, schivo di pose e di frasi fatte, poco o nulla intellettualistico e alieno dal rischio del ‘bisogna crederci’. In una parola mi verrebbe da dire: sincero.

Novità nella novità, alle sessioni di meditazione si vedono anche persone molto giovani, giovani che in epoca pre-Covid avrebbero forse dedicato più volentieri il proprio tempo a qualcosa di più movimentato. Spesso, chi arriva ha già afferrato il succo, magari grazie a un assaggio durante il periodo di reclusione forzata con qualche video su internet (mi ricordano che esistono anche delle app per meditare: ben vengano, se risvegliano il desiderio di qualcosa di più vivo).

Così anche quel periodo che tutti ripetiamo di volerci lasciare alle spalle ha dato i suoi frutti, oltre a cicatrici forse indelebili, trasformando per alcuni le pesanti restrizioni in occasione per scoprire il valore del raccoglimento, la necessità di sfiatare la mente come difesa di fronte a una realtà che, rivelandosi all’improvviso friabile, lascia ben pochi degli appigli usuali.

Mai come oggi la meditazione è tema vivo, ma non di moda: mi piace pensare che sia piuttosto la maglia che non tiene in una attualità sempre più argomentante a vuoto. Non si medita per essere più efficienti al lavoro, per sentirsi parte di una comunità, e forse nemmeno per essere più sereni. Si medita perché è essenziale almeno quanto mangiare o evacuare: questo è ciò che mi sembra le persone colgano oggi – spesso da sole, senza bisogno di essere imboccate – molto più di ieri. Più che la ricerca di un rifugio, mi sembra la constatazione, o perlomeno il presentimento, di quale sia la reale gerarchia.

Anche per questo, se un tempo mi sentivo di sconsigliare un approccio diretto con la meditazione, ma di familiarizzare con la pratica corporea e respiratoria dello yoga (o qualunque attività che porti al silenzio), oggi i tempi mi sembrano drammaticamente cambiati.

Lo noto dalla semplicità con cui a fronte di poca o nulla esperienza le persone familiarizzano con un’attività in cui non c’è nulla da fare, da come le sessioni si possano allungare e scarnificare di istruzioni, da silenzio a silenzio. Capita sempre meno che qualcuno si trovi nel luogo sbagliato; chi chiede di meditazione, quasi sempre cerca quello, non qualcos’altro. Vuole approfondire, non prendere ciò che serve e lasciare ciò che appare superfluo.

Certo, ci sarà sempre la superficialità del mercato, ma anche quella dei sacerdoti che cercheranno di metterci il cappello, dei cavillatori che troveranno dei vizi di forma, degli utenti precoci disturbati dai nuovi arrivi. Tuttavia ciò che è autentico è spesso semplice, elementare, forse d’istinto, come pregare, o semplicemente tacere.

Secondo la tradizione Tantrica classica, nella vita di un individuo si può verificare un evento che segna un’inversione di tendenza, dalla contrazione (il sentimento di separazione dal resto del mondo che è connaturato all’esistenza individuale ed è origine della sofferenza) verso l’espansione, ovvero l’esperienza di fluidità tra sé e tutta la realtà esistente.

Questo evento può manifestarsi in modalità clamorose oppure pressoché silenti. In quest’ultimo caso, i segni sono da rintracciare nella vita di tutti i giorni. Christopher Wallis 1C. Wallis, Tantra Illuminated: The Philosophy, History and Practice of a Timeless Tradition, MATTAMAYŪRA PRESS osserva che uno di questi segni è proprio il fatto che “quando si chiudono gli occhi, si rallenta il respiro e si rivolge l’attenzione all’interno, si percepisce immediatamente un senso di presenza, una percezione di dolcezza nel semplice stare con il proprio sé interiore”. Per chi quella svolta non è ancora arrivata, è difficile cogliere il senso di rivolgersi all’interno: mostreranno impazienza, avranno bisogno di spiegazioni, lo troveranno estremamente arduo e infruttuoso.

Ebbene, dalla pandemia in poi non ho mai osservato così tante persone che il senso lo colgono perfettamente. Grazie, qualcuno dirà, chi frequenta un centro di yoga è già un campione selezionato e orientato in quella direzione. Ma invece non è così scontato e se in precedenza molti avevano bisogno di molto lavoro – molte cose da fare – per trovarsi infine e momentaneamente a proprio agio con qualche fortuito istante di silenzio, ora invece i più si trovano già a proprio agio fin dall’inizio nell’interiorizzarsi. 

Alla luce di tutto questo, forse si potranno trarre alcune conclusioni su ciò che obiettivamente può essere classificato come ‘trauma collettivo’, e sul fatto che le macerie e le ferite sono solo una parte della realtà, una porzione delle conseguenze: è proprio di tempi inconcepibili, in mezzo a tanta sofferenza e incertezza, anche la possibilità di afferrare in un istante ciò che non basterebbe una vita per comprendere. 



P.S.: questo articolo doveva inizialmente rispondere ad alcune domande di approfondimento sulla pratica poste da chi frequenta il nostro centro. Arriverà anche quello, molto presto, in altri articoli. Per ora mi sembravano doverose queste considerazioni: parlare di questi temi oggi non è come parlarne ieri, i tempi sono completamente cambiati e forse non è una del tutto cattiva notizia.

Note[+]

Note
↑1 C. Wallis, Tantra Illuminated: The Philosophy, History and Practice of a Timeless Tradition, MATTAMAYŪRA PRESS
Leggi

Articoli    meditazione    Yoga

Senza categoria

Meditare nel post-pandemia: un’inversione di tendenza

6 Giugno 2022 di Francesco Vignotto

C’era tutto un discorso in quel silenzio,
tutto un parlare in ogni muto gesto;
pareva come se avessero appreso
ch’era stato salvato un mondo intero,
o che un mondo era andato in distruzione;

W. Shakespeare, Il racconto d’inverno

Saranno stati i due anni di follia pandemica e il presente ancora più subdolamente fosco, saranno i mantra della normalità che, falliti una volta, non si libereranno facilmente di quel sapore di impostura. Eppure devo registrare – personale statistica senza pretese universali – un crescente interesse nei confronti della meditazione e in generale per gli aspetti più interiori dello yoga, più che per i suoi risvolti cosmetici a livello corporeo.

Altrove si parla addirittura di un italiano su cinque che medita regolarmente: forse è una stima un po’ esagerata, ma gli umori che fiuto nell’aria mi dicono che la materia è uscita dalla nicchia e dal gergo della sottocultura. La novità è che, a quel che vedo, è un interesse asciutto, essenziale, schivo di pose e di frasi fatte, poco o nulla intellettualistico e alieno dal rischio del ‘bisogna crederci’. In una parola mi verrebbe da dire: sincero.

Novità nella novità, alle sessioni di meditazione si vedono anche persone molto giovani, giovani che in epoca pre-Covid avrebbero forse dedicato più volentieri il proprio tempo a qualcosa di più movimentato. Spesso, chi arriva ha già afferrato il succo, magari grazie a un assaggio durante il periodo di reclusione forzata con qualche video su internet (mi ricordano che esistono anche delle app per meditare: ben vengano, se risvegliano il desiderio di qualcosa di più vivo).

Così anche quel periodo che tutti ripetiamo di volerci lasciare alle spalle ha dato i suoi frutti, oltre a cicatrici forse indelebili, trasformando per alcuni le pesanti restrizioni in occasione per scoprire il valore del raccoglimento, la necessità di sfiatare la mente come difesa di fronte a una realtà che, rivelandosi all’improvviso friabile, lascia ben pochi degli appigli usuali.

Mai come oggi la meditazione è tema vivo, ma non di moda: mi piace pensare che sia piuttosto la maglia che non tiene in una attualità sempre più argomentante a vuoto. Non si medita per essere più efficienti al lavoro, per sentirsi parte di una comunità, e forse nemmeno per essere più sereni. Si medita perché è essenziale almeno quanto mangiare o evacuare: questo è ciò che mi sembra le persone colgano oggi – spesso da sole, senza bisogno di essere imboccate – molto più di ieri. Più che la ricerca di un rifugio, mi sembra la constatazione, o perlomeno il presentimento, di quale sia la reale gerarchia.

Anche per questo, se un tempo mi sentivo di sconsigliare un approccio diretto con la meditazione, ma di familiarizzare con la pratica corporea e respiratoria dello yoga (o qualunque attività che porti al silenzio), oggi i tempi mi sembrano drammaticamente cambiati.

Lo noto dalla semplicità con cui a fronte di poca o nulla esperienza le persone familiarizzano con un’attività in cui non c’è nulla da fare, da come le sessioni si possano allungare e scarnificare di istruzioni, da silenzio a silenzio. Capita sempre meno che qualcuno si trovi nel luogo sbagliato; chi chiede di meditazione, quasi sempre cerca quello, non qualcos’altro. Vuole approfondire, non prendere ciò che serve e lasciare ciò che appare superfluo.

Certo, ci sarà sempre la superficialità del mercato, ma anche quella dei sacerdoti che cercheranno di metterci il cappello, dei cavillatori che troveranno dei vizi di forma, degli utenti precoci disturbati dai nuovi arrivi. Tuttavia ciò che è autentico è spesso semplice, elementare, forse d’istinto, come pregare, o semplicemente tacere: è proprio di tempi inconcepibili, in mezzo a tanta sofferenza e incertezza, anche la possibilità di afferrare in un istante ciò che non basterebbe una vita per comprendere.


P.S.: questo articolo doveva inizialmente rispondere ad alcune domande di approfondimento sulla pratica poste da chi frequenta il nostro centro. Arriverà anche quello, molto presto, in altri articoli. Per ora mi sembravano doverose queste considerazioni: parlare di questi temi oggi non è come parlarne ieri, i tempi sono completamente cambiati e forse non è una del tutto cattiva notizia.

Leggi

Senza categoria

Articoli    meditazione

La meditazione può essere ‘usata’ per alleviare lo stress?

13 Febbraio 2020 di Francesco Vignotto


E anche se arriverà sempre qualcuno più furbo degli altri a proporti qualcosa di più abbordabile, una risposta sensata alla domanda contenuta nel titolo potrebbe essere: occorre che si disimpari a usare; a fare per qualcosa; a prendere solo quello che serve, e a scartare quello che non sembra portare acqua al mulino.

È una non risposta, è vero. Ma non è possibile approcciare al tema della meditazione come un oggetto comune del discorso, se non per vie laterali. Meditare è un verbo ma ciò che indica non è un’azione né uno stato, non è una cosa, non è la tecnica che può essere insegnata, non sono le fasi descritte analiticamente nei libri per necessità didattiche.

La meditazione è confronto con il silenzio e il silenzio non è negoziabile, anche se possiamo essere più o meno permeabili, più o meno resistenti al silenzio e anche constatare la resistenza è già il silenzio. Ma anche questa è solo una formulazione, che come sempre non è da prendere alla lettera.

Se accostarsi alla meditazione insegna qualcosa, è che le delimitazioni sono solo delle idee, per quanto occasionalmente utili a raccogliere le energie disperse. Non è possibile stabilire fin dove si vuole arrivare, ed avere la garanzia di lì fermarsi: ad alcuni bivi si può decidere la direzione, ma una volta instradati in certe correnti, cedere diventa una virtù.

Da questa prospettiva, ciò che sperimentiamo come stress è proprio l’attrito lungo la frontiera, l’abuso di legittima difesa del sé nei confronti dell’altro da sé. Ciò che può suggerire la meditazione è che sono io ad aggredirmi nell’altro, e la mano rivolta contro di me sarà un invito a rimettere in discussione il confine stesso, anche se non necessariamente abolirlo.

Come scriveva proprio su questo sito Marco Invernizzi in Lo Zen e le neuroscienze:

Uno slittamento appena impercettibile quanto il passaggio dalla veglia al sonno, “niente di speciale”, che nulla cambia formalmente ma che proprio per questo è l’essenza di un vero ri-conoscimento: ovvero prendere atto della realtà così com’è, spoglia dalla pretesa di deformarla secondo la propria egocentrica immagine e somiglianza.

Una realtà che non è soppressione del sé in favore dell’altro, bensì una terza condizione estranea all’esperienza ordinaria ma che non nega l’ordinaria esperienza.

Perciò la meditazione volta ai conseguimenti mondani o spirituali, laica religiosa o agnostica, finalizzata al successo, alla salute, all’efficienza sul lavoro, ad accrescere l’autostima, sono delimitazioni di campo, nomi di imballaggio, laddove l’autenticità è proprio nello sgretolarsi delle linee, inoltrarsi nel non so.

