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Zénon | Yoga e Qi Gong

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James Mallinson

Yoga, o la (re)invenzione di una tradizione: intervista a Marco Passavanti

11 Dicembre 2018 Francesco Vignotto


Per questa intervista ho voluto rispolverare L’invenzione della tradizione, lettura che risale ai miei ormai lontani anni come studente universitario, perché è un titolo che ricorre spesso nella mia mente quando si parla delle origini dello yoga e dei suoi spesso fumosi rapporti con la pratica odierna.

La raccolta di saggi curata da Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger narrava come negli ultimi due secoli le tradizioni ritenute antiche fossero spesso utilizzate per stabilire una continuità con il passato e rafforzare l’identità e il senso di appartenenza. Nel contesto delle società di massa, tuttavia, erano svuotate dei significati originari. E, particolare di non secondaria importanza, sia le tradizioni, sia il passato a cui si ricollegavano erano spesso il frutto di un’invenzione recente, dal cerimoniale della monarchia britannica ai kilt che contraddistinguevano i clan scozzesi.

Potremmo dire che qualcosa di simile, da un certo punto di vista, è accaduto anche allo yoga moderno? Fino a pochissimi anni fa, lo yoga era ritenuto – fatta eccezione per le derive ‘commerciali’ dello yoga occidentalizzato – un prodotto astorico giunto a noi direttamente dall’antichità vedica. Oggi, grazie agli studi pionieristici degli ultimi anni, sappiamo che le cose non sono andate esattamente così.

Eppure, anche relegare lo yoga come un ennesimo caso di ‘invenzione della tradizione’ è ancora una verità parziale. La realtà che emerge dagli studi in corso è molto più complessa e siamo ben lontani dal poter giungere a conclusioni definitive; si sollevano questioni molto delicate che riguardano temi come l’appropriazione culturale, la spiritualità come mercato, le dissonanze cognitive nella traduzione tra diverse culture ma anche i nuovi significati che nel frattempo lo yoga ha assunto (temi esemplarmente esposti già una decina di anni fa da Federico Squarcini e Luca Mori in Yoga: tra storia, salute e mercato).

Una delle vere novità, nel frattempo, è che questi studi, pur destabilizzando parecchie delle idee sullo yoga, una volta tanto non sembrano allontanare e contrapporre il mondo dei praticanti e il mondo degli studiosi. Ne abbiamo parlato con Marco Passavanti, che può essere considerato uno degli esempi di questo avvicinamento.

Marco è dottore di ricerca in civiltà, società ed economia del subcontinente indiano presso la Facoltà di studi orientali dell’Università ‘La sapienza’ di Roma. Marco ha conseguito il diploma in  lingua e cultura tibetana presso l’IsIAO di Roma ed è autore di diversi studi sulle tradizioni del buddhismo indo-tibetano, tra cui Ippolito Desideri, un gesuita tra i lama del Tibet (2014). Nel 2019, uscirà presso Ubaldini la sua traduzione di Roots of Yoga di James Mallinson e Mark Singleton.

Parallelamente alla formazione accademica, Marco ha coltivato sin da giovanissimo la pratica dello yoga, formandosi con Claude Marèchal, allievo diretto di T. K. V Desikachar, e pioniere della diffusione della tradizione del Viniyoga in Occidente. Attualmente si dedica alla formazione di insegnanti nell’ambito di diversi percorsi formativi presso l’AYCO di Roma e Il Mondo Yoga di Parma.
Marco Passavanti

Perché è importante, oggi, lo studio anche accademico delle tradizioni legate allo yoga, per insegnanti e praticanti? Fino a qualche tempo fa (e in parte anche ora) si rischiava di essere accusati di essere ‘troppo mentali’…

Occorre innanzitutto chiarire un punto: quello che definiamo studio accademico dello yoga consiste principalmente nell’analisi rigorosa dei testi, delle testimonianze storiche e dei discorsi relativi allo yoga, allo scopo di tracciarne le origini, gli sviluppi e gli esiti. Ovviamente, le conclusioni a cui giungiamo non sono mai definitive; nuovi studi, nuovi documenti, nuovo materiale possono mettere in discussione le conclusioni precedenti o aprire nuovi percorsi di ricerca.

Questo metodo di studio aperto e inquisitivo spesso è in conflitto con le narrazioni dogmatiche e le credenze settarie di guru o di istituzioni che si riallacciano a concezioni religiose hindu o buddhiste. Tale conflitto vede a volte contrapposti gli «scholars» e i «practitioners», entrambi diffidenti gli uni degli altri. A mio modo di vedere queste due etichette hanno sempre meno senso oggi: molti studiosi sono anche praticanti, o interessati alla dimensione filosofica ed esistenziale dell’oggetto che studiano, e molti praticanti sono anche studiosi, o quantomeno conoscono e apprezzano gli studi accademici sullo yoga, e in generale sulle religioni e le filosofie dell’Asia. Per quanto riguarda l’Italia, siamo ancora indietro rispetto al mondo anglofono o francofono: molte opere fondamentali sullo yoga e la sua storia sono in attesa di essere tradotte e pubblicate. Ritengo però che la situazione sia destinata a cambiare a breve.

È significativo che in molti corsi di formazione è ormai una consuetudine acquisita includere moduli di introduzione al pensiero indiano tenuti da studiosi accademici. Il detto secondo cui lo yoga è «novantanove percento pratica e un per cento teoria» andrebbe radicalmente ripensato: chi insegna yoga oggi in Occidente non può fare a meno di una solida formazione intellettuale che prevede lo studio dei testi e della storia dello yoga, nonché una riflessione critica sugli sviluppi dello yoga nella modernità.

A mio giudizio, la figura dell’insegnante di yoga dovrebbe essere quella di un operatore culturale a cui spetta il compito delicato di divulgare correttamente concetti, pratiche e dottrine provenienti da un contesto culturale molto differente dal nostro.

Una delle novità più rilevanti di questi ultimi anni per praticanti e insegnanti è il concetto di Modern Yoga o Modern Postural Yoga, ovvero che lo yoga che oggi pratichiamo – compreso quello che rivendica la fedeltà a una tradizione – presenta dei caratteri fortemente innovativi e ibridi rispetto allo yoga premoderno. La domanda però è inevitabile: che cosa è lecito (o plausibile) chiamare yoga e cosa non lo è, oggi? 

Negli ultimi decenni molti studiosi hanno messo in luce, con argomenti difficilmente contestabili, quanto molte forme di yoga praticato in India nel tardo periodo coloniale e oggi in Occidente siano lontane dai modelli premoderni: se uno yogin di duemila, mille, o anche soltanto di duecento anni fa potesse partecipare a uno yoga festival faticherebbe non poco a riconoscere qualcosa di familiare in quello che chiamiamo comunemente yoga.

Se nei modelli antichi è soprattutto l’aspetto della meditazione (dhyāna) a definire lo yoga, oggi «fare yoga» significa nella gran parte dei casi eseguire una serie di posture (āsana), molte delle quali non sono descritte in nessun testo premoderno. Inoltre, quelle poche posture che possono vantare una storia millenaria o centenaria hanno spesso scopi e funzioni che non sempre corrispondono a quelli descritti nei manuali contemporanei.

Lo yoga praticato attualmente in Occidente (e in misura sempre crescente anche in India) è stato perciò definito «yoga posturale moderno», dato che si basa quasi interamente sulla pratica degli āsana. A complicare il quadro c’è il fatto che molti guru o figure di spicco dello yoga posturale moderno rivendicano una fedeltà assoluta al modello tradizionale, richiamandosi a figure come Patañjali.

