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Marco Invernizzi

arte    Giappone

La Katana: Oggetto, Opera d’Arte o Simbolo?

23 Giugno 2015 di Marco Invernizzi


Questo non vuole essere un articolo sulla storia della spada Giapponese, sulla metodica complicatissima relativa alla sua forgiatura, o sul Giappone e la sua via guerriera, cioè il Bushido. È un qualcosa di più personale; se vogliamo, è una riflessione sul mio modo di vedere questo oggetto e condividere quello che ha sempre suscitato e suscita tutt’ora in me.

Già chiamare la Katana oggetto mi provoca interiormente un certo stridore… perché sicuramente è sì un oggetto, ma forse è più corretto dire che è un’opera d’arte, vista la maestria e la perfezione raggiunte dai forgiatori in secoli e secoli di ricerca. Ma a pensarci bene anche questo termine risulta riduttivo, infatti forse è più corretto definirla un Simbolo.

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E aggiungerei che non è legato solo a un popolo e alla sua Tradizione, ma che esprime anche, come cercherò di spiegare oltre, concetti più profondi e universali. Quindi per tutti gli appassionati e cultori di questa stupenda opera d’arte (o simbolo?) non aspettatevi un trattato specialistico ma più che altro una chiacchierata, con qualche divagazione, sulle emozioni e i sentimenti personali legati alla Katana.

E, ad essere sinceri, parte di quello che leggerete qui di seguito (se lo vorrete) nasce proprio da una chiacchierata tra due amici che condividono la stessa passione; quelle chiacchierate a cena, apparentemente poco profonde, ma in cui al di là delle parole, “passa” molto più di quello che si possa immaginare.

(Foto di copertina: Andrea Ballaratti)

Introduzione

Fin da bambino ho sempre sentito la spada giapponese, la Katana, come un qualcosa  a me molto affine. Per carità, si sa che per i bambini, soprattutto in un certo periodo della crescita, le armi giocattolo, aerei e soldatini sono tra i regali più ambiti e con cui ci si diverte di più.

Tuttavia in questo caso, nonostante la passione per tutto ciò che è riconducibile alla guerra, o meglio, al combattimento, la Katana ha sempre rappresentato per me un qualcosa di più profondo. Tanto che da bambino, e successivamente da adolescente, questa sensazione poco chiara ma contemporaneamente fortissima, mi paralizzava con un brivido lungo la schiena, se per caso mi ritrovavo tra le mani un libro o in televisione veniva trasmesso un qualunque riferimento ai samurai e alla Katana.

Ricordo anche come in certi periodi alcuni film avessero letteralmente creato una ossessione verso questo oggetto sia in me che nei miei coetanei… in particolare ricordo Highlander e la Katana di Christopher Lambert e i due Kill Bill di Tarantino, dove la Katana, la sua forgiatura e il Bushido, il codice guerriero giapponese (o meglio, in quel caso una sua rivisitazione…) erano al centro di tutta la trama.

Con gli anni, complice anche la pratica per un certo tempo di Kendo e Iaido, la passione viscerale verso questo oggetto ha trovato anche uno sbocco esperienziale. Tuttavia solo recentemente, e non a caso in corrispondenza dell’interruzione per un certo periodo della pratica marziale, hanno iniziato a chiarirsi alcune delle motivazioni che hanno causato e causano ancora oggi in me l’attrazione e la passione viscerale verso la lama curva Giapponese.

La Forma

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La sua forma, appunto. Tra tutte le lame appartenenti a tutte le culture e Tradizioni, è quasi unanimemente accettato che la Katana sia la più elegante ed esteticamente gradevole di tutte, capace di colpire profondamente anche  chi non nutre interesse verso le armi da taglio.

Ma al di là dell’indubbio valore estetico mi rendo conto solo ora che ciò che mi ha da sempre affascinato così profondamente è il senso di essenzialità che emana. L’essenzialità, che non va confusa con la semplicità e men che meno con la superficialità, è un concetto che permea tutta la cultura Giapponese e se vogliamo anche quella Cinese considerando anche la fortissima influenza esercitata da quest’ultima in Giappone.

L’essenzialità, secondo il mio punto di vista, è la vera e più profonda natura di un qualcosa, l’essenza appunto, liberata da tutto ciò che è superfluo, permettendo così di apprezzarla nella sua completezza. Dal manico, alla lama, ad ogni minimo particolare (e vi assicuro che sono tantissimi), quello che emana questo oggetto è appunto essenzialità. Se vogliamo in termini più interiori, simboleggia molto il percorso di Ricerca in cui via via liberandosi del superfluo si arriva sempre più all’essenza delle cose, avvicinandosi, forse, a quella che viene definita Verità.