Meditare è un non-atto rivoluzionario proprio perché significa dedicarsi a qualcosa che è radicalmente privo di utilità: forse questo è l’unico aspetto genuinamente terapeutico. Scegliere qualcosa che non ti renderà ricco anche se non hai soldi, non ti curerà da ogni male anche se sei malato, non migliorerà le tue prestazioni né ti salverà dal destino che attende tutti: scegliere quel niente ha qualcosa di eroico, è un soffio, ma è quel soffio per cui vale la pena vivere (e morire).

Sembrerebbe questo un discorso volto a scoraggiare, e invece è un avvertimento: c’è uno stadio ulteriore al disincanto, un senso che attraversa la mancanza straziante di senso, in cui ogni scheggia esplosa appare infine nella sua vera sede. È questo, ne sono convinto, il motivo di fondo, spesso inconscio, per cui la meditazione è un argomento che suscita un sincero interesse oggi, al di là delle mode e degli annunci sensazionali: c’è un bisogno primario e non alienabile di andare alla radice. Radice che è prossima, non privatizzabile.

Perciò, in questa sede, sono pressoché irrilevanti le questioni storiografiche o dottrinarie, ma conta solo l’urgenza: l’essere umano, l’inquietudine che lo accompagna, e una possibile via d’uscita.

Via di uscita che non può essere una via di fuga, altra illusione spesso ben mimetizzata e protocollata, ma un passaggio attraverso, estremamente disponibile in ogni momento: la questione, semmai, è imparare ad accettare tale disponibilità, anche quando si ha la casa in disordine e mai più si penserebbe di ricevere visite.

Tuttavia, sebbene a livello popolare si sappia che la meditazione ha a che vedere con la calma della mente, al tempo stesso sembra richiedere un impegno che è fuori della portata comune: ascoltare quando si vorrebbe parlare, stare immobili quando si vorrebbe scappare, concentrarsi a lungo su qualcosa quando si è continuamente distratti da altro, non grattarsi quando si prova un forte stimolo a farlo.

Tutto questo è in moltissimi casi una disciplina propedeutica indispensabile, ma può creare l’equivoco che la questione sia resistere, resistere a oltranza in una guerra di trincea senza tregua contro le proprie inclinazioni; invece, una volta acquisiti e interiorizzati gli strumenti, è d’obbligo capovolgere la prospettiva: la meditazione è la tregua.

Stabilire perché i combattimenti si siano arrestati proprio in quel momento, è simile al triste compito del sondaggista che all’indomani delle elezioni si trova a spiegare perché le sue previsioni sono state smentite dalle urne.

Per questo, la meditazione non è il discorso, ma il punto che riassorbe nel silenzio tutte le parole dette. Un punto che però non arriva per esigenze grammaticali, ma che per ragioni estranee al testo interrompe le trasmissioni, e ci si trova all’aperto quando neppure ci si ricordava di essere segregati.

Se l’attenzione restasse sulle parole, se l’accento rimanesse su ciò che facciamo, dal sederci al respirare o al cantare estaticamente, allora sarebbe una triste pantomima, un tastare nel buio alla ricerca di qualcosa che porterà a qualcos’altro ancora senza fine, è un tardo rituale che ha perso il senso originario di ciò che rappresentava: non è la formula salvifica ma l’aguzzino sotto un nuovo travestimento.

Certo, nonostante ciò e proprio per questo, vale la pena sedersi a meditare: ma consapevoli che lo sciogliersi della riserva probabilmente non arriverà durante la lezione settimanale, né di fronte a un tramonto sulla spiaggia, né durante il ritiro di vipassana; magari nei miasmi mattutini di un autobus affollato, o al culmine di una rovinosa litigata, o di fronte a una discarica abusiva.

E sarà di una semplicità talmente sconvolgente, che forse nemmeno sarà riconosciuto. Se la lotta sembrava persa in partenza davanti allo scalino troppo irto del silenzio, in realtà tu stai reggendo la parete, il silenzio è inevitabile.

Leggi

Articoli    meditazione

Giappone    highlights    meditazione

Lo Zen e le Neuroscienze: il Sé e l’Altro

7 Febbraio 2017 di Marco Invernizzi


Da molti anni lo studioso e neuroscienziato J.H. Austin  si interessa di processi cognitivi, neuroanatomia e neurofisiologia della meditazione. Oltre a decine di suoi articoli in ambito neuroscientifico, sicuramente il libro intitolato Zen and the Brain, di cui è autore, ha segnato un punto cruciale nella ricerca in questo ambito.

Un recente articolo, pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology, cerca di riassumere brevemente, per quanto possibile, alcune delle scoperte di Austin in oltre 30 anni di ricerca sulla meditazione in ambito neurofisiologico. [1]

Come inizio del suo approccio a questa problematica, Austin fa emergere chiaramente come due mondi apparentemente inconciliabili quali la neurofisiologia e lo Zen in realtà abbiano molti più punti in comune di quello che si possa immaginare, e come i neuroscienziati possano intuire molto delle dinamiche e dei processi cognitivi dallo studio di questa tradizione, e viceversa.

Cenni Storici

Come già tracciato da Francesco Vignotto su questo blog, lo Zen è una corrente buddhista giapponese che a sua volta deriva dalle scuole Chan cinesi, a loro volta fondate secondo la tradizione dal leggendario monaco indiano Bodhidharma nel V secolo dopo Cristo.

Il termine Zen sarebbe proprio l’adattamento in Giapponese del termine Chan, che a sua volta traduceva il termine sanscrito dhyāna che nell’insegnamento originale del Buddha è il termine utilizzato per descrivere, per quanto possibile a parole, lo stato di meditazione.

Sarebbe tuttavia riduttivo ricondurre lo Zen/Chan al solo alveo del buddhismo (alle cui scritture riserva peraltro un’attenzione limitata), perché reca altrettanto evidente l’influsso del taoismo, da cui ha ereditato l’approccio essenziale e immediato.

220px-Dogen
Eihei Dōgen (永平道元禅師, Eihei Dōgen zenji; Kyoto, 2 gennaio 1200 – Kyoto, 28 agosto 1253)

Ciò è particolarmente evidente proprio nella pratica meditativa più conosciuta, lo Zazen, definita in una serie di trattati dal fondatore della scuola Zen Soto Dogen Zenji (1200-1253).

Attraverso il controllo di corpo (la postura), respiro e mente (i cui soffi e i cui pensieri vengono osservati senza interferire, come nuvole che passano nel cielo) nello Zazen la meditazione è concepita non come un mezzo di progressiva verso l’illuminazione, ma spesso come l’esperienza stessa del risveglio.

Risveglio, illuminazione, ovvero satori, che spesso viene descritto come evento fulminante e al tempo stesso come “niente di speciale”, affermazione apparentemente sul filo del paradosso (lo Zen ama i paradossi, anche quando si fa gioco di sé stesso) che allude alla caduta di quel diaframma tra il sé e l’altro di cui parleremo tra breve.

 

I quattro capisaldi Zen

Austin, prima di entrare nel vivo del discorso, accenna brevemente a quattro capisaldi dello Zen che aiutano a comprendere meglio alcuni aspetti di questa Tradizione e i fini che si prefigge:

  1. il consapevole allenamento dell’attenzione e della percezione durante le attività del vivere quotidiano;
  2. l’eliminazione delle abitudini negative esageratamente centrate su sé stessi (egoisitiche) e i comportamenti che portano a uno spreco di tempo e di energia;
  3. l’aumento delle capacità personali intuitive di introspezione;
  4. l’applicazione di queste capacità interiori in maniera continuativa e costante con aumentata compassione sia verso gli altri esseri che verso sé stessi. [1]

Sé e altro da sé (self and other)

Esiste un lungo sentiero di allenamento mentale che può condurre ad adattamenti importanti del carattere e sono due i domini cruciali che intervengono nell’influenzarlo: il sé e ciò che è diverso da sé, meglio definito di seguito come altro.

Il primo rappresenta la coscienza distintiva interiore di noi stessi come individualità. Il secondo si riferisce alla consapevolezza dell’esistenza dell’ambiente fuori dalla nostra pelle. Questa distinzione e la trasformazione che viene prodotta nel soggetto che riesce a superarla e trascenderla, è descritta col termine “illuminazione”: uno stato di aumentata consapevolezza che ha trovato una testimonianza importante ad esempio proprio nella figura di Siddharta Gautama, il Buddha storico, chiamato anche appunto “l’illuminato”.

Tuttavia, nonostante questo sia sostanzialmente il punto di arrivo, o comunque un traguardo già molto avanzato, in tutte le tradizioni è importante l’iniziale riconoscimento e consapevolezza dell’esistenza di questi due domini con l’obbiettivo finale però di trascenderli. [1]

Neuroscienze e Meditazione

1. I due network attentivi

La ricerca neuroscientifica ha identificato due fondamentali network attentivi operanti a livello corticale che vengono comunemente identificati in questo ambito con i termini “dorsale” e “ventrale” rifacendosi a grandi linee alla loro localizzazione anatomica all’interno del sistema nervoso centrale. Quello dorsale quindi risulterebbe localizzato in posizione posteriore, mentre quello ventrale in posizione più anteriore. [2-4]

Negli studi di Austin è emerso come nei praticanti meditazione i sistemi attentivi dorsali si attivino maggiormente durante le pratiche meditative di focalizzazione e concentrazione. Al contrario, i sistemi attentivi ventrali sembrano attivarsi di riflesso durante le più sottili forme di attenzione e negli stati di consapevolezza definita più “generalizzata”. Importante ricordare che quest’ultima via viene coltivata più gradualmente durante le pratiche meditative che sono più apertamente centrati sulla ricettività.

2. La percezione sé-altro

Oltre ai due sistemi evidenziati nel paragrafo precedente la ricerca nell’ambito delle neuroscienze ha anche prodotto notevoli contributi sui correlati legati alla problematica della percezione sé-altro da sé. Anche a questo livello sono stati identificati due circuiti principali di processazione di queste due percezioni che, curiosamente, sono anch’essi a localizzazione dorsale e ventrale all’interno del sistema nervoso centrale.

dorsal-ventral
Figura 1 – circuito dorsale e ventrale secondo  Austin.

Secondo Austin, questi network producono consapevolezza attraverso due percezioni anatomicamente separate  della realtà che vengono poi rapidamente fuse senza cuciture e sintetizzate in un’unica percezione. [1-3]  La consapevolezza di noi stessi (o del sé o autoconsapevolezza o Egocentrica) è localizzata a livello dorsale ed è anche la prima ad essere abitualmente processata. La Figura 1 illustra come il circuito dorsale può interagire con il senso del tatto e con la propriocettività, due funzioni localizzate a livello del lobo parietale. Questa sovrapposizione  è conveniente perché il tatto e la propriocezione ci aiutano a manipolare oggetti tangibili all’interno dello spazio localizzato vicino al nostro corpo, aiutandoci a definire quello che Austin definisce come una sorta di “spazio vitale” a spazio “a portata di mano”.

Questo circuito neurale di processazione superiore, localizzato, come si vede in Figura 1, a livello occipito-parietale  segue una traiettoria che a tratti si sovrappone a quelle regioni laterali e superiori corticali che rappresentano lo schema somatico del nostro sé fisico secondo lo schema dell’Homunculus sensitivo e motorio schematizzato in Figura 2.

Figura 2 – Le aree della corteccia motoria e sensitiva primaria con a destra la rappresentazione schematica delle aree corporee di riferimento (Homunculus sensitivo e motorio).

Tuttavia è riduttivo sintetizzare il senso di questo circuito al semplice “Dove?” al fine di permetterci di capire se possiamo o meno afferrare e/o interagire con un oggetto. In realtà, secondo Austin, la domanda è strutturata in maniera più complessa, in modo da coinvolgere le tre dimensioni del nostro spazio personale: “Dov’è l’oggetto in relazione a Me e al mio corpo?”. [1-3]

Il secondo circuito, denominato ventrale, è invece associato ad altre capacità percettive come la vista e l’udito. Oltre ad avere una localizzazione anatomica molto diversa rispetto al circuito dorsale (parti inferiori del lobo occipito-temporale e frontale), tale circuito processa informazioni legate non tanto alla percezione del sé come il circuito dorsale ma più legate ad una modalità percettiva “allocentrica” (Allo, dal greco, significa semplicemente “altro”). [1-3]

Questo circuito tuttavia secondo Austin, lavorerebbe come in secondo piano rispetto al circuito dorsale egocentrico, in maniera quasi silenziosa, sotterranea e semi-nascosta, restando autonomo e poco controllato dalla nostra coscienza.