Per rispondere alla domanda su cosa sia lecito chiamare yoga oggi, bisogna innanzitutto lasciare andare l’idea che esista uno yoga perenne, immutabile, svincolato dalla storia: lo yoga posturale rappresenta uno sviluppo, un adattamento e in certi casi un completo stravolgimento, di modelli indiani precedenti, a loro volta esito di processi lunghissimi di evoluzione.

Non si può comprendere lo yoga di oggi se non si ha un quadro chiaro di cosa è successo in India negli ultimi duecento anni. Lo yoga premoderno (primo tra tutti l’haṭhayoga) ha infatti subito un processo di adattamento e ripensamento nel contatto con idee provenienti dal mondo occidentale: il razionalismo scientifico, l’occultismo e la teosofia, le forme di cultura fisica europee, le idee e le pratiche salutistiche, le medicine alternative e la psicanalisi, la controcultura degli anni sessanta, la new age, eccetera.

Le pratiche di āsana proposte oggi in uno yoga studio di New York o di Milano possono certamente essere definite «yoga», a patto però di rinunciare all’idea che esse rispecchino fedelmente le forme tradizionali. Rispetto al passato sono mutati radicalmente il contesto sociale e gli scopi stessi della pratica. Alcune tecniche sono rimaste quasi invariate, altre sono scomparse, alcune hanno cambiato forma e scopo, o sono state rimpiazzate da pratiche ginniche, calisteniche o sportive di varia provenienza.

Pochissimi yogin occidentali sono asceti casti che vivono di elemosine e aspirano alla realizzazione di poteri sovrannaturali (siddhi) e alla liberazione dal ciclo opprimente delle rinascite (saṃsāra); la maggior parte vive in contesti urbani, ha un profilo su Instagram, un lavoro stressante, una vita affettiva e sessuale, disagi psicologici più o meno importanti, frequenti mal di schiena, e desidera superare indenne la prova costume.

Nel migliore dei casi questo yoga va incontro alla ricerca di senso e alle aspirazioni legittime di chi lo pratica: oggi come ieri esalta il valore di una serie di scelte etiche, di una mente vigile, amorevole e silenziosa, e l’importanza del respiro e del corpo come strumento di lavoro su di sé. Nel peggiore dei casi questo yoga è una delle mille forme di intrattenimento che il mercato propone; un intrattenimento vagamente spirituale ed esotico, o un workout alla moda, destinato prima o poi a essere accantonato o soppiantato da nuovi prodotti, come ogni merce.

L’approccio visivo ha avuto un’importanza capitale sia nella formazione dello yoga moderno, sia nel boom di questi ultimi vent’anni, con una drastica accelerazione dovuta ai social network. Quali pensi siano le ripercussioni di questo fenomeno? Tu ad esempio vieni da una scuola che è in netta controtendenza con questo… 

È innegabile che il successo di molte tradizioni di yoga posturale moderno sia il risultato diretto di un approccio visivo. Per accorgersene basta sfogliare un testo come Light on Yoga di B. K. S. Iyengar, uno dei primi manuali di pratica degli āsana, dove ciascuna delle centinaia di immagini che contiene è divenuta oggi un’icona pop.

I mezzi di comunicazione non fanno che accentuare questa tendenza, con il risultato che lo yoga viene identificato da milioni di persone con l’esecuzione di posture complesse, acrobatiche, che richiedono doti fisiche non comuni e che al tempo stesso, non si capisce bene come, hanno anche una dimensione «spirituale».

La sensazione è che una gran parte degli yogin contemporanei viva come davanti a uno specchio, finendo per essere costantemente impegnata a osservarsi dall’esterno e a essere osservata, nel tentativo faticoso di imitare modelli pressoché irrealizzabili di forza e flessibilità, di allineamento e perfezione estetica.

Dietro tutto questo fenomeno si avverte la tensione e la frustrazione tipica del mondo globalizzato tardo capitalista: la modella e yoga-celebrity che esegue alla perfezione rājakapoṭāsana in un elegante resort a Bali, dall’alto del suo Olimpo ricorda ogni giorno a milioni di persone quali sono le priorità e cos’è la felicità. Il colmo è quando la stessa modella, nei suoi post su facebook, ci esorta ad «accettarci così come siamo», oppure a «realizzare il nostro vero sé», magari con un oṃ śānti finale.

T. K. V. Deiskachar

La tradizione del Viniyoga di Krishnamacharya, trasmessa da suo figlio Desikachar, nella quale mi sono formato e in cui mi sento a casa, rappresenta per molti versi una tendenza contraria: raramente l’insegnante mostra le posture (quasi sempre chiede l’aiuto di un’altra persona), e la pratica degli āsana si basa essenzialmente su posture ordinarie non particolarmente «spettacolari» (anche se in linea generale non sono escluse le posture dette viśeṣa, o «straordinarie»).

Nell’approccio del Viniyoga viene data grande importanza allo yoga individuale, e benché sia dato ampio spazio alla pratica collettiva, si sottolinea sempre la necessità imprescindibile della pratica «solitaria», svolta in uno spazio intimo e appartato. A ben vedere, questo è il modo in cui la pratica dello yoga è stata intesa per millenni: alcuni passi della Haṭhapradīpikā o della Gheraṇḍasaṃhitā (per menzionare solo i testi più noti) raccomandano allo yogin di praticare in reclusione, lontano da occhi indiscreti e distrazioni sociali, e forniscono istruzioni dettagliate sullo spazio della pratica. Siamo lontanissimi dai megaraduni a Times Square e dalle pose su Instagram o Facebook.

L’approccio visivo induce a un’altra riflessione: è plausibile un esoterismo di massa, o il massimo che abbiamo ottenuto è un po’ di inevitabile folklore?

Un esoterismo di massa è di per sé un ossimoro. L’esoterismo per definizione presuppone un’élite di «iniziati» e una massa di «profani». È indubbio che lo yoga sia nato in un contesto esoterico, o quantomeno sia stato elaborato e trasmesso all’interno di gruppi ristretti ed esclusivi, spesso vincolati a voti di segretezza.

Helena Petrovna Blavatsky

Le opere di teosofi come Blavatsky, Bailey e Leadbeater, di figure come Guénon, Vivekananda, Aurobindo, Jung, Avalon, Eliade, Evola, Osho, di tantissimi altri autori appartenenti alla galassia new age o della «nuova spiritualità», hanno fatto conoscere a un pubblico vastissimo idee e pratiche esoteriche tramandate all’interno delle tradizioni religiose asiatiche, contribuendo in modo significativo a orientare e spesso a distorcere la percezione che oggi abbiamo di esse.

In molti casi si tratta di fenomeni di appropriazione culturale: si colgono elementi decontestualizzati di un’altra cultura, si interpretano selettivamente i documenti (spesso basandosi su pessime traduzioni), e si organizza il materiale secondo una propria agenda, o seguendo le mode culturali del momento. L’inevitabile «folklore» che ne scaturisce balza subito agli occhi degli osservatori più attenti: gli onnipresenti Gaṇeśa negli yoga studio, il tantra per coppie, lo yoga sciamanico, il karma e la legge di attrazione, le frasi che il Buddha non ha mai detto, gli oṃ sulle magliette, i namastè, i saponi e i profumi abbinati ai cakra, i trattamenti «energetici», i kirtan mal pronunciati e mal tradotti, eccetera, eccetera. Uno dei contributi fondamentali delle discipline accademiche che studiano le culture asiatiche è stato quello di aver messo in luce questi fenomeni, dimostrando quanto i processi di appropriazione culturale abbiano condizionato la nostra percezione.

Provo a esagerare un po’: la salute totale, la perfetta simmetria del corpo, la rimozione dell’impuro, il rilassamento e la meditazione per essere più efficienti e sopportare più stress al lavoro, il controllo delle emozioni, il controllo del respiro, il controllo dei pensieri, il controllo degli sfinteri. Quanto è alto il rischio che lo yoga di massa – e le motivazioni che lo alimentano – producano generazioni di nevrotici che sanno fingere più o meno bene di non esserlo? 