Ora, su quanto il concetto di essenzialità si avvicini a quello di Verità, ci sarebbe molto da riflettere e forse questa non è la sede più adatta. Sicuramente essenziale è però tutto ciò che è contenuto nella Via Guerriera. E chi tra i popoli della terra ad oggi più dei Giapponesi può vantare di affondare le proprie radici in una Tradizione dove appunto la via del Guerriero (e non la guerra), intesa soprattutto come via di crescita Interiore, erano perno focale (o l’essenza) di tutta l’esistenza? Penso molto pochi.

La Forgiatura

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Anche la creazione di questo magnifico oggetto è un altro punto su cui ho riflettuto molto. Ricordo ancora, quando nel 2012, ebbi la fortuna di conoscere il Maestro Yoshindo Yoshihara (nelle foto), uno dei più famosi forgiatori di Katane viventi e Tesoro Nazionale Vivente del Giappone.  In parallelo ai Mondiali di Kendo del 2012 a Novara, quasi in sordina, si svolse anche un evento assai raro, ovvero la forgiatura in diretta di una Katana (forse per la prima volta fuori dal Giappone).

Io e pochi (purtroppo) curiosi, nonostante l’evento fosse pubblico e ad accesso libero, per 3 giorni riuscimmo ad assistere a questo spettacolo senza eguali, somma al contempo di precisione, tecnica ma anche di esperienza e maestria fuori dal comune.

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il paradigma pentadico Taoista

E proprio la forgiatura in sè della Katana contiene molti elementi che per una persona che si interessi di Tradizioni Orientali sicuramente non possono passare inosservati.

Innanzitutto gli elementi necessari alla forgiatura possono essere riassunti in 5 come i 5 elementi del paradigma pentadico della fisiologia medica Taoista Cinese: acqua, fuoco, terra, legno e metallo. Nell’immaginarmi infatti come potessero essere contenuti i 5 elementi nello stesso oggetto e come fossero i loro rapporti ho provato a visualizzarlo secondo questa dinamica: la terra al suo interno contiene il metallo grezzo sotto forma di minerale.

Una volta estratto quest’ultimo per essere depurato del superfluo (ritorniamo al concetto di essenzialità) e quindi essere trasmutato  da minerale in metallo puro deve essere riscaldato e fuso tramite il fuoco. Quest’ultimo per divampare ovviamente deve essere alimentato dal legno. L’uomo interviene in tutto il complesso procedimento di forgiatura, lavorazione e purificazione del metallo, in cui il fuoco è sempre fondamentale, fino a quando la lama è scaldata al punto giusto e viene temprata in un istante immergendola dalla fornace direttamente in una tinozza di acqua.

Se vogliamo tutto il procedimento può essere visto come un’allegoria del processo di alchimia interiore proprio della tradizione Taoista in cui i 5 elementi che costituiscono l’essere umano, entrano in relazione l’uno con l’altro grazie alla volontà dell’uomo che è l’ente trasmutatore e armonizzante di tutto il procedimento.

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In passato si diceva che i grandi forgiatori facessero relativamente poche spade durante la loro vita proprio perché in ognuna di esse mettevano una parte della propria energia, che, essendo limitata, andava dosata.

Ovviamente più il forgiatore era capace e dotato e più la lama conservava la qualità e la potenza della mano che l’aveva creata. Si potrà credere o meno a queste leggende e dicerie, tuttavia penso che una procedura così complicata, tramandata da maestro a discepolo da svariati secoli e in cui la variabile umana è ancora imprescindibile, con molta probabilità sottenda a un qualcosa di più profondo del solo battere e ribattere una sbarra di metallo incandescente fino a quando non ha raggiunto la forma desiderata.

La Curvatura (e la circolarità)

“La differenza tra la spada giapponese (curva) e quella occidentale (dritta) sta si nella forma ma anche nella diversa tecnica con cui deve essere eseguito il taglio”.  Quante volte ho sentito questa frase dal mio maestro di Kendo e Iaido e quanta difficoltà ahimè nel metterla in pratica…

Per quel poco che posso aver capito negli anni di pratica di questa Arte, il taglio con la Katana non segue una logica di forza, quindi “di braccia”, ma piuttosto è un taglio in cui viene utilizzato tutto il corpo. Il taglio è una conseguenza del movimento generato armonicamente da tutto il corpo, cioè piedi, gambe, tronco e braccia e la curvatura della lama facilita la trasmissione di questa forza alla parte che realmente esegue il taglio, il monouchi, cioè l’ultima spanna della lama verso la punta.

I movimenti nelle arti marziali spesso contengono il richiamo alla circolarità, all’armonia e ad un utilizzo di tutto il corpo per aumentare l’efficacia e la stabilità di un colpo. E probabilmente non a caso, la curvatura della Katana favorisce il suo integrarsi in maniera armonica nei movimenti corporei, come un’estensione naturale del proprio braccio.