Perché ci risulta così poco familiare l’esistenza di questo altro percorso (pathway), che si riferisce a ciò che è “altro” dal nostro sé? Secondo Austin, perché questo  inizia ad operare in maniera anonima, rispondendo alla domanda “cos’è quell’oggetto?” e, istantaneamente, abilità subconscie e circuiti corticali di riconoscimento identificano tale oggetto e per concludere simultaneamente altre abilità ne decodificano il significato. [1-3]

3. L’Interazione

Sulla base delle due vie precedentemente descritte, secondo Austin, i nostri processi coscienziali ordinari sono inconsapevolmente determinati dalla fusione e sovrapposizione senza interruzioni di continuità delle percezioni e informazioni veicolate da questi due circuiti. [1-3]

Queste dinamiche svaniscono quando l’intera via Egocentrica Dorsale (cioè il sé) viene rilasciata, o meglio controllata, raggiungendo quegli stati di super-consapevolezza definiti “illuminazione” o satori nello Zen. Lo Zen (e in generale il Buddhismo) appunto usa come metafora di questo stato di vacuità senza identità ottenuta dopo l’abbandono da tutti i precedenti attaccamenti: “Il fondo fuoriesce e rilascia il suo contenuto pieno d’acqua”. [1-3]

A questo punto, soppressa la processazione “egocentrica”, la processazione “allocentrica” emerge senza rimanenti veli o limitazioni e le sue innate capacità subconscie, percepite isolatamente, vengono rivelate per la prima volta. Ma prima di approfondire queste dinamiche è utile proseguire nella descrizione di altre strutture cerebrali che intervengono nelle dinamiche cognitive che sottendono a questi stati.

4. Default Network

Oltre alle quattro vie descritte in precedenza (dorsale e ventrale ed egocentrica e allocentrica), le neuroscienze hanno coniato il termine “default network” (letteralmente rete predefinita e/o automatica) per indicare un largo agglomerato di regioni corticali molto eterogenee e anche distanti anatomicamente che però cooperano in modo attivo.

Figura 3 – Principali aree del default network.

Le tre principali e più estese di queste aree occupano la Corteccia Prefrontale (PFC) mediale, la corteccia parietale posteriore mediale e la corteccia laterale del giro angolare, ma ne fanno parte molte altre, come rappresentato in Figura 3 e 4. In questo network e nelle sue diverse estensioni coesistono rappresentazioni contemporanee di funzioni sia  “autobiografiche”, cioè legate al vissuto personale,  che riferimenti spaziali.

Figura 4 – Reti principali del default network.

Sono quindi presenti funzioni legate all’impressione di controllo (sovranità) personale [1-3] e contemporaneamente  ciascuna di queste nozioni mentali riguardanti il nostro sé viene memorizzata come un evento coerente incapsulato nel contesto di un particolare riferimento spaziale o di una particolare situazione. [1]

Secondo Austin, questi dettagli topografici e scenici sono essenziali per permetterci di poter usare questi eventi processati e memorizzati in futuro; infatti soltanto se ciascun episodio è ancorato in un particolare punto del nostro ambiente, e in un particolare momento del nostro personale “time frame” allora ciascuno di questi episodi separati potrà organizzarsi in un dettagliato vissuto personale riutilizzabile anche in futuro, andando probabilmente a costituire le basi di quella che, in maniera molto superficiale e semplicistica, può essere secondo lui definita “Esperienza”. [1-3]

Una piccola osservazione di carattere personale: trovo riduttivo che il concetto di esperienza sia riconducibile soltanto a questa dinamica, anche perché a volte capita che soggetti affetti da amnesia riescano a svolgere delle attività pur senza aver alcuna memoria e/o nessun riferimento spazio-temporale del loro passato.

5. Ritmi e Metabolismo Cerebrale

Da quanto emerso finora il cervello quindi oltre a tutte le normali funzioni deve sostenere una notevole quantità di funzioni e processi legati al proprio vissuto personale e alla percezione del sé. Ma quanto impattano sul metabolismo generale cerebrale tali funzioni e il sostentamento delle aree deputate alla loro processazione?

A questo punto Austin fa un breve riassunto dei principali studi eseguiti con tecniche di imaging dinamiche per valutare il metabolismo cerebrale di tali aree. I primi studi con Tomografia ad emissione di positroni (PET) mostrarono che le vaste aree eterogenee descritte in precedenza riguardanti tutto ciò che è referente al sé richiedevano un metabolismo continuo ed attivissimo anche durante condizioni di apparente riposo. [1,2,5]

Stesse dinamiche erano state rilevate anche tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI) che aveva evidenziato come i segnali provenienti da tali aree diventavano addirittura più attivi (sopra ad arbitrari livelli di base) quando i ricercatori assegnavano ai soggetti in studio degli specifici task (azioni codificate) referenti alla percezione di sé, [1,2,5] mentre si riducevano drasticamente sotto i livelli basali nell’istante in cui uno stimolo esterno catturava l’attenzione del soggetto.

Ulteriori studi di fMRI rivelarono un altro importante fatto: l’attività di queste aree corticali localizzate in posizione mediale e referenti al sé avevano un’attività inversa rispetto a quelle a localizzazione laterale, deputate ai processi attentivi. [1,3]

Secondo Austin, queste due macro-aree cerebrali separate legate una al sé (mediale) e l’altra all’attenzione (laterale) cooperano, ma in direzioni opposte, in maniera sinusoidale creando un lento e spontaneo ritmo endogeno. Questi ritmi reciproci non richiedono per attivarsi di stimoli esterni e ricorrono lentamente, circa tre volte al minuto, in un largo ciclo indipendente. [6]

Lo psicologo svizzero Walter Hess, che vinse il premio Nobel nel 1949, documentò le capacità dinamiche nascoste nelle regioni diencefaliche profonde. [1]

La prosecuzione ad oggi di questi studi rende plausibile l’ipotesi che alcune regioni cerebrali (dentro e attorno al talamo) possano essere l’origine di questi ritmi inversi spontanei documentati nei precedenti studi di fMRI. Dopo tutto questi sono dei cambiamenti a ritmo lento o veloce paragonabili all’ON/OFF di un interruttore che reclutano, ciclicamente, regioni corticali differenti che svolgono attività cruciali sia per i processi attentivi che per la rappresentazione del sé.

6. Ruolo del talamo

Il Talamo è una delle stazioni fondamentali di processazione a livello cerebrale di qualunque tipo di percezione ed esistono intricati circuiti interattivi che collegano e fondono le funzioni talamiche con quelle corticali. [5]

Tutte le nostre sensazioni salgono verso la corteccia attraversando i suoi nuclei (tranne l’olfatto) e quindi, secondo Austin, il talamo funziona come un importante pacemaker per tutto il cervello. In particolare, secondo Austin, risultano fondamentali tre nuclei limbici localizzati anteriormente al talamo che fanno da staffetta per i messaggi ad elevato carico emotivo veicolandoli dal sistema limbico fino alle aree legate al sé della corteccia, ricevendo infine risposte da veicolare in direzione opposta provenienti appunto da queste aree corticali.

Quindi questi tre nuclei limbici interagiscono con la maggior parte di quelle regioni associative corticali evidenziante in precedenza (mediali, egocentriche) organizzate in maniera da rappresentare i principali aspetti autobiografici del nostro sé correlati con le sue memorie topografiche. [1-3] Austin ha dimostrato come questi nuclei e le corrispettive regioni corticali si coattivino non solo durante un acuto emergere di sovraccarico emotivo, ma anche durante il conseguente processo rimuginativo. [1,2,3,5,7]

Tuttavia, nonostante queste connessioni bidirezionali talamo-corteccia semplificate all’estremo da Austin, esse ci forniscono soltanto una piccola e incompleta spiegazione di come tutto il nostro vissuto (percezioni, emozioni etc.) venga registrato e sedimentato nella memoria a lungo termine. Rimangono quindi le seguenti domande:

Come può il cervello liberarsi delle stratificazioni profonde legate alla percezione del sé? Come agiscono le tecniche di meditazione a tal proposito? E nello specifico riguardo allo Zen cosa accade negli stati di aumentata consapevolezza e risveglio come Kensho (uno stato di profonda consapevolezza che precede l’illuminazione) e Satori?

Prima di rispondere a queste domande è necessario introdurre un’ultima struttura encefalica coinvolta in questi processi.

7. Sostanza Reticolare

Il nucleo reticolare è un sottile strato di neuroni che avvolge i contorni del talamo e anche se ad oggi i dati di fMRI non lo contemplano, tuttavia esiste e i suoi neuroni rilasciano GABA, uno dei più potenti neurotrasmettitori inibitori. [5,7]

Potrebbe il GABA secreto da questo nucleo produrre un effetto “auto-annichilente”, cioè di soppressione della percezione del sé ? la risposta secondo Austin è si. E come avverrebbe questo processo? in virtù delle sue capacità selettive di calibrare la sincronizzazione delle nostre normali oscillazioni talamo-corticali. [6,8] Oltre a questa selettività vi sono le capacità di dissociare le funzioni visive dai due grandi circuiti descritti in precedenza, il ventrale e il dorsale. [9]

Il nucleo reticolare non agisce da solo, infatti ha due alleati inibitori, la zona incerta e il nucleo pretettale. La zona incerta rilascia GABA verso i nuclei talamici (incluso quello mediale dorsale) e il nucleo pretettale anteriore proietta sia al nucleo mediale dorsale che al laterale dorsale del talamo.

8. Neurofisiologia degli Stati Meditativi Profondi

Da quanto emerso in precedenza, esistono sostanzialmente dei circuiti con azione opposta, un default network e delle aree legate al talamo e alla sostanza reticolare che, agendo sui sistemi GABAergici sono in grado di sopprimere le vie legate alla percezione del sé.

Le parole anatta, no-self, e “non io” sono tra i termini standard usati per descrivere gli attributi di assenza del sé che si riscontrano in stati avanzati meditativi in cui è possibile manifestare questa soppressione della percezione del sé.

Essa è molto importante non solo, come vedremo, per lasciare emergere altri aspetti che normalmente sono silenziati dalla percezione del sé, ma anche per spiegare ad esempio come  mai le radici profonde delle paure primitive vengano abbandonate nel processo di risveglio della coscienza durante stati meditativi profondi come il Kensho, esattamente come anche la sensazione personale del passare del tempo o acronia, ossia uno stato di coscienza caratterizzato dalla perdita della percezione del passare del tempo. [2,5]

Austin a questo punto si pone alcune domande: “Quali altri network cerebrali potrebbero rimanere attivi durante tali stati coscienziali? Quali evidenze ci offrono una potenziale spiegazione per la genuina impressione di Unità che pervade tutto il nuovo campo di esplorazione coscienziale indotta da questi stati?”

Da quanto emerso finora tra circuiti, strutture e processi cognitivi, secondo Austin, scorrendo la lista dei candidati, i più probabili sembrerebbero i circuiti “allocentrici”. Il loro coinvolgimento nella struttura di riferimento di ciò che è “altro” dal nostro sé non è una nuova esperienza.

Questa prospettiva “anonima” (senza la percezione del sé) è sempre stata lì, svolgendo tuttavia un ruolo nascosto e subordinato al circuito egocentrico del sé. Tuttavia queste risorse legate all’altro da sé, rese libere dalla dominanza del circuito egocentrico del sé, possono essere espresse in una maniera completa e senza inibizioni.

In empty anonymity, this now-unveiled other-referential mode is liberated into the foreground of consciousness, reifying the perfection of the whole mental field with a meaningful global objectivity beyond reach of mere words.

Nel vuoto anonimo, questa modalità svelata legata all’”altro” (o non-sé) è libera di agire sul piano coscienziale, perfezionando tutto il campo mentale con una nuovo significato globale e oggettivo che va oltre la portata delle parole.

E sorprendente quanto questa definizione di Austin[5] sia simile a quella di Dhyana fornita in altre tradizioni di cui abbiamo parlato qui. E ancora più interessanti alcune definizioni del concetto di “illuminazione”, ovvero il coronamento di tutti questi processi meditativi: [10,11]

An astonishingly fresh impression of immanent reality prevails throughout this non-dual state of “Oneness”: all things, seen selflessly in the total absence of fear, are comprehended “as they really are.”
A state of being empty of ego, but full of what can come through [i.e., allo-perception] when that ego has been let go of.

