L’inalazione e l’esalazione sono più o meno delle sovrapposizioni a ciò che è costante. Perciò il silenzio, l’intervallo dopo l’espirazione, non è assenza di attività, ma assenza di funzione. È presenza. All’inizio, la nostra attenzione è focalizzata sull’atto di inspirare e di espirare. Ma poi arriva un momento in cui diventiamo indifferenti all’inspiro e all’espiro. È il momento in cui il corpo prende in carico la respirazione, ed enfatizziamo il silenzio, l’intervallo tra le due attività. È un modo spirituale di utilizzare il controllo del respiro e il respiro stesso, ma il controllo del respiro può essere anche utilizzato per dirigere, per orchestrare l’energia in noi.
Jean Klein, The Book Of Listening
Con l’essenzialità che gli è propria, in queste poche battute Jean Klein racchiude tutto il prāṇāyāma, ossia quell’area dello yoga che attraverso il respiro persegue un apparente doppio fine: raffinare l’energia vitale e accompagnare la mente verso la meditazione.
Siccome altrove ho accostato l’argomento per i massimi sistemi (Prāṇāyāma, vita, respiro, morte e miracoli) o in relazione al delicato rapporto con il respiro spontaneo (Non saper respirare), mi sembra utile partire proprio da qui per una sintesi che vada al cuore della questione.
Le tecniche yogiche di prāṇāyāma comprendono un certo numero di alterazioni del ritmo, dell’ampiezza, della modalità, e del suono del respiro: respiri come mantici da fucina, ruggiti di leoni e ronzare di calabroni, sibili attraverso la glottide e riconfigurazioni dei flussi tra la narice destra e sinistra. Le fasi respiratorie sono quindi regolate secondo estensioni e proporzioni variabili, e attraverso i tre controlli principali: il diaframma toracico, il diaframma perineale e il reticolo (la contrazione alla base del collo).
Tuttavia, tutto questo estendere e sospendere, intensificare e rendere estremamente sottile, tutto questo disciplinare l’azione del respiro (compresa la sua sospensione) per abbandonare ogni controllo, converge verso il silenzio.
Come spesso viene sottolineato nella letteratura yogica, infatti, il controllo del respiro ha in realtà lo scopo di lasciar emergere ciò che è nello sfondo di questa stessa attività, e che in condizioni normali rimane offuscato da essa.
Lo Jiva [l’anima individuale] che si trova sotto l’influenza di Prana e Apana [l’inspiro e l’espiro] va su e giù. 1Come emerge dal mio precedente articolo Prāṇāyāma…, tradurre i termini Prana e Apana come ‘inspiro’ ed ‘espiro’ è piuttosto approssimativo, ma ai fini di questa esposizione dovremmo sacrificare qualche grammo di precisione alla chiarezza.
Dhyana Bindu Upanishad, 58-61a
Lo Jiva a causa del suo muoversi continuo sul percorso destro e sinistro, non è visibile. Proprio come una palla percossa (sulla terra) salta in alto, così Jiva sempre lanciato da Prana e Apana non è mai a riposo.
Conosce lo Yoga chi sa che Prana sempre si trae da Apana e Apana trae da Prana, come un uccello (allontanandosi e tuttavia non liberandosi) dalla stringa (a cui è legato).
L’inalazione e l’esalazione sono una funzione, che ritma ed è al tempo stesso ritmata dall’attività mentale e dalle funzioni vitali. Come queste ultime, è un’attività transitoria che appare nello sfondo senza di per sé turbarlo, ma celandolo.
Intendiamoci: inspiro ed espiro sono funzionali alla vita, quindi l’oggetto in questione non è tanto l’opportunità di respirare o meno (come a volte iperbolicamente sembrerebbe emergere dalla letteratura yogica), quanto lo slittamento della coscienza dall’atto al campo in cui il ciclo del respiro avviene.
Ciò che è nello sfondo, d’altro canto, non è attività. Non è funzione. A dire il vero, non si potrebbe nemmeno chiamare “ciò”. Non si tratta di qualcosa che appare e scompare negli intervalli tra un respiro e l’altro: è costantemente presente anche durante l’attività, ma la consapevolezza nell’intervallo è un escamotage che ci permette inizialmente di prenderne coscienza.
Cessando il respiro, tutte le funzioni seguono, più o meno: occorre che ‘stiamo’ con quella presenza.
Ma se l’obiettivo è nello sfondo, perché allora lavorare sul respiro, ossia sulle ‘sovrapposizioni’ e non direttamente su ciò che è costante? Perché non affrontare la questione alla radice invece di sottoporsi a complicati addestramenti respiratori?
Perché il normale groviglio di respiro, mente e funzioni vitali solitamente non ne concede la possibilità: nella maggioranza dei casi ci troviamo avviluppati in una fitta rete senza apparenti spiragli. Come due litiganti che vogliono avere ragione, inspiro ed espiro si sovrappongono senza mai lasciarsi giungere al pieno compimento e senza mai scendere in profondità. Non è pressoché possibile che si verifichino intervalli se non in caso di malfunzionamenti o a costo sforzi che rischiano molto spesso di essere controproducenti.
Le uniche occasioni in cui si può aprire uno spiraglio si verificano in momenti di forte stupore o di shock improvvisi: si tratta però di ‘esperienze di picco’ che non possono essere costanti e che raramente possono essere integrate nella vita ordinaria. Oppure, ancora, in momenti di inerzia come nel sonno profondo, quando però il livello di coscienza è generalmente troppo ottuso perché ve ne sia consapevolezza.
A questo punto, quando nel cielo il sole e la luna scompaiono, l’illuminato
Spandakarika, 25
rimane lucido mentre l’essere umano ordinario sprofonda nell’incoscienza.
Osservare e controllare (o meglio condurre) l’inspiro e l’espiro sono quindi un passaggio obbligato per addomesticare respiro, corpo e mente.
Il lavoro su inspiro ed espiro, progressivamente, viene integrato con lo sviluppo delle pause. In effetti, l’haṭhayoga ha sempre enfatizzato il prāṇāyāma come ritenzione del respiro (si veda, ancora, Prāṇāyāma…). Tuttavia, lo sviluppo volontario delle fasi respiratorie è ancora un’attività che prepara il terreno per la ritenzione spontanea, nei cui confronti il termine controllo è del tutto inadeguato: possono arrivare momenti in cui stare nell’intervallo non è più una scelta.
Proprio come la tecnica di meditazione non è di per sé la meditazione, il controllo del respiro non è il prāṇāyāma nel senso più ultimo, ma una preparazione. Almeno fin quando la tecnica di meditazione e il prāṇāyāma – anche nello sviluppo estremo delle pause – rimangono delle funzioni.
Ma poi arriva un momento in cui diventiamo indifferenti all’inspiro e all’espiro. È il momento in cui il corpo prende in carico la respirazione, ed enfatizziamo il silenzio, l’intervallo tra le due attività.
A un certo punto, non è nemmeno importante se si stia respirando o meno. Il respiro torna ad essere quello che è sempre stato, sovrapponendosi a ciò che è costante in perfetta trasparenza, proprio come un rumore che cessa di essere un disturbo e si integra nel silenzio.
Lo scarto tra il punto di partenza e il punto di arrivo, come tutto ciò che è essenziale, è imponderabile. Il silenzio non è una cosa tra le altre.
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