L’Equilibrio

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Con l’essenzialità, la circolarità e la conseguente centratura e armonia nel movimento si arriva appunto ad un Equilibrio. Termine semplice ma al contempo estremamente complesso da esprimere in tutta la sua completezza. Forse l’Equilibrio è ciò che più manca al giorno d’oggi e molte persone ne vanno affannosamente in cerca senza mai riuscire a trovarlo.

In realtà l’Equilibrio, nonostante descriva una qualità apparentemente statica (l’idea comune di equilibrio è fortemente associata all’idea di immobilità), contiene al suo interno anche un importante concetto di dinamicità…infatti, secondo il mio modo di vedere, l’Equilibrio è un adattamento continuo e dinamico alla incessante mutevolezza della realtà.

A tal proposito per poter mantenere il più possibile la centratura e una visione oggettiva in ogni situazione, è necessario  “aggiustare” e “armonizzare” continuamente il nostro corpo, le nostre emozioni e i nostri pensieri per evitare di creare disarmonia e sostanzialmente venirne sopraffatti.

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L’Equilibrio quindi non è una staticità a prescindere ma è un dinamismo estremo in cui si realizza una apparente staticità come risultato dell’ incessante e rapidissimo movimento di adattamento e armonizzazione. Il movimento continuo dei due opposti complementari del tai ji tu (Yin e Yang), in cui nella più profonda natura dell’uno è contenuto l’altro, ci aiuta a comprendere meglio questo concetto.L’unione data dalla contemporanea presenza dei due poli opposti, probabilmente non è data dal “fermarsi” di questi ultimi, ma bensì dal loro muoversi in maniera talmente rapida da realizzare appunto un Equilibrio “dinamico” in cui si trovano espressi contemporaneamente in una condizione di apparente staticità. Quanto questo c’entri col concetto di non-Dualità espresso e ricercato come fine ultimo da molte tradizioni di ricerca interiore orientali non lo so…e lo lascio come spunto di riflessione per il lettore.

Tuttavia, osservando una Katana e apprezzandone tutti gli aspetti sopra descritti, trovo sia abbastanza intuitivo cogliere questa espressione contemporanea degli opposti e, oltre a tutte le valenze simboliche già descritte, a mio parere la Katana può fregiarsi anche di essere un simbolo di Equilibrio. E quanto l’Equilibrio sia importante per le principali Tradizioni Orientali come quella Taoista è già stato ampiamente descritto.

Il Taglio

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Tameshigiri in Giapponese significa letteralmente “taglio di prova” e serve appunto a testare il potenziale di una lama

Tagliare, tagliare, tagliare. Il primo impulso che si prova, o almeno per me è sempre stato così, appena presa in mano una Katana è quello di tagliare. E in effetti sembrerebbe abbastanza logico perché una spada viene forgiata e creata per tagliare e questo è l’utilizzo più immediato a cui la mente ordinaria la associa.

Tuttavia riflettendo in maniera più approfondita sul significato del taglio anche qui emergono a mio parere molti elementi interessanti. Il taglio è la parte apparentemente più importante, o almeno, così mi è stato sempre insegnato, della pratica marziale con la spada e lo sviluppo di una buona tecnica richiede anni e anni di pratica intensa.

Tuttavia, come emerso in precedenza, il taglio con la Katana è il risultato finale di un movimento armonico che partendo dai piedi coinvolge tutto il corpo e termina “rilasciando” ciò che si è accumulato in termini di energia potenziale durante tutto il movimento attraverso la lama della spada.

Ricercare la qualità e la purezza del taglio è forse quello su cui mi sono sempre focalizzato e su cui inevitabilmente anche la mente tende a fissarsi. Il sibilo della lama che fende l’aria, oltre purtroppo a gonfiare enormemente l’ego, è un qualcosa che stimola sempre di più a ricercare la perfezione e l’unione di tutti i particolari in maniera armonica al fine di raggiungere appunto il cosiddetto “taglio perfetto”.

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Particolare di tangka raffigurante Manjushri nero

In realtà col tempo ho imparato che il taglio (e quindi anche il significato più profondo della spada) simboleggia un qualcosa di più profondo. E fissarsi solo sulla tecnica rischia di distogliere l’attenzione dagli aspetti più importanti, come peraltro anche in altre discipline come la Meditazione. La lama col suo filo tagliente serve appunto a “tagliare” e quindi a rimuovere e in definitiva a eliminare ciò che di nocivo e superfluo ci intossica.

A tal proposito in diverse Tradizioni alla spada viene appunto attribuito il potere simbolico di squarciare il velo di buio dell’ignoranza. Nel Buddismo Tibetano alcune divinità tantriche protettrici del Dharma (vedi articolo Tao) e dissipatrici dei difetti della mente (attaccamento, illusione, ignoranza) sono rappresentate appunto con delle spade fiammeggianti in mano.