Una sconvolgente nuova impressione di realtà immanente prevale attraverso questo stato di non dualità, di Unità: tutte le cose, viste senza il sé, nella totale assenza di paura sono comprese per “come veramente sono”.
Uno stato di vuota assenza di ego, ma colmo di quel qualcosa che può fluire quando l’ego è stato abbandonato.

Quindi secondo Austin, con il progredire del percorso meditativo la comparsa di una “nuova prospettiva” è preceduta dallo svanire della precedente percezione intrusiva del sé e il suo senso di sovranità.

Quando non esiste più il precedente sé egocentrico il “possessore” di queste percezioni inizia a “sentire” ciò che è intorno a lui con una particolare oggettività sconosciuta in precedenza. [1,2,5-7]

Tuttavia non bisogna concludere che la graduale diminuzione dell’ego durante decenni di pratica Zen rimuova quel pragmatico senso del sé che permette di risolvere le problematiche del vivere quotidiano adattandosi ad esse in un processo di aumentata maturità realistica.

In questo consiste l’allenamento orientato alla dissoluzione di queste distorsioni negative e neurotiche dell’ego che si difende attraverso i suoi condizionamenti e gli attaccamenti legati ad una scorretta percezione del sé. [7]

Precedente allo stato di Kensho viene descritto nella tradizione Zen uno stato denominato di “assorbimento interno”. [1,2] Modelli diversi sono stati proposti per spiegare questo stato alterno di coscienza chiamato “assorbimento interno” [7], che è descritto ad esempio nello Yoga come stadio di pratyahara, ossia appunto di ritrazione dei sensi verso l’interno.

Esso rappresenta uno stato preliminare, non raro durante i primi anni di pratica meditativa regolare. Fenomeni paradossi si possono manifestare in questo stato come visioni su sfondo nero, udire suoni particolari e una diversa percezione “non fisica” di sé dalla testa fino ai piedi.

Una spiegazione plausibile di questi fenomeni, secondo Austin, sono gli iniziali effetti dati dal blocco GABAergico  sul network egocentrico che determina la percezione del sé. [1,2,5-7] Questa inibizione può essere applicata a livello talamico previene la risalita degli impulsi alla corteccia, portando ad una iniziale soppressione delle sensazioni e della percezione del sé.

Conclusione

Da un punto di vista medico, le implicazioni sono molte e molte le domande. Tutto è semplicemente riconducibile ai due circuiti e alle loro interazioni? E i ricordi? E l’elaborazione e sovrapposizione di questi ultimi con ciò che accade ad ogni istante come avviene? E “l’esperienza”?

Sicuramente siamo lontani dal raggiungere risposte esaustive a queste domande, tuttavia ciò che emerge a livello embrionale come ipotesi è la consapevolezza che il cervello non abbia una conformazione strettamente topografica legata alle sue funzioni ma che piuttosto operi per aree che a seconda della situazione e dell’azione necessaria si attivano simultaneamente come un mosaico, creando quindi infinite conformazioni e possibilità di attivazione e quindi infiniti utilizzi e potenziali funzioni del cervello stesso.

Ciò apre ad una visione non più solo bidimensionale del cervello, ma tridimensionale e forse anche quadrimensionale, sempre ammettendo che la nostra mente (non solo la) e la nostra coscienza siano localizzate solo ed esclusivamente lì.

E qui torniamo alla tradizione Zen, che, come abbiamo visto (sempre in Meditazioni per non uscire dal mondo), appartiene a quella molto più vasta corrente secondo la quale la Coscienza è anteriore al senso dell’io stesso con cui si identifica.

Il lavoro di Austin ha il merito di aver fornito una chiave in più, in ambito scientifico, per comprendere come la meditazione, sia essa ottenuta tramite un processo o per immediato riconoscimento, sposti l’accento dall’io alla Coscienza stessa.

Uno slittamento appena impercettibile quanto il passaggio dalla veglia al sonno, “niente di speciale”, che nulla cambia formalmente ma che proprio per questo è l’essenza di un vero ri-conoscimento: ovvero prendere atto della Realtà così com’è, spoglia dalla pretesa di deformarla secondo la propria egocentrica immagine e somiglianza.

Una Realtà che non è soppressione del sé in favore dell’altro, bensì una terza condizione estranea all’esperienza ordinaria ma che non nega l’ordinaria esperienza. Ancora una volta, “niente di speciale”.

 

Bibliografia

[1] Austin JH. Zen and the brain: mutually illuminating topics. Front Psychol. 2013 Oct 24;4:784. doi: 10.3389/fpsyg.2013.00784. Review

[2] Austin JH. Selfless Insight. Zen and the Meditative Transformations of Consciousness. Cambridge, MA: MIT Press, 2009

[3] Corbetta M, Shulman GL. Spatial neglect and attention networks. Annu. Rev. Neurosci. 2011. 34, 569–599. doi: 10.1146/annurev- neuro-061010-113731

[4] Kubit B, Jack A. Rethinking the role of the rTPJ in attention and social cognition in light of the opposing domains hypothesis: findings from an ALE-based 73metaanalysis and resting-state functional connectivity. Front. Hum. Neurosci, 2013, 7:323. doi: 10.3389/fnhum.2013.00323

[5] Austin JH. Zen-Brain Reflections. Reviewing Recent Developments in Meditation and States of Consciousness. Cambridge, MA: MIT Press, 2006

[6] Austin JH. Meditating Selflessly. Practical Neural Zen. Cambridge, MA: MIT Press, 2011

[7] Austin JH. Zen and the Brain. Toward an Understanding of Meditation and Consciousness. Cambridge, MA: MIT Press, 1998

[8] Minn B. A thalamic reticular networking model of consciousness. Theor. Biol. Med. Model, 2010, 7, 10. doi: 10.1186/1742-4682-7-10

[9] Austin J. H. Zen-Brain Horizons. Living Zen With Fresh Perspectives. Cambridge, MA: MIT Press, 2014

[10] Boyle R. What is Awakening? (Appendix 2 is a Personal Summary). New York, NY: Columbia University Press, 2013

[11] Shodo Harada Roshi. “The Path to Bodhidharma,” in The Path to Bodhidharma. The Teachings of Shodo Harada Roshi, eds J. Lago (Transl.) and P. D. Storandt (Boston, MA: Tuttle), 2000, 162

Leggi

Giappone    highlights    meditazione

meditazione    Yoga

Meditazioni per non uscire dal mondo

5 Settembre 2016 di Francesco Vignotto


Così lontani, così vicini

Puoi tenerti lontano dalle sofferenze del mondo, sta a te deciderlo e corrisponde alla tua natura, ma forse è proprio questo tenertene lontano l’unica sofferenza che potresti evitare.

Franz Kafka

Diverse persone mi hanno descritto esperienze straordinarie vissute durante la meditazione. Non necessariamente fenomeni sovrannaturali, ma la consapevolezza che ogni cosa appariva finalmente per quello che era e al suo posto per come era.

Quello che mi ha sempre colpito è che quasi tutte confessavano l’impossibilità di mantenere quella stessa consapevolezza al di fuori di quelle finestre esperienziali durante la pratica. Quanto al fatto che quelle finestre si fossero aperte, si dimostrava ben presto opera di una folata di vento, invece che merito del meditante. Frustrazione su frustrazione: il ritorno alla “vita comune” risultava ancora più ottusa e deludente.

A dire il vero, confesso che anch’io ho vissuto qualche exploit in cui ho creduto di avere afferrato il bandolo della matassa dell’esistenza, per poi scontrarmi sanguinosamente con la realtà terrena, che per contrasto proprio in quei momenti reclama i propri diritti con aumentata veemenza.

Ritieni di esserti sopraelevato sulle sofferenze del mondo – nello specifico, le tue – e ti sembra di camminare a parecchia distanza da terra, finché il primo sgarbo del vicino o un rifiuto da parte della vita ti richiama alla forza di gravità, con danni proporzionali all’altezza a cui ti sentivi librare.

Non è certo granché, ma con il tempo ho imparato ad accettare una piccola cosa che ritengo molto importante: quello schiaffo in faccia da parte della vita è non solo inevitabile, ma anche benedetto, perché ti ricorda che non è così che funzionano le cose. Non tutti sono così fortunati da riceverlo prima di mettersi in testa idee molto strane.

Vi sono numerosi errori in gioco, primo tra i quali appropriarsi dei meriti di questi exploit e attribuire a cause esterne la colpa delle cadute. Ma il punto fondamentale è che tutti vorremmo vivere in uno straordinario idillio di pace, escludendo la melma della trivialità di tutti i giorni.

14199197_916605168467710_13654148987304700_n

In altre parole, accettiamo i picchi e rinneghiamo le valli, trascurando che nella pace privilegiata dell’alta quota non cresce granché di utile alla sussistenza: proprio per questo siamo condannati come Sisifo a lasciar rotolare giù la pietra e a dover risalire ogni volta la china con gran fatica.

Ora, per quanto ci riguarda l’argomento è delicato, perché alcune tradizioni hanno affermato in modo categorico che la meditazione serve a ritrarsi da un mondo che è pura illusione, e dimorare nell’assoluto. Eppure, finché ne sentiamo gli schiaffi in faccia, con questo mondo e con le sue bollette da pagare dobbiamo giungere a un concordato.

Altre tradizioni più pragmatiche hanno invece osservato che la vetta e la valle sono due poli della stessa realtà, e finché si rifiuta un lato della medaglia si è condannati a rimbalzare da un polo all’altro: la meditazione deve penetrare quindi entrambi gli stati.

Come vedremo in questo articolo, l’opposizione tra queste due visioni è solo relativa, e dipende in gran parte da questioni pedagogiche. Tuttavia, per arrivarvi, dobbiamo intraprendere un viaggio armandoci di un po’ di pazienza prima di giungere a conclusioni affrettate.

O Dio supremo! Tu che ti orni di un tridente e di una ghirlanda di teschi, come raggiungere l’assoluta pienezza della Shakti che trascende tutte le nozioni, tutte le descrizioni e abolisce tempo e spazio? Come realizzare questa non-separazione dall’universo?

Vijnanabhairava Tantra, 22

Palla al centro: sedersi e dimenticare

Transcendent-Ape2

Intendiamoci innanzitutto su un concetto fondamentale: quando parliamo di meditazione, quasi sempre intendiamo l‘esecuzione formale di una particolare tecnica, ma la meditazione propriamente detta è uno stato che non è necessariamente la conseguenza logica di un atto.

Ciò non significa che la tecnica sia inutile, anzi è una preparazione indispensabile: significa in primo luogo che la meditazione non riguarda soltanto il momento in cui “meditiamo”; in secondo luogo, che non siamo noi a decidere quando si entra in meditazione: è qualcosa che avviene, e accade più spesso spontaneamente e quasi mai per forzature.

Proprio come il Cavaliere Inesistente di Calvino, la mente ha bisogno di esercitare una costante attività per conservare la percezione di esistere in modo autonomo. Solo quando questa attività si dirada si creano le condizioni perché emerga lo strato sottostante, in cui l’idea di una identità congruente si dimostra relativa. In altre parole, ci dimentichiamo almeno per un momento chi siamo, ovvero che il collega ci ha fatto un dispetto, che il padre ci ha cresciuto male, che il coniuge è un idiota: l’idea di essere qualcuno o qualcosa appare insomma in tutta la sua contraddizione.

Siccome abbandonare una dipendenza è molto difficile, occorre più spesso procedere per gradi e quindi esistono diverse tecniche. Potremmo dire che qualsiasi tecnica di meditazione è un modo per tenere occupata la mente (ad esempio, con l’attenzione sul corpo e sul respiro) mentre si preparano le condizioni perché questa “dimenticanza” si verifichi. Ovviamente ogni tecnica ha anche un significato e una funzione peculiare, ma oltre al fare occorre affiancare il ben più importante lasciar fare, finché potremo abbandonare il primo e abbandonarci completamente al secondo.

Pertanto, non ci si deve scoraggiare se, soprattutto inizialmente, la mente è incostante e occorre più volte riportarla all’ordine: non conta la perfezione della tecnica, ma il fatto che nella congestionata trama della sua agitazione comincino a manifestarsi degli spiragli.

Anche quando usciamo a correre o potiamo la vigna incorriamo nella possibilità di “svuotare la mente” e queste stesse attività possono essere trasformate e potenziate in meditazione, in quanto la meditazione riguarda più l’attitudine che la tecnica.