È una domanda complessa a cui non è facile dare una risposta. Non c’è dubbio che l’aspetto del controllo sia una parte fondamentale della disciplina yogica sin da tempi remoti: molte tecniche dello yoga sembrano voler andare in una direzione opposta al corso delle cose, controllando il respiro, la postura, i sensi, la mente, il processo della morte, a volte sfidando le leggi stesse della natura.

Nello yoga premoderno, come praticato ad esempio in India o in Tibet, questo aspetto del controllo, dell’«aggiogare», ha tuttavia una precisa funzione soteriologica ed è posto all’interno di una cornice più ampia, di una precisa visione del mondo. Al contrario, nello yoga contemporaneo transnazionale questo aspetto del controllo è spesso decontestualizzato, e i suoi scopi variano notevolmente rispetto a quelli tradizionali.

L’odierno lifestyle yogico, fatto di salutismo, veganesimo, pensiero positivo, apertura del cuore, terapie alternative e routine quotidiane è un fenomeno dalle mille sfaccettature. C’è chi giustamente aspira a vivere una vita sana e a ritrovare la salute, c’è chi non si arrende al grigio e vuole sentirsi vivo, o ancora c’è chi cerca di combattere lo stress e di trovare, almeno per un’ora, un po’ di tranquillità, per quanto relativa. A volte però il ricorso a tecniche yogiche o meditative si rivela un cavallo di troia che può nascondere ogni genere di nevrosi, trasformandosi in un rituale giornaliero ossessivo e narcisistico, o in una ricerca spasmodica di visibilità, o ancora in una dose quotidiana di endorfine.

Baba Ramdev, il perfetto rappresentante dello yoga come soft power nell’India contemporanea

Lo Yoga è oggi anche un formidabile strumento di propaganda da parte del governo nazionalista indiano. Quando vedo insegnanti di yoga leggere durante l’IYD il messaggio del Primo Ministro Modi ho un brivido… Credi che esista il pericolo per i praticanti di fare da grancassa all’hindutva, nell’ingenua convinzione che tutto ciò che arriva dall’India sia buono? 

Credo sia un rischio concreto e decisamente sottovalutato. È evidente che l’attuale governo indiano usi lo yoga in chiave identitaria, arrogandosi il diritto di stabilire cosa sia il «vero yoga» tramite il Common Yoga Protocol. È un’operazione che implica una radicale idealizzazione dell’India vedica, e in generale della tradizione hindu. Ci si rifà al «buon tempo antico», quando la società indiana era rigidamente e armoniosamente divisa in classi e aderiva ai principi del sanātanadharma, non c’erano mussulmani, buddhisti, inglesi e comunisti, tutti praticavano lo yoga, si curavano con l’āyurveda ed eseguivano la sequenza del sūryanamaskāra ogni mattina.

Ovviamente quest’India non è mai esistita; è un mito identitario al pari della Roma dei Cesari sotto il fascismo. Purtroppo, è un mito a cui credono ingenuamente anche molti occidentali poco informati e affascinati dall’India, immaginata come una terra di eterna saggezza dove tutto è «spirituale» (anche il sesso!), lontanissima dal gretto Occidente cristiano, corrotto e materialista.

Parliamo del corpo sottile: lo yoga moderno lo implica e ne disquisisce spesso come di una realtà anatomica di cui siamo dotati per nascita – spesso stabilendo rapporti più o meno plausibili con l’anatomia fisica. D’altro canto, gli studi sulle tradizioni tantriche ci mostrano una realtà più complessa, simbolica e iniziatica. È possibile un punto di incontro, oppure i modelli epistemologici sottostanti alle pratiche tradizionali sono inservibili al praticante di yoga moderno?  

Il tema del «corpo sottile» (sarebbe più corretto definirlo «immaginale» o «yogico») è un ambito in cui vediamo all’opera quelle dinamiche di appropriazione culturale di cui abbiamo appena parlato. Nelle tradizioni yogiche tantriche e nel successivo haṭhayoga il corpo immaginale è un sistema che ha senso solo se teniamo conto delle concezioni metafisiche e dottrinali delle diverse scuole; si tratta a tutti gli effetti di un modo di «incarnare» la propria tradizione di riferimento.

Il corpo yogico è infatti una realtà che viene creata dallo yogin nel rituale e nella meditazione, e si basa su un complesso processo di evocazione meditativa (bhāvanā). Nello yoga moderno questo tema viene completamente reinterpretato e spesso stravolto, secondo una modalità creativa e in certi casi dilettantistica.

In Occidente le concezioni relative al corpo sottile hanno di fatto cominciato a vivere di vita propria, svincolandosi quasi completamente dalle concezioni premoderne. Una serie di autori, a cominciare dai teosofi e da molti guru neo-hindu, hanno utilizzato il modello dei cakra, delle nāḍī, del prāṇa e della kuṇḍalinī, ed esposto in una manciata di testi antichi, come un’utile griglia simbolica che può includere ogni sorta di associazioni.

È utile dare una scorsa alla bibliografia contenuta nei manuali sui cakra oggi più venduti: oltre all’immancabile Arthur Avalon, si tratta sempre di letteratura secondaria, di autori occidentali e di guru indiani moderni, quasi mai di testi antichi. In sostanza ci si basa su una catena di interpretazioni di altre interpretazioni per operare una sorta di bricolage esoterico in cui ciascuno è libero di assemblare come meglio crede elementi eterogenei dalle provenienze più disparate: cakra, note musicali, ghiandole endocrine, tarocchi, divinità pagane, rune, arcangeli, pietre e cristalli, eccetera.

Il sistema a sette cakra, divenuto il modello oggi universalmente riconosciuto

Il sistema del corpo sottile è qui concepito, nelle sue versioni più ingenue, come un sistema perenne, innato, legato soltanto in modo accidentale alla cultura che lo ha prodotto. Si tratta di un’operazione tutto sommato innocua se si ha ben chiaro che si tratta di evoluzioni moderne che hanno soltanto una vaga relazione con i modelli antichi.

Se però riteniamo che i bestseller di Anodea Judith o di Deepak Chopra riflettano «l’antica scienza dei cakra» stiamo prendendo un grosso abbaglio. Cosa dovremmo fare dunque se volessimo praticare oggi le tecniche tradizionali di evocazione del corpo yogico? Provo a dare una risposta riferendomi alla tradizione che conosco meglio, quella del Vajrayāna, così come praticato oggi nelle scuole tibetane. È innanzitutto necessario un guru competente che, dopo averci insegnato una serie di pratiche preliminari (che richiedono anni), impartisca iniziazioni e istruzioni, e che ci guidi in un complesso processo meditativo, che solitamente comprende lunghi periodi di pratica intensiva (non basta qualche seminario di un weekend).

Questo processo prevede complesse ed elaborate visualizzazioni, il controllo del respiro e la recitazione di mantra. Ci sono molti occidentali che hanno scelto di intraprendere queste pratiche, ma in questo caso si tratta di un salto culturale notevole, dal momento che implica la conversione a una religione, e l’adesione totale a un sistema di valori.

Roots of Yoga, che hai tradotto e che uscirà in italiano nel 2019, è importante non solo per le strade che ha aperto nel rintracciare l’origine dello Yoga premoderno (oltre ad aver sfatato il mito di un’unica origine e un’unica tradizione ininterrotta), ma anche per quelle che non ha indagato o ha appena accennato. Quali sono secondo te le direzioni e le tradizioni che potrebbero essere ulteriormente indagate?

