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Zénon | Yoga e Qi Gong

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La cognizione del dolore negli yogasana

7 Novembre 2019 di Francesco Vignotto

…imponderabile in un mondo di pesi…
…………..
…dismisura in un mondo di misure…

Marina Cvetaeva

Avevamo parlato già qualche tempo fa, degli eccessi che provocano infortuni nello yoga, perché tutto ciò che può fare molto bene, può fare anche molto male. Soprattutto quando uno pensa, con molta leggerezza, che sia possibile piegare alle proprie pretese energie che sono tanto creative quanto potenzialmente distruttive, e molto più capillari di quanto si possa immaginare.

Proprio in questi giorni il sito della BBC ha pubblicato un articolo dal titolo Gli insegnanti di yoga ‘rischiano seri problemi alle anche’, che a dispetto del titolo sensazionalistico è piuttosto equilibrato nel fornire un quadro di una situazione-limite, anche se a livello aneddotico: Benoy Matthews, un fisioterapista specializzato, sostiene di avere ormai moltissimi insegnanti di yoga tra i suoi pazienti, parte dei quali necessitano semplici interventi fisioterapici, mentre altri sono costretti a ricorrere alla chirurgia per la sostituzione totale dell’anca.

Matthews individua la causa non nello yoga in sé, ma nell’attitudine diffusa a forzare ripetutamente il corpo in posizioni “prescritte”. In altre parole, quando l’asana è uno standard assoluto a cui conformarsi (ne abbiamo già parlato qui) è molto facile entrare in conflitto con particolarità anatomiche del proprio corpo che non sono compatibili con quegli standard (e l’articolazione dell’anca è particolarmente soggetta a importanti differenze da corpo a corpo).

Il problema è quindi in primo luogo di attitudine, incoraggiata (è un parere mio) da un certo approccio massimalista allo yoga, per cui lo yoga farebbe bene a prescindere e che la pratica sia in grado di riparare ai suoi stessi danni (secondo una visione distorta della massima “practice and all is coming”), senza contemplare la necessità di aggiustare il tiro.

Per cui, il buon Matthews afferma che è molto facile per il praticante confondere il dolore articolare, che indica la necessità di arrestarsi, con la rigidità, contro cui si è stati educati a combattere.

Differenti gradi di torsione della testa del femore. Una delle tante variabili anatomiche che determina la mobilità dell’articolazione dell’anca.

L’articolo è molto interessante, perché aiuta a comprendere come la pratica degli asana non sia un gioco innocuo e di come il praticante di yoga possa soffrire del male paradossale comune a molti sportivi: perdere la salute per eccesso di zelo facendo qualcosa che in realtà servirebbe a preservarla.

Ma se vogliamo andare oltre il più ovvio invito alla moderazione (esiste anche la pecca di eccessiva arrendevolezza, e per questo è difficile dare delle indicazioni assolute), possiamo cogliere l’occasione per indagare qualche aspetto più profondo, ovvero: la “via mediana” non intesa come mediocrità tra gli estremi, ma come la possibilità fattiva di penetrare negli interstizi delle cose.

La maggior parte delle persone (forse tutti, almeno nella cultura industrializzata occidentale, se non educati altrimenti) si percepisce e si regola solo tramite gli estremi. È facile abbuffarsi e non è nemmeno troppo difficile digiunare: basta mangiare fino a non poterne più, oppure non mangiare affatto. Proprio per questo, tutti noi sappiamo quanto richieda attenzione (un’attenzione che non tutti sono disposti a investire) mangiare invece il giusto, solo quando si ha veramente fame e smettere prima di essere satolli: bisogna sentirsi, non basta aspettare di collidere con il limite: è lo stesso motivo per cui – è l’emergenza del nostro tempo – anche le idee si appiattiscono spesso su posizioni estremistiche, perché è molto più difficile articolare un’opinione ponderata.