Tuttavia, la tecnica meditativa di base più comune – ma, beninteso, non l’unica – prevede l’immobilità nella postura seduta. Questa pratica è antica come il mondo ed è presente in moltissime tradizioni come mezzo per rivolgere la mente a osservare sé stessa, acquietando qualsiasi attività volontaria sia fisica sia mentale. È un passaggio fondamentale per ridurre al minimo la reattività sia agli stimoli interni che a quelli esterni.

Shiva_Pashupati
Il sigillo di Pashupati rappresenta il Signore degli animali, forma primordiale di Shiva, in posizione meditativa seduta. Il reperto è stato trovato nel sito archeologico di Mohenjo-daro è una delle testimonianze della Civiltà della Valle dell’Indo risalente al III secolo a.C.1Da notare che una raffigurazione molto simile è visibile in uno dei reperti del Calderone di Gundestrup (nell’odierna Danimarca), risalente al periodo tra il II secolo a.C. e il III secolo d.C.

Lo zazen, ossia l’interpretazione Zen di questa pratica, vale la pena di essere citato per la sua essenzialità e per il fatto che, a differenza di altre versioni più progressive che prevedono diversi livelli di pratica, mira a un’esperienza immediata della meditazione:

Si siede sul cuscino (detto zafu), nella posizione del loto o del mezzo loto, con le ginocchia premute a terra e la sommità del capo ben eretta verso il cielo; la colonna arcuata con la quinta lombare spinta in avanti; l’addome completamente rilassato, il collo dritto e il mento spinto all’interno. Si è come un arco teso la cui freccia è la mente. Sedendo in questa postura, senza meta o desiderio di guadagno, mantieni gli occhi fissi circa un metro davanti a te; gli occhi guardano il nulla. La mano sinistra è posata nella destra con i palmi verso l’alto, i pollici uniti come l’orizzonte ‘né montagne né valli’, le spalle affondano naturalmente e la punta della lingua è contro il palato: questa è la postura. Il respiro gioca un ruolo primordiale. Concentrandosi sull’esalazione più lunga possibile, mentre l’attenzione è focalizzata sulla postura, l’inalazione avviene naturalmente. Le idee-immagini che passano attraverso la mente e i pensieri inconsci che sorgono non devono essere fermati o conservati durante lo Zazen. 2Daniel Odier, Meditation Techniques of the Buddhist and Taoist Monks, Bear & Co, 2003 https://www.scribd.com/read/230486661/Meditation-Techniques-of-the-Buddhist-and-Taoist-Masters

kodo-sawaki-zazen-posture

Lo Zen (Chan) è una tradizione buddhista sviluppatasi prima in Cina e poi in Giappone. Il nome stesso Chan deriva dal sanscrito dhyana, ossia “meditazione”, che intende come un mezzo per il satori, ossia il riconoscimento spontaneo della realtà, in cui non c’è differenza tra l’io che osserva e ciò che è osservato.

Il richiamo alla spontaneità, del resto, rivela che lo Zen è altrettanto figlio del Taoismo, in cui del resto ricorre la pratica  del “sedersi nell’oblio”:3Per i rapporti tra Taoismo e Buddhismo si veda il nostro articolo Il mondo è un recipiente sacro e non si può governare

“Che cosa intendi dicendo che ti siedi e dimentichi tutto?”
Yan Hui rispose: “Che mi spoglio del mio corpo, cancello i miei sensi, abbandono ogni forma, sopprimo ogni intelligenza, mi unisco con colui che abbraccia tutto, ecco quello che intendo dicendo che mi siedo e dimentico tutto”.
Zhong-ni concluse: “L’unione con il grande tutto esclude ogni particolarità, evolversi incessantemente esclude qualsiasi fissità. Tu sei veramente un saggio. D’ora in poi ti seguirò.

Zhuang-zi (Chuang-tzu), VI

Lo Zen, tuttavia, tenendo fede alla sua natura irriverente e iconoclasta, ha molte volte irriso la pratica stessa della meditazione seduta con la quale viene spesso identificato, perché ancora troppo carico di intenzione e di formalità. Del resto, la confusione tra il mezzo e il fine è il tema espresso dalla famosa rana del maestro Sengai Gibon (1750-1830):

meditating-frog

Se un uomo diviene un Buddha sedendo in meditazione…
(io, anche se sono una rana, avrei dovuto diventarlo molto tempo fa)

Zhuang-zi (Chuang-tzu), VI

Daisetz T. Suzuki commenta questo Haiga4L’haiga è una forma espressiva giapponese che combina la pittura con la poesia haiku.: “Se lo zen si fonda soltanto sulla postura della meditazione, allora è certo che la rana raggiungerà la buddhità. Ma lo zen non è semplicemente stare a sedere. Essenziale è il risveglio dell’inconscio o mente.”5Il maestro zen Sengai: poesie e disegni a china, a cura di Daisetz T. Suzuki, Guanda, 1988

Ma allora, cos’è questo qualcosa che può accadere durante la meditazione, ma non è garantito che accada?

Uno sguardo sul vuoto

Grazie alla vibrazione, l’oggetto della percezione vibra nel cuore del vasaio poiché esso è tutt’uno con la coscienza del sé di quest’ultimo.

Abhinavagupta, Isvarapatyabhijnavimarsini
zhuangzi-contemplates-waterfall2
Zhuangzi contempla una cascata

Riguardo alla meditazione si parla spesso di uno “stato naturale“. In un certo senso,  meditare è regredire al di qua del pensiero analitico e discorsivo e dell’autocoscienza.

In altre parole, potremmo dire che la meditazione si verifica quando la mente è sufficientemente calma da entrare in risonanza con la sua essenza, il ‘recipiente’ che la contiene, che spesso è descritto in termini di Vacuità, Mente, Tao, Sé.

Questo “recipiente” non è afflitto dai continui mutamenti dei fenomeni né ai processi psicologici: è il presupposto grazie a cui essi si manifestano come lo spazio è il presupposto necessario per il movimento, solo che non esiste reale distinzione tra lo spazio stesso e ciò che vi si muove. È la Coscienza stessa che prescinde dai contenuti e dal senso di un “io” (ma su quest’ultimo punto torneremo più avanti).

Attenzione: come ogni metafora, anche il termine “recipiente” è imperfetto, in quanto suggerisce un limite che in realtà non c’è. Ogni parola, del resto, segna una linea di confine che non ha valore assoluto, anche se rischia di legare alla forma.

Padmasambhava (VIII sec. d.C.) è il fondatore del Buddhismo Tibetano.
Padmasambhava (VIII sec. d.C.) è il fondatore del Buddhismo Tibetano.

Come avverte Tilopa, maestro del Buddhismo Tantrico vissuto nell’XI secolo:

Si definisce “vuoto” lo spazio, ma lo spazio è indicibile.
Similmente, la propria coscienza è detta “chiara luce”, tuttavia in essa non c’è nulla che possa essere definito dicendo “è così”6Tilopa, Mahamudra (Il Grande Sigillo)

E prima di lui Padmasambhava:

Questa mente unica che penetra ogni vita e ogni liberazione
non è riconosciuta benché sia la nostra natura fondamentale.
Il suo flusso è costante, ma noi lo ignoriamo.
La sua intelligenza luminosa e priva di imperfezioni non è percepita
benché emerga da tutte le cose.
(…)
La Mente, in questa luminosa consapevolezza assoluta,
esiste e non esiste contemporaneamente!
È la fonte del piacere, del dolore e della libertà.
Gli insegnamenti la chiamano Realtà della Mente,
Se, o non-Sé,
Mente innata,
Natura assoluta,
Grande Sigillo,
Liberazione naturale,
Perla luminosa,
la Base e l’Ordinario.
Questa realizzazione ha tre porte:
l’assenza di tracce, la chiarezza e lo spazio7Padmashambava, La liberazione attraverso la visione nuda della natura dello spirito

In qualsiasi caso, entrare in meditazione (sempre che “vi si entri”) non implica che le cose in noi o attorno a noi cambino, ma che cambi il nostro stato di coscienza riguardo ad esse e a noi stessi.

Consapevolezza e concentrazione, compassione e vacuità

Chenrezig-by-HH-17th-Karmapa

Come abbiamo visto in un articolo di un paio di anni fa, il Buddhismo ha una visione apparentemente molto negativa dell’esistenza, di cui considera soprattutto la sofferenza che la affligge. Anche la felicità, essendo soggetta a decadenza, è sua volta fonte di dolore.

In realtà, a uno sguardo più approfondito, il problema fondamentale si rivela l’attaccamento agli oggetti dei desideri, perché anche quando vengono ottenuti sono destinati necessariamente a decadenza.

La meditazione è quindi uno dei mezzi sviluppare un atteggiamento compassionevole ma distaccato e privo di aspettative verso i fenomeni normalmente vissuti con totale identificazione, rinunciando a qualsiasi punto di appoggio tranne che nella vacuità.

Per questo la meditazione è il culmine dell’ottuplice sentiero che racchiude l’insegnamento originario del Buddha Siddharta Gautama: retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retto modo di vivere, retto sforzo, retta consapevolezza (sati), retta concentrazione (samadhi).

Sati e samadhi riguardano propriamente la pratica meditativa e, come si può notare dalla progressione, devono essere accompagnati da una solida disciplina morale e psicologia. Consapevolezza significa osservazione senza giudizio del corpo e del respiro, delle sensazioni fisiche e dei processi interni, dei pensieri e delle emozioni, degli elementi che compongono la mente e il corpo.

La concentrazione consiste nel focalizzare la mente  su un oggetto, fino a che soggetto e oggetto non si fondono. Perché ciò avvenga, la concentrazione dev’essere duratura e stabile: è un processo che richiede costanza e un’incrollabile determinazione, perché la mente tende per sua natura a vagare.

La consapevolezza e la concentrazione sono dei mezzi per deframmentare una mente che allo stato normale è dispersa in mille rivoli spesso in conflitto tra loro, anticipando il futuro in base alle esperienze passate, ma incapace di cogliere il presente che scorre sotto i suoi occhi.

Il maestro indiano Tilopa (988 – 1069), è considerato il primo patriarca della tradizione Kagyu del Buddhismo Tibetano. A lui si deve il celebre Mahamudra, ossia un metodo immediato per conseguire l'illuminazione.
Il maestro indiano Tilopa (988 – 1069), è considerato il primo patriarca della tradizione Kagyu del Buddhismo Tibetano. A lui si deve il celebre Mahamudra, la non-via immediata di conseguimento dell’illuminazione.

Dissolvendo il dualismo della relazione soggetto-oggetto, la meditazione permette di risalire alle cause e realizzare la vacuità al tempo stesso dell’ego del soggetto e dell’oggetto, liberando dalla dualità fondamentale dell’essere e del non essere: dobbiamo ricordare che per il Buddhismo tutto è impermanente.

L’oggetto della concentrazione può essere anche un sasso, o la fiamma di una candela, un concetto astratto, oppure la visualizzazione di un’immagine o di un simbolo. L’esercizio della concentrazione può vertere al tempo stesso sul respiro naturale o sul respiro ‘guidato’, sulla vacuità sostanziale della mente, escludendo sistematicamente ogni pensiero alla radice nel momento stesso in cui sorge; o, ancora, sulla recitazione di mantra o sulla visualizzazione molto elaborate di mandala o di divinità tanto care al Buddhismo tantrico: il repertorio delle tecniche nella meditazione buddhista è pressoché sterminato.

Tuttavia, il Buddhismo ha molte anime, e come abbiamo già visto nei riguardi dello Zen, accanto a metodologie progressive contempla anche anche istanze più dirette, secondo le quali l’esercizio stesso della concentrazione può risultare un artificio.

Per questo, Tilopa ammoniva non solo di non pensare, né di analizzare, né di anticipare, ma anche di non meditare, mantenendo la mente nel suo stato naturale: la meditazione, insomma, deve presentarsi spontaneamente e non-intenzionalmente, “senza cercare di creare artificialmente l’esperienza stessa del vuoto mentale e senza cercare “di afferrare la meditazione come fosse un qualche oggetto solido”.8Khenchen Thrangu Rinpoche, An Ocean of the Ultimate Meaning: Teachings on Mahamudra

Attraverso il corpo o senza il corpo

yogi-himalaya

Gli Yoga Sutra di Patanjali prevedono l’arresto (nirodah) delle fluttuazioni della mente, intese qui come schemi circolari ripetitivi che ne celano lo stato naturale. Il processo per ottenere questo risultato è per ascesi: prevede di ritirarsi progressivamente dalle esperienze esterne e man mano di abbandonare anche i contenuti della conoscenza che derivano dalla meditazione stessa per giungere alla pura Coscienza o Purusha.