L’importanza di un’opera come Roots of Yoga è stata quella di svecchiare di almeno cinquant’anni il panorama degli studi sullo yoga, divulgando una mole enorme di traduzioni di testi originali finora noti soltanto a pochi specialisti, e includendo nella sua sterminata bibliografia tutti i migliori studi oggi disponibili sullo yoga. Si tratta di un libro che manda definitivamente in pensione testi come Yoga, immortalità e libertà di Eliade, che al confronto appare ormai irrimediabilmente datato. Mi ritengo fortunato ad avere avuto l’onore e il piacere di tradurre questo libro, dal quale non smetto di trarre suggestioni e spunti di riflessione e ricerca.

Come è ovvio, lo yoga è un fenomeno troppo complesso per poter essere trattato in modo esaustivo nell’arco di cinquecento pagine. L’opera si concentra molto sulle tradizioni medievali dell’haṭhayoga, e trascura in parte le tradizioni buddhiste (soprattutto quelle della scuola Yogācāra) che, com’è ormai assodato, hanno dato un contributo fondamentale all’evoluzione delle dottrine yogiche.

Affresco del Tempio Segreto dei Lama del Dalai vicino al Palazzo del Potala, Lhasa, Tibet.

Tu sei un tibetologo, oltre a essere un indologo. Vi sono dei collegamenti possibili tra la tradizione dello haṭhayoga e quella tibetana? Penso ad esempio a quello che oggi è chiamato Yantra Yoga (che, suppongo, nelle versioni popolarizzate abbia subito l’influenza dello yoga moderno di origine indiana)…

Così come un latinista è per forza anche un grecista, un tibetologo è per forza anche un indologo, dato che la cultura e la religione del Tibet affondano le loro radici in India. Lo yantra yoga, in tibetano trulkhor (‘phrul ‘khor), è un sistema (o meglio una serie di sistemi) di yoga fisico, che prevede l’esecuzione di differenti posture dinamiche, di tecniche respiratorie e di manovre che in alcuni casi ricordano gli āsana, i kumbhaka e le mudrā dell’haṭhayoga. Il rapporto tra i due sistemi non è affatto chiaro, e i pochi studiosi che se ne occupano non sembrano ancora essere giunti a conclusioni definitive.

Lo yantra yoga è una pratica a tutt’oggi segreta, legata alle fasi più avanzate dello yoga tantrico, e come tale riservata agli iniziati, che si impegnano a non divulgarne i dettagli. Alcuni pionieri, come Namkhai Norbu e Tenzin Wangyal, hanno deciso di insegnare a un pubblico più vasto almeno una parte di questi esercizi, ma in molte altre scuole (come ad esempio le scuole Kagyu) sono ancora pratiche vincolate rigidamente al segreto iniziatico. So che nel 2019 verrà pubblicato uno studio di Ian Baker, intitolato Tibetan Yoga, che probabilmente chiarirà alcuni punti oscuri e farà certamente discutere. In un futuro più o meno prossimo molte tradizioni di pratica dello yantra yoga avranno certamente una diffusione più ampia, e forse seguiranno il destino di molte pratiche yogiche indiane, che sono uscite ormai da tempo dalla dimensione esoterica e iniziatica.

Sarà interessante osservare questa fase di passaggio, e le eventuali trasformazioni e adattamenti che subirà la pratica nel momento in cui a coltivarla non saranno più yogin buddhisti in ritiro ma praticanti laici occidentali. Chissà se anche in quel caso ci sarà una corsa al marchio registrato…

Un’ultima domanda: ci sarebbe quella faccenda delle campane tibetane… 

…le famose campane tibetane che i tibetani non conoscono! L’ambiente dello yoga e delle spiritualità alternative, il mondo olistico e i centri benessere risuonano costantemente delle loro «vibrazioni». Un fatto è certo: queste campane non sono utilizzate né hanno una funzione particolare all’interno dei rituali o delle pratiche religiose tibetane tradizionali. Sfido chiunque a dimostrare il contrario.

Si tratta ancora una volta di un fenomeno innocuo e tutto sommato divertente di appropriazione culturale: oggetti di fabbricazione nepalese (penso fossero usate come ciotole) hanno catturato l’immaginario occidentale con il loro esotico tintinnio, e frotte di hippie di ritorno da Kathmandu le hanno fatte conoscere al mondo.

Attribuire a questi manufatti una remota antichità, immaginare che venissero usate nei monasteri del «mistico Tibet» per espandere la coscienza, impiegarle nei «massaggi sonori», magari collegandole ai vari cakra (rigorosamente sette, anche se i tibetani utilizzano in genere sistemi di quattro), può giustificare in parte il loro prezzo esorbitante, e permette di aggiungere al nostro bricolage spirituale un elemento esotico di sicuro impatto.

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Yoga as seen by sadhus: interview with Daniela Bevilacqua

20 Giugno 2018 Zénon

Foto di Daniela Bevilacqua

[Vai alla versione italiana]

Daniela Bevilacqua is an Indianist who is carrying out an important, and in many ways unprecedented, ethnographic research among the ascetic orders traditionally linked to the practice of yoga in the ancient times. Before starting the interview, it is worth spending a few words on the context in which her research is taking place that is the Haṭha Yoga Project.

From left: James Mallinson, Daniela Bevilacqua, and Mark Singleton

The HYP is a five-year research project funded by the European Research Council and based at the School of Oriental and African Studies of the University of London. Its purpose is to document the history of the physical practice of yoga through the philological study of the texts and the ethnographic research among the practitioners of traditional yoga, to study their relationships with contemporary practice.

Among the haṭhayoga Project researchers, there are scholars such as James Mallinson and Mark Singleton, authors of two important texts that have helped to radically redefine what we know about yoga today: the most recent, Roots of Yoga, co-curated by both, has made available a hundred or so texts that have never been translated before, revealing unpublished aspects of pre-modern yoga (such as, for example, the close connection with Tantric Buddhism); Singleton’s Yoga Body, on the other hand, reconstructed the birth of modern globalized yoga, bringing to light the creative aspects of tradition and the complex relationships with physical culture between the nineteenth and twentieth centuries.

The team also includes Jason Birch (Historian of Haṭha and Rāja yoga) who is editing and translating six Sanskrit texts on yoga and S V B K V Gupta (Research Assistant) who is transcribing manuscripts in south-Indian scripts for the HYP. And of course, Daniela, who is in charge of the fieldwork and who was kind enough to answer some of our questions while on the road for her investigations.

Considering the work of the HYP members, a question arises spontaneously: how is it possible, given the enormous popularity of globalized yoga, that the study of the direct sources of its origins through ethnographic work is actually a territory so little explored? I’m asking you because in many publications and training for teachers many certainties are still transmitted, which are actually based on very weak evidences. In short, how is it possible that not only we did not know, but did not know that we did not know?

Daniela Bevilacqua

Don’t tell me! When I started this project, the first thing I did was a bibliographic research on the ethnographic works already done on the subject, and to my amazement, apart from some articles by James (James Mallinson) and Ramdas Lamb – both scholars connected with the Vaiṣṇava Rāmānandī order- and some scattered references in sub-paragraphs of monographs – I did not find anything specific. The academic world, or rather the ethnography, has completely left aside the “traditional” Indian yogis.

There are several books written by modern yogis, or by westerners who have spent time and studied with some yogis; however, until now, an academic ethnographic work focused exclusively on the practice of yoga by yogis belonging to traditional ascetic orders has never been done. The reason why, I’m not sure. Perhaps because written texts of the past are still evaluated more than the oral narratives of the present. But in reality, even academic studies focusing on haṭha yoga texts are a recent introduction into Sanskrit studies.