Così, tornando al nostro corpo, nel movimento percepiamo poco più del punto di partenza e di quello di arrivo, un po’ come quando si parcheggia urtando la macchina avanti e quella dietro. Tutte le gradazioni intermedie, tutte le zone grigie che non possono essere catalogate sotto uno o l’altro estremo sono delle frequenze al di fuori della nostra capacità percettiva. A meno che, ovviamente, non inciampiamo nel mezzo in qualcosa, in special modo di doloroso (con tutta la problematica che riguarda la definizione del dolore e il suo margine soggettivo di sopportazione).

Eppure, con buona pace dei massimalisti, le tecniche dello yoga si muovono proprio in quella zona di mezzo tra gli estremi, che solitamente è attraversata di fretta e sovrappensiero come un corridoio buio popolato di esseri ripugnanti. Ecco, lo yoga deve mostrare che il mostro è una leggenda.

Ciò richiede di non eccedere nella forza, con una certa nonchalance, ma nemmeno di rinunciare del tutto alla fisicità. Come il tocco del percussionista, se è troppo lieve non produce suono, se è troppo ‘materiale’ è un colpo sordo.

Molto di quello che si vede oggi sotto il nome yoga, purtroppo, è un colpo sordo. È un colpo sordo insegnare il modo più veloce per raggiungere lo stadio finale di una posizione, non il modo più in accordo con la propria fisiologia e con la possibilità di un ascolto approfondito, ma soprattutto è un colpo sordo non cogliere e non educare a discernere la differenza. Per cui, anche il praticante di yoga, finché non incappa nel fine corsa delle proprie possibilità – correndo il rischio di sviluppare, col tempo, dolore – non sarà portato a sentirsi e non avrà raffinato in alcun modo la propria capacità percettiva.

Occorre avere ben chiaro cosa è possibile fare, e cosa non lo è. Ma anche: perché dovrei farlo? Perché dovrei ‘aprire’ ulteriormente le mie anche? Non sto sostituendo forse il mezzo con il fine? La domanda è universale, ma è ancora più urgente per lo yoga, che è solo secondariamente un contenitore di mezzi, e ancora prima battuta un fine che non è un(a) fine.

Porre degli obiettivi, come eseguire una posizione o padroneggiare una tecnica, è certo un espediente: serve come scintilla di accensione, altrimenti non ci sarebbe spinta iniziale. Ma nello yoga tutti particolari che si presenteranno nel percorso, le necessarie deviazioni e gli adattamenti, persino la manifesta impossibilità di esecuzione possono essere in realtà la destinazione, perché yoga è esperire direttamente che la destinazione è in ogni punto.

A un certo punto, la posizione finale potrebbe essere persino dimenticata. Ciò che è limitante è che il limite sia considerato come una restrizione di cui necessariamente fare ammenda. Il limite si oltrepassa da sé quando le mie anche strette, la mia posizione imperfetta non impediscono il risvegliarsi dell’energia, che avviene per ragioni poco ponderabili, non in un momento prescritto né quando né perché sono stati fatti tutti i compiti. Allora la necessità di aprire le anche per sentirmi libero è come la necessità di acquistare un televisore da quaranta pollici per sentirmi felice.

Forse, se ci facciamo caso, nello yoga come nella vita, potremmo rintracciare infinite occasioni in cui un raccoglimento particolare mentre si cercava altro, un silenzio, una raffinata sensibilità sono stati calpestati sul nascere dall’improvviso pensiero che vi fosse una posizione, una sequenza ancora da portare a termine, una parola ancora da dire, una nota da cantare.

Sarebbe bello, se nelle lezioni di yoga si cadesse in questi silenzi come si cade addormentati.

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Francesco Vignotto

Info Francesco Vignotto

Insegnante di Yoga, assieme a Marco Invernizzi dirige il centro Zénon, per il quale coordina le attività di questa disciplina.
Di formazione umanistica, ha lavorato per diversi anni in ambito universitario e istituzionale nel campo dell'italianistica e della comunicazione.

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Interazioni del lettore

Commenti

  1. Avatarlorini davide dice

    16 Ottobre 2020 alle 11:58

    d’accordo su tutta la linea

    Rispondi

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