Il cammino, come quello buddhista, è articolato in otto membra e comprende delle osservanze e delle restrizioni morali (Yama e Niyama). Asana e Pranayama, come abbiamo visto in un articolo precedente, sono il superamento stesso della corporeità e dei soffi vitali, mentre Pratyahara è l’introversione dei sensi verso la mente, anziché verso il mondo esteriore.

Anche la fase finale, quella più propriamente meditativa, riecheggia quella buddhista e prevede la concentrazione su un punto (Dharana), la costanza del flusso di coscienza, con l’esclusione dei pensieri estranei (Dhyana) e infine la fusione con l’oggetto (Samadhi). Nonostante queste ultime tre fasi possano essere dirette su oggetti particolari per ottenere poteri psichici, è con l’eliminazione dell’oggetto stesso che si ottiene la totale cessazione degli schemi della mente.

Molto citati quale base teorica dalle scuole di Yoga moderne ma poco praticati e poco praticabili in un contesto come quello contemporaneo, gli Yoga Sutra propongono essenzialmente un percorso di negazione del mondo – senza peraltro la dimensione della compassione centrale nel Buddhismo – che non è condivisa da tutte le tradizioni yogiche. Negando, lascia dietro di sé una “altra parte”.

Eric Baret ha espresso in modo piuttosto colorito le implicazioni di questa visione:

Quando la persona ha purificato il suo psichismo, il suo corpo, può raggiungere questo stato menzionato negli Yoga Sutra, che è il “blank state”.
Questo stato assomiglia un po’ a quello di un asino nella sua cella. Dovunque si gira vede bianco. È spesso il risultato della via progressiva. Vede solo bianco. È sempre un asino. Ha purificato il suo corpo, il suo psichismo. C’è tranquillità. E questa tranquillità è ancora un oggetto. Crede a questo oggetto indipendentemente dal soggetto che lo percepisce, e a causa di questo non può esserci riassorbimento. Bisogna che abbia la grazia d’incontrare un istruttore che si sia stabilito lui stesso al di là del “blank state” per poter rompere questo circolo.9Eric Baret, Lo Yoga tantrico del Kashmir, Om Edizioni, 2016

Matsyendranath, il leggendario fondatore dell'Hatha Yoga, considerato un santo nella tradizione Buddhista e Induista, che emerge dal pesce nel cui ventre, secondo una delle tante versioni, passò numerosi anni apprendendo da Shiva in persona i segreti dello Yoga.
Matsyendranath, il leggendario fondatore dell’Hatha Yoga, considerato un santo anche nella tradizione Buddhista e Induista, che emerge dal pesce nel cui ventre, secondo una delle tante versioni, passò numerosi anni apprendendo da Shiva in persona i segreti dello Yoga.

Sono convinto che i metodi dell’Hatha Yoga non siano semplicemente un segmento preparatorio del percorso descritto dagli Yoga Sutra, come vorrebbero molte vulgate correnti, bensì possano essere considerate un percorso autonomo.

Estraneo alle restrizioni morali di Patanjali (che collocano quest’ultimo in un contesto religioso), nell’Hatha Yoga vige il principio tantrico per cui l’unico modo di superare le restrizioni della conoscenza sensibile e della corporeità è attraverso i sensi e il corpo stesso.

I presupposti della concentrazione sono dunque generati somaticamente. Asana, Pranayama e Mudra (questi ultimi assenti nella trattazione di Patanjali) diventano così molteplici tecniche per decondizionare la mente attraverso il corpo e i soffi vitali.

E sebbene sia il pranayama il principale ponte verso il samadhi, anche la pratica di alcune asana archetipiche, quali ad esempio sarvangasana, sirshasana o paschimottanasana, può già da sé risolversi in meditazione, a patto di una pressoché completa distensione, e un tempo prolungato di mantenimento: condizioni che non sempre sono realizzabili nei contesti moderni di pratica, e non sempre rientrano negli obiettivi di una pratica fisica.

Quanto detto in questo paragrafo, ovviamente, risente della mia personale opinione ed esperienza, conscio che esistono visioni molto differenti in tema.

L’io è un pensiero come un altro

ego

Comunque stiano le cose, non possiamo evitare una questione fondamentale: il senso dell’io.

Siamo abituati per educazione religiosa e per pregiudizio culturale a considerare l’anima individuale – o, in una prospettiva più laica, un io costante – come la parte più spirituale dell’essere umano.

A questo proposito giova ricordare che, a differenza della psicologia occidentale e di gran parte delle religioni monoteiste, le filosofie orientali attribuiscono al sé individuale un carattere transitorio e interdipendente. Non esiste, in altre parole, alcuna anima da “salvare” e nessun ego da ricomporre.

In questo senso, il Buddhismo è particolarmente drastico, in quanto ritiene che l’individuo sia solamente un composto di cinque aggregati senza alcun sostrato.10A riguardo, si veda questo estratto ben esplicativo Afferma Nagarjuna:

Quando il sé concepito dagli estremisti viene analizzato con logica, non può essere trovato tra gli aggregati (del corpo e della mente) 11Nagarjuna, A Commentary on the Awakening Mind

Sotto la lente della pratica meditativa, insomma, la ‘vita animica’ o le avventure dell’io sono fenomeni del tutto frammentari e relativi. Non bisogna tuttavia cadere nell’estremo opposto e ritenere che occorra mortificare e sopprimere l’io: occorre solo ricondurlo nel contesto della sua fonte, perché la coscienza di essere un individuo è comunque una traccia, un riflesso della sua essenza.

In altre parole, come ha scritto Giorgio Invernizzi ne Il concetto del sacro, “l’uomo non è il proprietario delle risorse mentali, emozionali e materiali che trova dentro e fuori di sé, ma solo l’amministratore”.

Allo stesso tempo, anche le pratiche cosiddette spirituali rischiano di essere un’altra delle tante avventure episodiche dell’io, che proprio grazie a questo rafforza il suo falso senso di separazione e di indipendenza.

Anche per questo, risulta abbastanza evidente come la meditazione si presti male in quanto strumento di “crescita personale” o di “sviluppo del potenziale umano” – per citare alcuni termini oggi di moda – perché queste pratica non “cura” e non “risolve” i problemi della personalità: erode anzi la certezza della chiusura stagna del contenitore (e pertanto non è consigliabile a personalità già particolarmente disgregate).

Ma allora, quando si medita, chi medita? Visto che da un punto di vista ordinario meditare è un’azione come un’altra, allora vale come per qualsiasi altro agire. Avverte Jean Klein:

Quando agisci, sei tutt’uno con l’azione, è soltanto in seguito che l’ego si appropria dell’atto, da cui era assente. Ma l’ego è un pensiero come un altro e quindi non può essere il suo stesso creatore.12Jean Klein, Neither This nor That

È proprio questo il punto: l’io – qualsiasi punto dell’universo dica “io” – è un pensiero come un altro.

La vita né attiva, né contemplativa

working-hands

Guarda deh lo stupefacente comportamento della mente! Della mente, dico, che colla rinuncia si afferra agli oggetti, e coll’afferrarli, ci rinuncia e li abbandona!

Bhagavad Gita, II, stanza di riassunto13Il Canto del Beato (Bhagavadgita), commento di Abhinavagupta, a cura di Raniero Gnoli, UTET, 1976 http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/vedanta/gnolibhg.pdf p.80

Si ritiene spesso che la meditazione sia una “pratica” e uno “stato” introspettivi, ma a ben vedere anche questo in ultima analisi non è esatto. Torniamo al dilemma a cui accennavamo in apertura: distinguere tra interno ed esterno significa vivere il “momento” della pratica e il “momento” della vita come fossero distinti. Questo pericolo è del resto sempre stato noto. Per questo è sempre stata idea abbastanza comune che la pratica meditativa riguardi anche la vita attiva.

Se qualcuno ricorda il motto benedettino “ora et labora”, si ricordi anche che in molte sette i sufi conducono una vita del tutto normale, formando una famiglia e svolgendo lavori normalmente considerati umili, e che nello Zen il lavoro manuale è considerato di pari importanza (o in alcuni casi addirittura superiore) alla pratica dello zazen.

Famoso è l’incontro tra il futuro maestro giapponese Dogen con un anziano monaco cinese che svolgeva l’umile mansione di sguattero: alla sorpresa di Dogen per il fatto che a un monaco così anziano non fosse concesso di dedicarsi alla pratica meditativa per progredire nella via, il vecchio monaco rispose che quella stessa mansione era già la Via.14Si veda Dogen Zenji; Uchiyama Roshi Kosho, Istruzioni a un cuoco zen. Ovvero come ottenere l’illuminazione in cucina, Astrolabio

Nella Bhagavad Gita, Krishna invita Arjuna a non ritrarsi dall’agire, ma a gettarsi nella mischia della battaglia, indifferente alla sconfitta o alla vittoria. Nel karma yoga (ossia lo Yoga dell’azione) esposto da Krishna il mezzo di emancipazione non è la rinuncia all’azione, bensì la rinuncia ai frutti dell’azione.

In realtà, lo stato di meditazione compare al punto di confluenza tra introspezione e azione, ed è indipendente anche dalla direzione scelta. Il fatto è che questo stato è un paradosso proprio perché è una “terza via” normalmente non contemplata.

Satyananda ha descritto molto bene questo concetto nei termini dell’Hatha Yoga:

L’epitome della modalità attiva è lo stato di mente e corpo di un tassista che guida durante le ore di punta. L’epitome della modalità recettiva è il rilassamento profondo in Yoga Nidra, o lo stato di introversione della meditazione formale. Il vero stato meditativo, che pochi ricercatori scientifici considerano ma che è il vero obiettivo dello Yoga, è un esempio del terzo modo, ovvero del funzionamento di sushumna, in cui attivo e passivo sono completamente bilanciati. Una persona in questo stato è simultaneamente focalizzata interiormente ed esternamente. Per esempio, potremmo guidare un taxi e nello stesso tempo essere in uno stato di rilassamento o “non agire”. O potremmo sedere assolutamente immobili ed essere riempiti della energia dinamica di shakti in modo tale da essere totalmente svegli e attivi internamente. È uno stato molto difficile da descrivere.15Swami Satyananda, Kundalini Tantra, Yoga Publication Trust

Non meditare!

kiss1

Il Vijnanabhairava Tantra è forse il testo più rappresentativo dello shivaismo tantrico del Kashmir. La sua stesura in forma scritta risale al IX secolo d.C., anche se si ritiene che le origini dei suoi contenuti e delle tecniche contenute datino di qualche millennio addietro. Secondo Daniel Odier, si tratta del più antico testo sullo Yoga.

La sua cristallina essenzialità e il suo accento sull’immediatezza riecheggia – per affinità se non per influenza diretta – in tutte quelle tradizioni che hanno posto l’accento sulla realizzazione spontanea dello stato naturale della mente, come il Taoismo, il Buddhismo Chan (Zen), e diverse correnti del Buddhismo Tantrico (il Mahamudra di Tilopa, lo Dzogchen) e persino del Sufismo.

L’assunto principale del Vijnanabhairava è che non vi è alcuna differenza tra la Coscienza e l’Energia, rappresentate rispettivamente nei due amanti Shiva (ovvero Bhairava) e Shakti (Bhairavi), che al termine del dialogo ritornano abbracciati nel loro amplesso.

Mentre le visioni dualiste considerano le creazioni della Shakti come inganno da cui astrarsi con una progressiva purificazione, per il tantrismo monista la vera illusione è soltanto l’esperienza della dualità tra i due principi: dualità che si rivela un gioco in seno alla Coscienza che si specchia in sé stessa celando ora la propria essenza, ora l’aspetto fenomenico.

L’energia delle fiamme non è altro che il fuoco. Qualsiasi distinzione non è che un preludio alla via della vera conoscenza.