Perhaps, the scarcity of ethnographic work also depends on the fact that ethnography among Indian bābā (ascetics) may not be congenial to everybody. James, for example, involved me in the project because he knew that I was already “into” the Indian ascetic world, I know the orders, I can speak Hindi and I also have the disposition to do intense fieldwork in India in situations that are sometimes a bit extreme. In fact, doing ethnography among sādhus means to be able to adapt to various situations, even taking into account the etiquette due to gender, and to spend time with people waiting until mutual trust develops and there is the possibility of a in-depth talk even without initiation. This is indeed one of the ethnographer’s problems, since specific teachings are given only after entering the order. Which, of course, I do not do for an ethical reason: I could pretend devotion and take as many initiations as the orders I “work” with are, but this is not the right way to proceed in my opinion. So I prefer to let time runs its course and let the sādhus decide what to tell me and when.

So I’m not making any sensational discovery (but if I did, I would not write them and tell the world!), still I’m collecting many pieces that I hope will help us to understand the evolution of haṭha yoga until today and the position of various ascetic groups in it.

Your ethnographic research takes place in some of the ascetic orders traditionally linked to haṭhayoga in the ancient times. What can an oral tradition tell us about the past of the yoga, which the texts do not say? What is the relationship between innovation and conservation, if a distinction of this kind makes sense?

Jogi Baba practices nauli

Following texts and my personal experience, I first turned my attention to the Rāmānandī, then to the Nāgā Daśnāmis, to some Udāsīns and to the Nāths, which are the groups mainly connected with the practice. I try as much as possible to gather information especially from the Nāths, since the diffusion of the teaching of haṭha yoga is traditionally traced back to Gorakhnāth, who, together with Matsyendranāth, is generally considered the “founder” of the Nāth order.

What can the oral transmission tell us about the yoga past? Well, first of all, it pushes us to question about the purpose of the texts, who they were written by and who they were addressed to. In fact, only a very small part of the ascetics I deal with knows the texts, because they attach little importance to them: if something can be read by everyone, obviously it does not represent the true teaching but only its surface: to dig properly into it we can’t leave the guru aside. So the only teaching that matters is what comes from oral transmission. And this is evident in haṭha yoga even more so because it is an experiential tradition, based on practice: it needs someone who can show and explain how to practice the various āsanas, kriyās, etc. This is vital. But this is also emphasized in the texts themselves.

One of the goals of the Haṭha Yoga Project is to understand the role of these texts and their audience, and the combination of ethnographic and textual work is bringing good results.

So, to sum up, compared to the texts, the oral tradition tells us exactly how to do those practices that are more or less described in the texts. Furthermore, it should not be forgotten that these practices are included in a religious context, so there is a whole range of additional knowledge that is necessary to be implemented to make the physical practice spiritually effective. In addition, oral tradition can give us important hints to reconstruct historical contexts, or to give to some words more extensive explanations in order to reconstruct their historical evolution, or to understand their meaning from different perspectives.

Regarding innovation and conservation, Indian reality, both textual and oral, although it claims to preserve, presents various possibilities of innovation thanks to the importance given to the guru: The guru is a constant source (both in the present and in the past) of innovation. This is why among the ascetics there are many variations and many different “stories”: each one transmits the teaching that comes from the guru of a specific tradition, and by tradition I refer not to the order in general but also to that of a temple or a specific monastery. The yogic sādhanā (discipline), again, is experiential, so it is based on the experience of a guru who, trying and experimenting, has found a path that allows the realization of yoga. Since he has found this path, he can teach it. This also implies the possibility for the yogi of a continual search from different sources. An ascetic spends the first years of his life as a renounciate not only with his own guru, but wandering through several centres of pilgrimage, spending time with other ascetics, sometimes even other orders, and so he creates his personal collection of experience and knowledge, on which his discipline will be based. It is easy then to understand how changes and innovations can occur.

What is their attitude towards globalized yoga and what is their relationship with it?

From a certain point of view there is a particular indifference: āsanas and prāṇāyāma are good for everyone, so if this kind of yoga – which is what Baba Ramdev teaches and advertises like a maniac today in India- spreads, then it’s good for humanity. Obviously, there are also ascetics who support this type of yoga because they aim for success in the West, out of curiosity, but also to hopefully become a famous yoga guru and accumulate disciples, fame and above all money.

However, for most ascetics, the advertised globalized yoga is a form of gymnastics, completely unrelated to the meaning and the spiritual goal that their yoga sets. For ascetics, yoga is not something to be done every other day or once a week, but it is an individual discipline that involves following precise rules and precepts, focusing on a single objective and, in doing so, obtaining the true knowledge of the self, of the reality, or the union with Paramātmā and so on.

This is why, as a yogini has told me once, the path of yoga must be undertaken when one really intends to answer the questions underlying the self. Then, since enquiry becomes a necessity, everything is put aside, and the only attention is paid to obtaining these answers.

In your paper “Let the sadhus talk” you note that, for most of the ascetics you interviewed, the term haṭha yoga is meant as a mental attitude rather than a corpus of physical practices, which are often considered propaedeutic and of secondary importance. Is it possible that this is the main element of discontinuity for what concerns globalized yoga, which is so worried about the technical aspect?

Yes, most of the ascetics I interviewed have defined haṭha yoga as a precise intention, a specific effort aimed at a specific goal. The reason is related to the fact that yoga also means “method, way” so when an ascetic says “haṭha yoga if hota hai” means “it happens through haṭha”, and therefore haṭha yoga is that method which, as I say in the article, is based on an intention so strong that leads to the fulfillment of the goal.

For this reason, most ascetics associate haṭha yoga with tapasyā. This connection between haṭha yoga and tapasyā is not a particular discovery, since, as Mark Singleton explains in his Yoga Body, in the last centuries haṭha yogi was synonymous with tapasvin, the one able to perform incredible austerities. And indeed even today, among the ascetics, those who do such practices – like being with one arm up or standing, etc. – are called haṭha yogis.

But there are sādhus who also list haṭha yoga practices: āsana, prāṇāyāma, ṣaṭ karma (rarely defined as such, but called by their name such as nauli, basti, etc.) and kriyā (often using this word to indicate mudrā, bandha and “actions” in general).

These two explanations are not antithetical because the same intention used to accomplish a tapasyā is also necessary to make the various physical practices of yoga siddh, which means perfected. Still, such perfection is achieved through strict discipline.

Ascetics of the Naga Order during a demonstration in Assam for the International Yoga Day of 2017

It is interesting to note that those who have full control over physical practices such as āsana, ṣaṭkarma, bandha etc. are called Yogi Raj among the ascetics.

Obviously, their discipline is not only focused on the āsanas, but also on following the rules (yama and niyama) necessary to help the mind to regulate itself and be ready for non-physical practice. Those who achieve perfection in dhyāna / samādhi are called Yogis.

To sum up, ascetics who undertake yoga sādhanā pay attention to the physical part which is needed especially at the beginning to discipline the body and consequently to teach the mind to focus on the goal. In addition, it helps the body to endure meditative practice without the distraction of physical tension.

But unlike globalized yoga, there is the awareness that once the āsanas are perfected, one must “let them go” and focus on the important part of yoga, the various sādhanās that lead to samādhi. Obviously, āsanas and prāṇāyāmas and other techniques continue to be used when needed, a couple of minutes a day, two or three of the needed positions.

In globalized yoga, on the other hand, I do not think this detachment is evident, many are struggling with postures because it allows them to see tangible and visible results, which spiritual practice obviously does not. Of course, there are also many teachers who follow a spiritual practice, but if we talk about the multitude of people doing yoga as a sport, that is only āsana and breathing, then yes, discontinuity is an abyss, but simply because it lacks this awareness. An ascetic makes the positions for the same reason of the Westerner that goes to yoga classes: to have a healthy body. But the ascetic knows that this is nothing but a drop in the sea, and only a limited and limiting physical component, while the Westerner, in many cases, thinks he’s doing something special. An ascetic once told me: “I used to do āsanas during the pauses of my meditation practice to relax the body, I was doing āsana because I was in a cave, otherwise a running would have had the same effect”.

Can you tell us about the presence of women who practice haṭha yoga? Is this an innovative element compared to the past?

Scultura dal Mahudi Gate a Dabhoi nel Gujarat, risalenti al XIII secolo. Foto di James Mallinson e Daniela Bevilacqua.

First of all, we must consider that women who manage to become ascetics within the traditional orders are actually few and they often achieve that at an old age. But, I happened to meet a yogini who, at the age of 12, had completed her learning of the āsanas, ṣaṭkarma, etc. She does not describe her practices as haṭha yoga, she interprets them as steps of yoga, since she is also a practitioner of austerities and her idea of haṭha yoga is very related to tapasyā.

Then, I met another yogini who took the initiation as an adult, after raising her children. She is called Yogi by her order because she spent several years meditating in the jungle. But she also does body postures. In these years of fieldwork, I have met only two of them in the ascetic world as practitioners. Surely there are many more, but they often remain hidden.

If we consider the “secular” part of yoga in India, I have not seen different results. I have met some families in which yoga is practiced and transmitted in a traditional way into the family, but only to those who are considered worthy and able to complete entirely the training to allow further its transmission. Also, in this case, it is not taught to women (at least in northern India and according to my limited experience).

So yes, that yoga is now an extremely common practice among women is an innovative element compared to the past, at least as we can imagine looking at the present situation and considering the texts. The texts speak to us of the male practitioner, and many techniques focus on a male body. Surely there were yoginis in the past and even today there are, especially in tantric currents that do not call for the renunciation. However, a “haṭha yoga” tradition written by a woman has never been transmitted, although it is not uncommon to find miniatures representing women practitioners, especially of the Nāth order, while performing austerities.

Unfortunately, in many traditional contexts Indian society was, and still is, tough towards the individual development of a woman, both in the secular and religious fields.

Are you a yoga practitioner too, like other HYP members? If so, can you tell us about your relationship with this discipline?

The first time I practically approached yoga was in 2006 in Rishikesh: I started a course and followed classes twice a day, plus an evening meditation session. Back in Italy, I looked for teachers similar to that I had in Rishikesh, and I was deeply disappointed. I tried again with yoga in 2010 in Varanasi, with a fantastic teacher who did only one-on-one lessons. With him I resumed doing āsana and prāṇāyāma, but I never found a teacher who was able to go beyond them.

I must say that, although highly useful for the body and to create a state of relaxation, I sometimes found modern yoga classes boring or, when full of chitchat, quite irritating. So I started doing yogāsana as many sādhu do – not knowing that – that is, I make the positions I need when I need them and if I have time, to take care of my body a bit, especially when I’m in India. I try to put into practice, if necessary, the things that the ascetics tell me or show me. I can not say I practice yoga because seeing what yoga is for ascetics, having spent time with them, I realized I can not use such a word: I do not follow all the yama nor niyama, and I do not have the necessary faith to make it my spiritual discipline. So, with yoga I stay in a very friendly relationship: we know each other, but nothing more than I need to keep the body sthir (firm).

(Thanks to Daniela for helping us with the English translation)

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Archiviato in: Yoga Contrassegnato con: Daniela Bevilacqua, Hatha Yoga Project, James Mallinson, Mark Singleton

Lo yoga visto dai sadhu: intervista a Daniela Bevilacqua

7 Giugno 2018 Zénon

Foto di Daniela Bevilacqua

[English version here]

Daniela Bevilacqua è un’indianista che sta svolgendo una importante e per molti versi inedita ricerca etnografica presso gli ordini ascetici più anticamente legati alla pratica dello yoga. Prima di addentrarci nell’intervista vale la pena spendere alcune parole sul contesto entro cui la sua ricerca si sta svolgendo, ovvero Haṭha Yoga Project.

Da sinistra: James Mallinson, Daniela Bevilacqua e Mark Singleton

HYP è un progetto di ricerca quinquennale finanziato dal Consiglio europeo della ricerca e con sede alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra. Il suo scopo è di documentare la storia della pratica fisica dello yoga attraverso lo studio filologico dei testi e la ricerca etnografica tra i praticanti di yoga tradizionale, per studiarne i rapporti con la pratica contemporanea.

Tra i ricercatori di haṭhayoga Project figurano studiosi quali James Mallinson e Mark Singleton, autori di due importanti testi che hanno contribuito a ridefinire in modo radicale quanto oggi sappiamo sullo yoga: il più recente, Roots of Yoga, co-curato da entrambi, ha messo a disposizione un centinaio di testi in gran parte mai tradotti prima, rivelando aspetti inediti dello yoga premoderno (come, ad esempio, lo stretto legame con il buddhismo tantrico); The Yoga Body di Singleton, invece, aveva ricostruito la nascita dello yoga moderno globalizzato portandone alla luce gli aspetti creativi rispetto alla tradizione e i complessi rapporti con la cultura fisica tra Otto e Novecento.

Il team comprende, anche Jason Birch (storico di Hatha e Raja Yoga e autore del blog The Luminescent) e S V B K V Gupta, entrambi al lavoro sulla traduzione di testi inediti. E, naturalmente, Daniela, che si occupa della ricerca ‘sul campo’ e che  è stata così gentile dal voler rispondere ad alcune delle nostre domande mentre si trovava in viaggio per le sue indagini.

Al cospetto dei lavori dei membri di HYP, viene spontanea una domanda: come è possibile, a fronte della enorme popolarità dello yoga globalizzato, che in realtà gli studi sulle fonti dirette delle sue origini e nel campo etnografico siano territori così poco esplorati? Te lo chiedo perché in molte pubblicazioni e in molti corsi per insegnanti vengono tutt’ora trasmesse parecchie certezze, che in realtà si basano su debolissime evidenze. Insomma, com’è possibile che non solo non sapessimo, ma non sapessimo di non sapere?

Daniela Bevilacqua

Non dirlo a me! Quando ho iniziato questo progetto la prima cosa che ho fatto è stata una ricerca bibliografica sui lavori etnografici già presenti sul tema, e con mio enorme stupore, a parte alcuni articoli di James (James Mallinson) e di Ramdas Lamb – entrambi studiosi connessi con l’ordine Vaiṣṇava dei Rāmānandī – e alcuni riferimenti sparsi in sotto-paragrafi di monografie – non ho trovato nulla di specifico. Il mondo accademico, o meglio l’etnografia, ha lasciato completamente da parte gli yogi indiani “tradizionali”.

Ci sono diversi libri scritti da yogi moderni, o da occidentali che hanno trascorso del tempo e studiato con alcuni yogi, tuttavia, fino ad ora, un lavoro etnografico accademico incentrato esclusivamente sulla pratica dello yoga di yogi appartenenti a ordini ascetici tradizionali non è mai stato fatto. Il perché, non ne sono sicura. Forse perché si dà ancora un credito maggiore ai testi scritti nel passato piuttosto che ai racconti orali del presente. Ma in realtà anche gli studi accademici incentrati sui testi di haṭha yoga sono un’introduzione recente negli studi sanscriti.