Vijnanabhairava Tantra, 19

Afferma Abhinavagupta:

Mi inchino davanti alla non dualità assoluta, totale identità di Paramasiva e dell’energia che prima rivela, fuori della pienezza senza desiderio, l'”Io” che si esprime a sé stesso, poi ha il desiderio di scindere il suo proprio potere in due rami: io e quello.
Allora a partire dall’essenza ultima, si dona al gioco del unmesa-nimesa: se dispiega l’universo, nasconde la sua essenza e se egli rivela la sua essenza, l’universo sparisce.16Abhinavagupta, Pratyabhijnavimarsini

E il suo discepolo Ksemaraja:

La coscienza assoluta tramite il suo movimento libero e spontaneo manifesta, mantiene e riassorbe l’universo.
La coscienza ha il potere di dispiegare la realtà di fronte al suo stesso specchio.
La molteplicità illusoria dell’universo appare attraverso la relazione del soggetto e dell’oggetto.
Il praticante la cui coscienza è contratta percepisce l’universo nella sua forma contratta.
La coscienza assoluta diviene coscienza individuale a causa di questa stessa contrazione provocata dagli oggetti della coscienza.
La coscienza individuale è la coscienza assoluta.17Ksemaraja, Pratyabhijñâhrdayam – Il Cuore Del Riconoscimento

Date queste premesse, il Vijnanabhairava espone 112 metodi di meditazione realizzabili in ogni istante. La particolarità di queste meditazioni (alcune codificate anche all’interno dell’Hatha Yoga o nel Buddhismo) è che abbracciano pressoché l’intero spettro delle possibili esperienze umane.

bhairava1
Bhairava o Kala Bhairava è l’aspetto più terrifico di Shiva, che rappresenta la distruzione di qualsiasi barriera. Spesso è rappresentato con una testa in una delle sue mani, che secondo una leggenda narrata dai Purana apparterrebbe a Bhrama, il dio della creazione.

Non essendoci dualità con il mondo esterno, anche ciò che sperimentiamo attraverso i sensi può ricondurci alla fonte prima. Le 112 tecniche del Vijnanabhairava addestrano pertanto a penetrare la dimensione dell’assoluto  in ogni momento e in qualunque esperienza: sia durante il godimento dei sensi, sia nel rinunciare all’oggetto del desiderio cogliendo la “spazialità luminosa” (termine chiave nel Vijnanabhairava) da cui esso proviene; sia nell’azione, sia nello spazio tra la risoluzione di agire e l’azione; sia nella concentrazione, sia nella dispersione mentale e nell’esperienza di sentimenti violenti e negativi.

73. Fonditi nella gioia provata durante il godimento della musica o in quello che rapisce gli altri sensi. Se tu sei solo questa gioia, accedi al divino.

E ancora:

96. Quando prendi coscienza di un desiderio, consideralo il tempo di uno schioccar di dita, poi subito abbandonalo. Allora ritorna nello spazio da dove è appena sorto.
97. Prima di desiderare, prima di sapere: «Chi sono io, dove sono?», è questa la vera natura dell’“io”. Questa è la spazialità profonda della realtà.

Non c’è quindi nessuna intenzione di correggere o riformare l’essere umano: tutto ciò che nella vita comune può portare sempre più lontano dalla contemplazione, può essere in realtà penetrato per accedere alla sostanziale identità di Coscienza ed Energia.

Lo Spandakarika, testo della scuola Spanda che esprime l’unità fondamentale in termini di fremito o vibrazione chiarisce questo concetto in maniera molto chiara:

L’energia del fremito che attraversa l’essere ordinario lo rende schiavo, mentre questa stessa energia libera colui che è sulla Via.

Vijnanabhairava Tantra, 19

Proprio per questo, una serie di equivoci accompagna spesso questo approccio, benché il fatalismo (“è tutto già qui”) e la dissolutezza (ossia la totale identificazione nei sensi) sono in realtà del tutto estranei al tantrismo. Tuttavia, questa via è talmente immediata da essere poco praticabile da chi non coltivi un atteggiamento del tutto disinteressato nei confronti della vita e del vantaggio personale: tale è la sua semplicità, tale l’estrema difficoltà di camminare sul filo di una lama.

Rawson-caduceus-84-large1 (1)

Il Vijnanabhairava riconosce, peraltro, che le dottrine dualiste e le vie progressive abbiano uno ruolo propedeutico, per orientare le coscienze individuali che ancora siano eccessivamente identificate nel mondo dei sensi; tutte le sottili distinzioni e progressioni tra mondo materiale e mondo spirituale sono insomma “delle ghiottonerie destinate a incitare gli aspiranti a una condotta etica e a una pratica spirituale, in modo che possano un giorno realizzare che la natura ultima di Bhairava non è separata dal loro proprio Sé”.18Vijnanabhairava Tantra, 13

Chi invece si avventuri per la via esposta dal Vijnanabhairava dev’essere in grado sia di immergersi nei piaceri sensoriali, sia di abbandonarli in qualsiasi momento con la stessa equanimità; del resto, se l’assoluto è ovunque e il praticante può riconoscere la sua stessa coscienza in qualsiasi manifestazione della realtà, la soddisfazione o non soddisfazione dei propri desideri è un concetto molto relativo.

63. Contempla le forme indivise del tuo corpo e quelle dell’intero universo come appartenenti alla stessa natura, così, il tuo essere onnipresente e la tua forma riposeranno nell’unità e raggiungerai la natura della coscienza.

Riformuliamo quindi la domanda posta molte righe più sopra: quando si medita, chi medita? Ma soprattutto: medita?

Piccola conclusione: tornare al mercato

Scalzo e col petto nudo, mi mescolo alla gente del mondo. Le mie vesti sono lacere e impolverate, e io sono sempre colmo di beatitudine. Non uso magie per prolungare la mia vita; Ora, davanti a me, gli alberi morti diventano vivi.

Kakuan, 10 Tori19Contenuto in Mumon, La porta senza porta: seguito da 10 Tori di Kakuan e da Trovare il centro, Adelphi. È degno di nota che questa edizione di due classici dello Zen includa in appendice un condensato del Vijnanabhairava.

I 10 Tori sono un classico della letteratura Zen e descrivono altrettanti stadi di consapevolezza. Il toro smarrito e cercato dal pastore è il principio eterno della vita. In realtà, il toro non è mai stato perso, ma è soltanto la confusione circa la propria natura a generare questo smarrimento. Il pastore lo rintraccerà attraverso le sue orme e lo catturerà. Una volta domato con frusta e corda, potrà ritornare a casa sul suo dorso e infine riposarsi.

La serie classica antica terminava con l’ottava tavola, che rappresenta il Vuoto, in cui non vi è più distinzione tra il pastore, il toro, la frusta e la corda.

Tuttavia, nel XIII secolo, il maestro Zen cinese Kakuan Zenji ne volle aggiungere altre due. La nona tavola rappresenta il ritorno alla fonte, in cui il protagonista contempla “le forme dell’integrazione e della disintegrazione”, conscio che “chi non è legato alla forma non ha bisogno di essere riformato”.

La decima tavola, il cui testo è citato più sopra, riguarda il ritorno nel mondo. Non vi è più alcuna opposizione allo scorrere della vita, ma proprio per questo, visitando la bettola o il mercato, chiunque il protagonista guardi “diventa illuminato”.

I 10 Tori di Kakuan
I 10 Tori di Kakuan

Abbiamo esaminato molte strade in questo articolo, e molti punti di vista differenti. La morale di questa storia è che se tutto si risolvesse nel nulla dell’ottava tavola, rimarrebbe irrisolto il mistero fondamentale: perché tanta confusione, per ritrovare ciò che non era mai stato perduto.

Per questo, qualunque realizzazione e qualunque altissimo stadio di consapevolezza si possa (o si ritenga) conseguire tramite la meditazione – che non è soltanto stare seduti o eseguire una tecnica – è del tutto inutile se non si completa il quadro tornando del mondo, che è semplicemente l’altra faccia, per quanto possa apparire deformata, dell’assoluto tanto cercato.

tumblr_inline_o23ik1VpqB1qz7fk7_500

Note[+]

Note
↑1 Da notare che una raffigurazione molto simile è visibile in uno dei reperti del Calderone di Gundestrup (nell’odierna Danimarca), risalente al periodo tra il II secolo a.C. e il III secolo d.C.
↑2 Daniel Odier, Meditation Techniques of the Buddhist and Taoist Monks, Bear & Co, 2003 https://www.scribd.com/read/230486661/Meditation-Techniques-of-the-Buddhist-and-Taoist-Masters
↑3 Per i rapporti tra Taoismo e Buddhismo si veda il nostro articolo Il mondo è un recipiente sacro e non si può governare
↑4 L’haiga è una forma espressiva giapponese che combina la pittura con la poesia haiku.
↑5 Il maestro zen Sengai: poesie e disegni a china, a cura di Daisetz T. Suzuki, Guanda, 1988
↑6 Tilopa, Mahamudra (Il Grande Sigillo)
↑7 Padmashambava, La liberazione attraverso la visione nuda della natura dello spirito
↑8 Khenchen Thrangu Rinpoche, An Ocean of the Ultimate Meaning: Teachings on Mahamudra
↑9 Eric Baret, Lo Yoga tantrico del Kashmir, Om Edizioni, 2016
↑10 A riguardo, si veda questo estratto ben esplicativo
↑11 Nagarjuna, A Commentary on the Awakening Mind
↑12 Jean Klein, Neither This nor That
↑13 Il Canto del Beato (Bhagavadgita), commento di Abhinavagupta, a cura di Raniero Gnoli, UTET, 1976 http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/vedanta/gnolibhg.pdf p.80
↑14 Si veda Dogen Zenji; Uchiyama Roshi Kosho, Istruzioni a un cuoco zen. Ovvero come ottenere l’illuminazione in cucina, Astrolabio
↑15 Swami Satyananda, Kundalini Tantra, Yoga Publication Trust
↑16 Abhinavagupta, Pratyabhijnavimarsini
↑17 Ksemaraja, Pratyabhijñâhrdayam – Il Cuore Del Riconoscimento
↑18 Vijnanabhairava Tantra, 13
↑19 Contenuto in Mumon, La porta senza porta: seguito da 10 Tori di Kakuan e da Trovare il centro, Adelphi. È degno di nota che questa edizione di due classici dello Zen includa in appendice un condensato del Vijnanabhairava.
Leggi

meditazione    Yoga

meditazione    Yoga

Lo Zen e l’arte di spaccarsi le palle con la meditazione

31 Maggio 2016 di Francesco Vignotto


Su internet circolano ormai moltissime infografiche che illustrano i benefici del meditare sotto l’aspetto fisiologico e mentale. Lo fanno spesso con qualche immagine stereotipata di tramonti o di cascate, volti sorridenti e corredandolo con qualche nuovo studio ‘scientifico’ sull’attività cerebrale dei meditanti – abbiamo visto, del resto, quanto gli studi scientifici raramente siano compresi per quello che vogliono dire e arrivino spesso di terza o quarta mano al lettore medio.

Leggo inoltre che grandi aziende hanno inserito la meditazione nelle attività per i dipendenti, in modo da ridurre i livelli di stress in azienda e aumentare la produttività. I maligni del Guardian sostengono che si tratti di un escamotage per non affrontare le reali cause dello stress sul posto di lavoro, ma tant’è.

Dopo qualche secolo di esaltazione dell’iperattività, di abusi alimentari e di sostanze eccitanti, sembra insomma che sedersi immobili e concentrarsi (o semplicemente pensare di non pensare) sia qualcosa di altrettanto cool quanto la dieta vegana e i rave salutisti, e che la sua immagine abbia perso le tinte austere con cui, ad esempio, l’ho conosciuta io.

Non rimpiango certo quelle tinte, che oggi appaiono un po’ bacchettone e scoraggianti. Tuttavia c’è qualcosa di caricaturale nell’euforia odierna, e cercherò di spiegarmi in questo articolo, conscio che la mia è solo una opinione tra le tante possibili.

meditazione-stereotipi

Innanzitutto, come per lo Yoga – qui inteso per comodità “merceologica” come disciplina che comprende anche la pratica psicofisica – la gente vuole sapere se la meditazione fa male o la meditazione fa bene. Il problema è che la meditazione, come lo yoga, non fa nessuna delle due cose. Anzi, non fa proprio. Per lungo tempo – e forse in senso assoluto – la meditazione si occupa di dis-fare, e mi si perdoni il terribile gioco di parole.

Anche per questo mi trovo a volte in imbarazzo nel rispondere a persone che chiedono di partecipare alle lezioni di meditazione qui a Zénon. Spesso non sanno di cosa si tratti esattamente, ma sulla base delle notizie in loro possesso ritengono che possa risolvere i loro problemi. Qualcuno si sente ansioso, qualcuno è depresso, alcuni pensano di pensare troppo (e già questo è un doppio problema), e a volte la pratica meditativa viene suggerita loro dal medico – e d’altro canto non sempre, lo dico al di sopra di ogni sospetto (qui a Zénon ci sono dei medici), la prescrizione è effettuata con cognizione di causa.