La scarsità del lavoro etnografico forse dipende anche dal fatto che una etnografia tra i bābā (asceti) indiani potrebbe non essere congeniale a tutti. James ad esempio mi ha coinvolto nel progetto perché sapeva che “frequentavo” già il mondo ascetico indiano, conosco gli ordini, parlo hindi e in più ho la disposizione d’animo a fare fieldwork intensi in India in situazioni a volte un po’ estreme. In effetti, fare etnografia tra i sādhu significa adattarsi a varie situazioni, anche tenendo in considerazione un’etichetta dovuta al genere, e poi passare del tempo con le persone e attendere che si instauri una certa fiducia reciproca e ci sia così la possibilità di un discorso approfondito anche senza l’iniziazione. Questo è in effetti uno dei problemi dell’etnografo, dato che gli insegnamenti specifici vengono dati solo dopo essere entrati nell’ordine. Cosa che ovviamente io non faccio per un motivo etico: potrei fingere devozione e prendere tante iniziazioni quanti sono gli ordini con cui “lavoro”, ma non reputo questo il modo giusto di procedere. Perciò preferisco dare tempo al tempo e che siano i sādhu a decidere di loro spontanea volontà quanto potermi dire a dare.

Dunque non sto facendo delle scoperte sensazionali (ma se le facessi, non le scriverei e svelerei al mondo!), ma sto raccogliendo tanti tasselli che spero ci aiutino a capire l’evoluzione dell’haṭha yoga fino ad oggi e la posizione dei vari gruppi ascetici in essa.

La tua ricerca etnografica si svolge presso alcuni degli ordini ascetici più anticamente legati all’haṭha yoga. Cosa ci può dire una tradizione a trasmissione orale sul passato dello yoga, che i testi non dicono? Qual è il rapporto tra innovazione e conservazione, se ha senso una distinzione di questo genere?

Jogi Baba pratica nauli

Seguendo i testi e le conoscenze personali, ho rivolto la mia attenzione dapprima ai Rāmānandī, poi ai Nāgā Daśnāmi, ad alcuni Udāsīn e ai Nāth, che sono i gruppi principalmente connessi con la pratica. Cerco quanto possibile di raccogliere informazioni soprattutto dai Nāth dato che, tradizionalmente, la diffusione dell’insegnamento dell’haṭha yoga viene fatto risalire a Gorakhnāth, il quale, insieme a Matsyendranāth, è generalmente ritenuto il “fondatore” dell’ordine dei Nāth.

Cosa ci può dire la trasmissione orale sul passato dello yoga: beh, prima di tutto fa sì che ci poniamo molte domande sullo scopo dei testi, da chi erano scritti e a chi erano rivolti. In effetti, solo una piccolissima parte degli asceti a cui mi rivolgo conosce i testi perché attribuisce loro poca importanza: se qualcosa può essere letto da tutti, ovviamente non rappresenta il vero insegnamento ma solo la sua superficie, per questo non si può prescindere dal guru. Dunque l’unico insegnamento che conta è quello che proviene dalla trasmissione orale. E questo nell’haṭha yoga è ancora più evidente perché essendo una tradizione prettamente esperienziale, basata sulla pratica, la necessità di qualcuno che mostri e spieghi come fare in pratica i vari āsana, kriyā ecc. è di vitale importanza. Ma questo è sottolineato anche nei testi stessi.

Uno degli obiettivi che si propone l’Haṭha Yoga Project è quello di comprendere bene il ruolo di tali testi e la loro audience, e l’unione del lavoro etnografico e testuale sta portando dei buoni risultati.

Quindi, per riassumere, la tradizione orale, rispetto ai testi, ci dice esattamente come fare quelle pratiche che nei testi sono più o meno descritte. Inoltre non bisogna dimenticare che queste pratiche sono anche inserite in un contesto religioso, quindi ci sono tutta una serie di ulteriori conoscenze che bisogna implementare per rendere la pratica fisica spiritualmente effettiva. In più la tradizione orale ci può dare degli spunti per ricostruire contesti, o dare ad alcune parole delle spiegazioni più ampie ricostruendone l’evoluzione storica, o comprenderne il senso da prospettive diverse.

Per quanto riguarda innovazione e conservazione, la realtà indiana, sia testuale che orale, sebbene punti a conservare, presenta varie possibilità d’innovazione grazie all’importanza che si dà al guru: il guru è una fonte costante (sia nel presente che nel passato) di innovazione. Per questo tra gli asceti si trovano tante variazioni e tante “storie” diverse: ognuno trasmette l’insegnamento che arriva dal guru di una specifica tradizione, e per tradizione mi riferisco non all’ordine in generale ma anche a quella di un tempio o monastero specifico. La sādhanā (disciplina) yogica, ribadisco, è esperienziale, quindi si basa sull’esperienza di un guru che, provando e sperimentando, riesce a trovare un percorso che permette la realizzazione dello yoga. Una volta trovata la modalità, essa viene insegnata. Questo implica anche la possibilità di una continua ricerca, da parte dello yogi, da fonti diverse. Un asceta passa i primi anni della sua vita da rinunciante non solo con il proprio guru, ma vagando tra vari centri di pellegrinaggio, trascorrendo del tempo con altri asceti, a volte anche di altri ordini, e così crea il suo bagaglio personale di esperienza e conoscenza su cui baserà la propria disciplina. Da una tale dinamica si comprende l’alta possibilità d’innovazione.

Qual è l’atteggiamento che hai riscontrato nei confronti dello yoga globalizzato e qual è il loro rapporto con esso?

Da un certo punto di vista c’è una particolare noncuranza: gli āsana e il prāṇāyāma fa bene a tutti, quindi se questo tipo di yoga, che è poi quello che oggi in India Baba Ramdev insegna e pubblicizza come un ossesso, si diffonde, ben venga per l’umanità. Ovviamente ci sono anche asceti che supportano questo tipo di yoga perché puntano all’occidente, per curiosità, per modernità, ma anche per diventare famosi yoga guru e accumulare discepoli, fama e soprattutto denaro.

Tuttavia, per la maggior parte degli asceti, lo yoga globalizzato pubblicizzato è una forma di ginnastica, completamente svincolata dal significato e dall’obiettivo spirituale che lo yoga si prefigge. Per gli asceti lo yoga non è qualcosa da fare a giorni alterni o una volta a settimana, ma è una precisa disciplina individuale che prevede il seguire regole e precetti precisi e il focalizzarsi su un unico obiettivo e, così facendo, ottenere la vera conoscenza del sé, della realtà, l’unione con il Paramātmā e via dicendo.

Per questo, come mi ha detto una yogini, la via dello yoga deve essere intrapresa quando uno ha davvero l’intenzione di rispondere alle domande alla base dell’io. Allora, essendo la ricerca una necessità, tutto viene messo da parte, e l’unica attenzione è rivolta all’ottenimento di queste risposte.

Nel tuo paper “Let the sadhus talk” rilevi che, presso la maggior parte degli asceti che hai intervistato, il termine haṭha yoga è inteso come un’attitudine mentale più che un corpus di pratiche fisiche, che sono spesso considerate propedeutiche e di secondaria importanza. È possibile che questo sia il principale elemento di discontinuità da parte dello yoga globalizzato, così preoccupato dell’aspetto tecnico?

Sì, la maggior parte degli asceti intervistati ha definito lo haṭha yoga come un’intenzione precisa, uno sforzo specifico volto ad un obiettivo specifico. Il motivo è da collegare al fatto che yoga significa anche “metodo, mezzo” quindi, quando un asceta dice “haṭha yoga se hota hai” vuol dire “avviene per mezzo dell’haṭha”, e quindi haṭha yoga è quel metodo che, come dico nell’articolo, si basa su un’intenzione talmente forte che porta al compimento dell’obiettivo.

Per tale motivo, la maggior parte degli asceti associa l’haṭha yoga al tapasyā. Questa connessione tra haṭha yoga e tapasyā non è una scoperta particolare, dato che, come Mark Singleton insegna nel suo Yoga Body, negli ultimi secoli haṭha yogi era sinonimo di tapasvin, colui in grado di eseguire austerità incredibili. E in effetti anche oggi, tra gli asceti, coloro che fanno tali pratiche -come stare con il braccio alzato o rimanere in piedi, ecc.- vengono definiti haṭha yogi.

Ci sono però sādhu che, oltre a dare questa definizione di haṭha yoga, elencano anche le pratiche dell’haṭha yoga: āsana, prāṇāyāma, ṣaṭ karma (che raramente vengono definiti così, ma elencati come nauli, basti ecc.) e kriyā (usando spesso questa parola in generale per indicare mudrā e bandha).

Queste due spiegazioni non sono in antitesi perché la stessa intenzione del tapasyā è anche necessaria per rendere siddh, ossia perfette, le varie pratiche fisiche dello yoga. Il raggiungimento di una tale perfezione si ottiene tramite una rigida disciplina.

Asceti dell’ordine dei Naga durante una dimostrazione in Assam per la Giornata Internazionale dello Yoga del 2017

È interessante notare che coloro che hanno il pieno controllo delle pratiche fisiche, quali āsana, ṣaṭkarma, bandha ecc. sono chiamati Yogi Raj tra gli asceti.

Ovviamente tale disciplina non è solo incentrata sugli āsana, ma anche sul seguire le regole (yama e nyama) necessarie per aiutare la mente a disciplinarsi ed essere pronta per la pratica non fisica. Coloro che focalizzano e ottengono la perfezione nel dhyana/samadhi sono chiamati yogi.

Per sussumere, da parte degli asceti che intraprendono la yoga sādhanā c’è un’attenzione alla parte fisica necessaria, soprattutto inizialmente, per disciplinare il corpo e di conseguenza insegnare alla mente a focalizzarsi sull’obiettivo. In più aiuta il corpo a resistere alla pratica meditativa senza la distrazione della tensione fisica.

Ma a differenza dello yoga globalizzato, c’è la consapevolezza che una volta che gli āsana sono perfezionati, bisogna “lasciarli andare” e focalizzarsi sulla parte importante dello yoga, le varie sādhanā che portano al samādhi. Ovviamente, āsana e prāṇāyāma purificatori e altre tecniche continuano ad essere usate quando necessario, un paio di minuti al giorno, due o tre posizioni necessarie.

Nello yoga globalizzato invece non credo sia evidente questo stacco o distacco, molti si affannano sulla tecnica perché permette di vedere risultati tangibili e mostrabili, cosa che la pratica spirituale ovviamente non fa. Poi ci sono anche molti insegnanti che seguono in maniera individuale anche la pratica spirituale, ma se si parla della moltitudine di persone che fanno yoga a mo’ di sport, ossia solo āsana e respirazione, allora sì, la discontinuità è un abisso, ma semplicemente perché manca di questa consapevolezza. L’asceta fa le posizioni per lo stesso motivo di un occidentale che va a fare yoga: per avere un corpo sano. Solo che l’asceta sa che quello non è altro che una goccia nel mare, e solo una componente fisica limitata e limitante, mentre l’occidentale no, pensa, nella maggior parte dei casi, di fare qualcosa di particolare. Un asceta una volta mi ha detto: “io facevo gli āsana nelle pause di meditazione per rilassare il corpo, facevo āsana perché ero in una grotta, altrimenti una corsetta avrebbe avuto lo stesso effetto”.

Puoi parlarci della presenza di donne che praticano haṭha yoga? Si tratta di un elemento innovativo rispetto al passato?

Scultura dal Mahudi Gate a Dabhoi nel Gujarat, risalente al XIII secolo. Foto di James Mallinson e Daniela Bevilacqua.

Prima di tutto bisogna considerare che le donne che riescono a diventare ascete all’interno degli ordini tradizionali sono in realtà poche e spesso lo diventano in tarda età. Però mi è capitato di incontrare una yogini che all’età di 12 anni aveva completato il suo apprendimento degli āsana, ṣaṭkarma ecc. Lei però non descrive le sue pratiche come haṭha yoga, ma le interpreta come uno step dello yoga in generale, essendo poi praticante anche di austerità la sua idea di haṭha yoga è molto connessa al tapasyā.

Poi ho incontrato un’altra yogini che ha preso l’iniziazione da adulta-anziana, dopo aver cresciuto i figli. Lei viene chiamata Yogi dal suo ordine perché ha passato diversi anni a meditare nella jungla. Però fa anche le posture per il corpo. In questi anni ho incontrato solo loro due nel mondo ascetico come praticanti. Sicuramente ce ne sono molte di più, ma spesso rimangono nascoste.

Se consideriamo la parte “laica”, non ho avuto riscontri diversi. Ho incontrato alcune famiglie in cui si pratica e viene trasmesso lo yoga in modo tradizionale in famiglia, ma solo a chi è ritenuto degno e capace di portare a termine completamente il percorso per permettere l’ulteriore trasmissione. Anche in questo caso non è insegnato alle donne (questo almeno nel nord dell’India e secondo la mia limitata esperienza).

Quindi sì, una pratica estremamente diffusa tra le donne è un elemento innovativo rispetto al passato, almeno come possiamo immaginarlo se guardiamo alla situazione presente e per come la conosciamo dai testi. I testi ci parlano del praticante uomo, e molte tecniche si incentrano su un corpo maschile. Sicuramente c’erano yogini in passato e ancora oggi ci sono, soprattutto in correnti tantriche che non prevedono la rinuncia. Tuttavia non ci sono arrivate tradizioni “haṭha yoga” scritte da donne, sebbene non sia raro trovare miniature che rappresentano donne praticanti, soprattutto dell’ordine dei Nāth, mentre svolgono austerità.

Purtroppo la società indiana era ed è ancora ostica in molti ambienti tradizionali verso lo sviluppo individuale di una donna, sia nell’ambito laico che religioso.

Sei anche tu una praticante di yoga, come altri membri di HYP? Se sì, puoi parlarci del tuo rapporto con questa disciplina?

La prima volta che mi sono avvicinata allo yoga in maniera pratica è stato nel 2006 a Rishikesh: avevo iniziato un corso e seguivo lezioni due volte al giorno, più una sessione di meditazione serale. Tornata in Italia ho cercato degli insegnanti simili a quello di Rishikesh ma sono rimasta profondamente delusa. Ho ricominciato con lo yoga nel 2010 a Varanasi, da un fantastico insegnante che faceva solo lezioni individuali. Con lui ho ripreso a fare āsana e prāṇāyāma, ma non ho mai trovato un insegnante che fosse in grado di andare aldilà di questi.

Devo dire che, sebbene altamente utile per il corpo e per produrre uno stato di rilassatezza, trovavo a volte le lezioni di yoga moderno noiose o, quando intrise di “chiacchiere” inutili, irritanti. Perciò ho iniziato a fare yogāsana, non sapendolo, come fanno molti sādhu, ossia faccio le posizioni che mi servono quando ne ho bisogno, e se ho tempo, per prendermi un minimo cura del corpo soprattutto quando sono in India. Le cose che mi dicono gli asceti o mi mostrano, cerco di metterle in pratica all’occorrenza. Non posso dire di praticare lo yoga perché vedendo cosa è lo yoga per gli asceti, mi rendo conto che una tale parola, io che ho passato con loro del tempo, non posso usarla: non seguo né yama né nyama, e non ho la fede necessaria per renderla la mia disciplina spirituale. Dunque rimango con lo yoga in un rapporto molto amichevole: ci conosciamo, lo stretto necessario a mantenere il corpo sthir (saldo).

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Archiviato in: interviste, Yoga Contrassegnato con: Daniela Bevilacqua, Hatha Yoga Project, James Mallinson, Mark Singleton

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