Ebbene, di fronte a queste aspettative mi sento in tutta sincerità di invitare a provare prima con lo Yoga, o con il Qi Gong o con il Tai Chi (potrebbe essere anche altro, ma mi limito a quello che può offrire la casa), specificando che queste pratiche, per noi, significano anche meditazione. Il “rodaggio” con queste pratiche che contemplano una maggior integrazione degli aspetti corporei è anzi ormai una regola fissa qui a Zénon per accedere alle ore di meditazione, anche a costo di scontentare qualcuno.

Il motivo è che, a mio parere, iniziare con una pratica volta a disciplinare la mente per mezzo della mente significa spesso cercare di costruire una casa partendo dal tetto, con risultati a volte disastrosi, anche se in altri casi, in presenza di venditori particolarmente abili e incuranti, si riesce a convincere l’acquirente che le fondamenta non servono a niente.

Tuttavia, quanto abbiamo appena detto non è del tutto esatto: nella meditazione non si utilizza solo la mente, come potrebbe sembrare, perché la meditazione richiede dei prerequisiti psicofisici, tra cui la capacità di trovarsi a proprio agio in una (relativa) immobilità corporea rimanendo al tempo stesso rilassati.

Alcune tradizioni prescrivono la postura del loto o altre posture sedute tutt’altro che naturali per noi occidentali, che devono diventare “comode e stabili” (tale è la celebre definizione yogica della postura seduta). Altre forme di meditazione dinamica richiedono una certa scioltezza fisica che è profondamente diversa da quella di un ginnasta, perché deriva non dalla semplice flessibilità muscolare ma richiedono lo stesso stato di disponibilità mentale della meditazione “statica”.

Ma anche sedendo su una sedia senza troppe formalità, il punto più difficile è gestire il naturale dinamismo della mente, di cui il dinamismo corporeo è un sottoprodotto, così come la tendenza a saltare di pensiero in pensiero: tutto ciò può costituire un ostacolo insormontabile senza un’adeguata preparazione.

Scriveva Aurobindo:

L’attività normale della nostra mente è fatta in gran parte di un’agitazione disordinata, piena di sperpero e di energie sprecate in frettolosi tentativi, di cui appena una piccolissima parte è utile alle operazioni di una volontà padrona di sé stessa (si tratta, ben inteso, di sperpero dal nostro punto di vista, non secondo quello della Natura universale in cui tutto ciò che a noi sembra spreco serve gli scopi della sua economia). L’attività del nostro corpo è fatta di questa agitazione. 1Aurobindo, La sintesi dello Yoga, Ubaldini

Proprio per questo, prosegue Aurobindo nello stesso scritto, l’haṭhayoga 2A scanso di equivoci, con questo termine intendiamo qui – e lo intendeva Aurobindo – lo Yoga che prevede l’utilizzo di tecniche psicofisiche quali le principali sono āsana e prāṇāyāma. Quasi ogni forma di Yoga oggi praticato nelle palestre, a dispetto della varietà di etichette e delle varie elaborazioni didattiche, è riconducibile a questa tradizione, anche se a volte con profonde differenze che solo in parte abbiamo visto in Lo Yoga in una posizione. può essere una solida base di partenza, perché comincia ad affrontare il problema dall’altro bandolo della matassa, quello più facile da disciplinare.

Da notare anche che Aurobindo, la cui prospettiva di Yoga Integrale è molto vasta e articolata, non era esattamente un grandissimo estimatore dell’haṭhayoga, così come della meditazione, che riteneva mezzi utili solo temporaneamente, laddove in molte tradizioni sono considerate delle vie autosufficienti che possono condurre sulle più alte vette.

meditazione
Illustrazione di Nick Lowndes per il Guardian

Mentre l’haṭhayoga permette infatti di drenare preliminarmente parecchie tensioni mentali attraverso il corpo in modo graduale e senza cadere nelle varie trappole della mente, la meditazione è molto più spesso una “cura da cavallo” che rischia di essere troppo drastica – o inutile- se affrontata da sola.

Durante la meditazione la mente si comporta infatti come un organismo sottoposto a un digiuno: ridotta o sospesa l’alimentazione (è il primo cibo disciplinato sono gli stimoli sensoriali), comincia a fare pulizia interna rigurgitando anche i contenuti sedimentati molto in profondità. Ammesso che la mente riesca a disciplinarsi in tale dieta, il rischio è che la mente finisca più spesso per ubriacarsi di sé stessa, piuttosto che smaltire la sbornia da iperattività a cui è normalmente soggetta.

Il problema non è tanto la quantità di materiale da smaltire, che paradossalmente potrebbe essere eliminato in un istante, ma la capacità di lasciare esaurire la sua produzione, dacché la mente non solo “contiene” ma “crea” in continuazione, allentando la reattività a agli stimoli (ne avevo parlato riguardo al concetto di rilassamento profondo in Dormire col demone che grida).

In questo bisogna arrivare già preparati quando ci si siede a meditare, altrimenti il gradino rischia di essere troppo alto. La mia, ripeto, è un’opinione, mentre altrettanto autorevoli fonti ritengono che basti la meditazione in sé (si veda ancora Lo Yoga in una posizione). Anche se questa contrapposizione è in ultima analisi relativa, ritengo che a favore della mia tesi ci siano parecchi argomenti troppo spesso sottovalutati.

Anche alla luce di tutto questo, la meditazione è da affrontare con cautela in caso di problematiche che turbano lo stato mentale. Anzi, a maggior ragione sconsiglio di meditare a tutti coloro che riferiscono di problematiche di stress, ansia, depressione o siano semplicemente già troppo inclini a rimuginare. Per questi ultimi, in particolare, la meditazione è l’ultima attività da intraprendere, in quanto li scollegherebbe ancora di più dalla realtà. Il che è ben diverso dal realizzare l’illusorietà del mondo fenomenico come formulato in molte tradizioni: significa anzi rimanere ancora più vittime delle illusioni della propria mente.

Insomma, la meditazione, anche e forse soprattutto nelle sue forme più “semplici” e a dispetto dell’aspetto “sexy” oggi attribuitole, può essere spesso una pratica molto frustrante. In molti casi, terribilmente noiosa. Non di rado, quando si hanno parecchi spettri nella bisaccia (che quasi mai sono noti o evidenti), può scatenare conflitti piuttosto violenti nel praticante.

401853_482895431778688_765701412_n-600x380

Tuttavia, l’incontro con questa noia e con questa frustrazione, anche con questi conflitti, è un segnale in un certo senso positivo ed entro certe dosi è un passaggio necessario, perché significa che la pratica sta agendo il suo effetto. Peggio è ancora quando il praticante fin dall’inizio riferisce di esperienze meravigliose e di una pace intensa, perché spesso è il segnale che nessuna purga può scalfire la costipazione. Ho imparato a dubitare seriamente della salute mentale di chi si delizia dell’olio di ricino come di una prelibatezza, ma tra le varie disfunzioni alimentari esiste oggi di sicuro anche questa. Sempre che, ovviamente, l’amara medicina non sia stata contraffatta e depotenziata, come vedremo tra poco.

In ogni caso, il problema è: come avanzare oltre questa noia e questa frustrazione? Elenco alcune possibili vie pessimistiche. In un primo caso, piuttosto frequente, è molto facile l’abbandono di una strada ritenuta troppo difficile.

yoga-meditation

Un caso intermedio, ma non raro in alcune nicchie oggi come un tempo, è che al lassativo si sostituisca qualche sostanza psicotropa o qualche palliativo colorato (app per gli smartphone, palline fluorescenti, santini del guru e suggestioni emotive di varia natura) nell’illusione di tagliare per vie abbreviate.

Purtroppo, come ripeto sempre in questi casi, un somaro in LSD a cui appare lo Spirito Santo in persona rimane pur sempre un somaro, posto che il più delle volte lo Spirito Santo è un’ulteriore proiezione della sua mente più intossicata del consueto. Non si può pensare che l’esperienza abbia efficacia a prescindere dal livello di coscienza di chi la sperimenta, il che lo si conquista con un durissimo lavoro.

Ma spesso anche chi persevera non se la passa molto meglio. Abbiamo visto infatti generazioni di meditanti continuare la pratica senza grandi risultati, nella rassegnazione a rompersi discretamente le scatole, osservando i puntini comparire e scomparire all’orizzonte del loro personale Deserto dei Tartari, credendo di scorgervi ogni giorno i segnali di una svolta che non arriverà mai.

In quest’ultimo caso, la meditazione diventa come le famose cinque razioni di frutta e verdura da mangiare ogni giorno o la messa per il cristiano svogliato. E spesso questa noia è percepita quale giusta dose di sofferenza da accollarsi per salvarsi l’anima (o, nel gergo, per bruciare un po’ di karma), siccome ogni cosa che salvi l’anima è dolorosa (così almeno ci hanno detto).

weed-and-meditation
Non manca chi suggerisce di aiutare la meditazione tramite l’utilizzo di cannabis, per “aiutare ad allentare le resistenze”.

Il primo e l’ultimo caso sono tipici – anche se non sempre –  di quel particolare profilo di praticante che si dedica alla sola meditazione “seduta” ritenendo che le magagne del proprio corpo possano essere separate da quelle della propria mente (a onor del vero un giorno parleremo anche dei praticanti “esperti” di yoga che dopo molti anni non riescono a tollerare anche solo pochi istanti di inattività: è l’altro lato di una medaglia che si tenta sempre di scindere).

Insomma, la meditazione molto spesso e per molto tempo sembra accumulare sul tavolo i problemi, invece di risolverli.

Ma siamo sicuri di aver capito cosa sia la meditazione? A dire il vero, più passano gli anni e più confesso di avere idee felicemente sempre meno definite e sempre più sfocate sulla questione. È anche per questo che scrivere questo articolo mi ha creato parecchio imbarazzo, in quanto per necessità espressiva so di aver usato alcuni stereotipi e dando parecchio per scontato.

Le persone che si informano su un corso di meditazione vogliono sapere quale tipo di meditazione si faccia, se è “statica” o “dinamica”, sciamanica, cristiana, buddhista, laica o trascendentale, insomma vogliono sapere che cosa aspettarsi da quell’oretta alla settimana e di poterlo inquadrare in base alle etichette correnti. Il che, in un certo senso, è del tutto comprensibile dal punto di vista di un acquirente che poco si fida della scatola chiusa, e in molti casi fa bene.

Ma qui si rivela quanto la meditazione poco si concili con le categorie merceologiche. Il più grande equivoco è infatti dare per scontato che la meditazione sia quel qualcosa che “si fa” quando si “decide” di meditare, il che, come vedremo nel seguito di questo articolo, non è per nulla scontato, dacché pensare di fare e di decidere, o connotare con qualche colorante folkloristico significa rimanere ancora intrappolati ben prima del nodo da sciogliere.

Moltissime tradizioni che hanno tenuto in gran conto la meditazione, del resto, hanno anche detto che meditare è inutile. Non soltanto nel senso che non dev’esserci aspettativa di vantaggio alcuno – il che poco di concilia con la meditazione per aumentare la produttività, o anche per migliorare la concentrazione o ridurre lo stress. Molte tradizioni affermano infatti da un lato che meditare è la via, dall’altro che meditare è controproducente.

Ma allora cos’è la meditazione e perché tutte queste contraddizioni?  Per amor di sintesi, e per non aggiungere per ora troppa carne al fuoco, affronteremo l’argomento nel prossimo articolo.

Note[+]

Note
↑1 Aurobindo, La sintesi dello Yoga, Ubaldini
↑2 A scanso di equivoci, con questo termine intendiamo qui – e lo intendeva Aurobindo – lo Yoga che prevede l’utilizzo di tecniche psicofisiche quali le principali sono āsana e prāṇāyāma. Quasi ogni forma di Yoga oggi praticato nelle palestre, a dispetto della varietà di etichette e delle varie elaborazioni didattiche, è riconducibile a questa tradizione, anche se a volte con profonde differenze che solo in parte abbiamo visto in Lo Yoga in una posizione.
Leggi

meditazione    Yoga

Copyright © 2014-2022 – Zénon Cooperativa Sportiva Dilettantistica Corso XXIII marzo 17 28100 Novara C. F. e P. IVA 02419740036 Privacy Policy. Contributi pubblici.