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San Michele Arcangelo sconfigge gli angeli ribelli Luca Giordano (1666 ca)

In maniera simile anche nella Tradizione Cristiana l’Arcangelo Michele è rappresentato con una spada infuocata, come primo e più acerrimo combattente delle forze malefiche.

Spesso si sente dire “tagliare i rami secchi”, per rimuovere il superfluo, alleggerirsi e ripartire con rinnovato vigore e determinazione verso un nuovo obbiettivo. La spada, a mio parere, simboleggia proprio questo, e ci aiuta a rimuovere simbolicamente il superfluo, liberando la mente dai blocchi e dai difetti che la appesantiscono e le impediscono di percepire la vera essenza delle cose.

Concludendo questa chiacchierata spero di non essere stato troppo noioso e spero che tra le righe, al di là delle emozioni, sia stato colto anche il profondo rispetto verso questa spada e tutto quello che simboleggia. Una sorta di devozione che sono sicuro molte altre persone e non necessariamente praticanti di arti marziali condividono con me e a cui piace ogni tanto contemplarla abbandonandosi al fluire della mente.

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arte    Giappone

filosofia    highlights    Tibet

Alla ricerca di Zhang Zhung: alle radici del Bön Tibetano

16 Aprile 2015 di Marco Invernizzi


Si sa molto poco del Tibet prima dell’introduzione del Buddhismo. Questo evento viene fatto risalire alla figura di Padmasambhava nel 786 d.c. che dalla regione dell’Uddhiana in India si mosse verso il Tibet, introducendo in questa regione i precetti Buddhisti e sancendo uno sconvolgimento molto profondo, non solo religioso, ma anche politico in tutta la zona himalayana e sub-himalayana.

Tuttavia tutta la regione del Tibet precedentemente a questi eventi era già sede di importanti movimenti spirituali e regni anche molto vasti di cui oggi rimangono solo alcune rare tracce.

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Padmasambhava, meglio conosciuto in Tibet come Guru Rinpoche (Guru prezioso) ritenuto il fondatore del Buddhismo Tibetano

Nell’ottica di una ricerca delle radici profonde culturali e spirituali del Tibet pre-buddhista si colloca il documentario “In Search of Zhang Zhung “ (alla ricerca di Zhang Zhung), viaggio alla ricerca del mitico regno di Zhang Zhung scomparso in seguito alla conquista da parte del regno del Tibet nell’VIII secolo e di cui ad oggi restano pochissime testimonianze scritte.

Trovate il documentario alla fine di questo post in versione integrale (in lingua inglese, ma piuttosto ben comprensibile). Ma prima, vogliamo approfondire alcuni aspetti del tema trattato dal documentario come introduzione anche per chi non mastica l’inglese.

Zhang Zhung

Secondo le poche testimonianze superstiti, questo regno nei primi secoli dopo Cristo si estendeva su una superficie pari a gran parte del Tibet, e alcune aree dell’attuale Afghanistan India e Pakistan, coprendo una superficie notevolmente vasta di tutta quell’area chiamata Asia Centrale.

Indissolubilmente legato alla religione Bön di cui parleremo più avanti, pare che questo regno nei suoi periodi di massimo splendore fosse costituito da almeno 18 diversi regni riuniti in un’unica forma di governo. Ritrovamenti  archeologici confermano la presenza di una civiltà con le caratteristiche compatibili con il regno di Zhang Zhung databile nel periodo dell’età del ferro, anche se altri ritrovamenti suggeriscono come questo altopiano fosse già abitato in periodo paleolitico.

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Il Bön

Indissolubilmente legata al regno di Zhang Zhung è la  la religione Bön appunto, preesistente al buddismo Tibetano e che quest’ultimo ha in parte incorporato in alcuni aspetti e rituali.

Il Bön (tibetano: བོན་), diffuso non solo in Tibet ma anche in Nepal, India, Bhutan e Cina, è una religione fortemente legata allo sciamanesimo e all’animismo. Il suo fondatore è considerato Tönpa Shenrab Miwoche, una figura simile al Buddha nelle fattezze e negli insegnamenti, proveniente secondo la tradizione dalla “terra di Olmo Lungring”, probabilmente nell’attuale Iran.

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I praticanti della religione Bön (Bönpos) sostengono che gli insegnamenti di Shenrab Miwoche siano collocabili cronologicamente circa 18000
anni fa, e che influenzarono in maniera molto profonda tutta la cultura e la religione del sub-continente Indiano, generando in parte anche la religione Vedica.

A tal proposito il monte Kailash, al centro di questo documentario e centrale per il Bön e il regno di Zhang Zhung, è anche la montagna più sacra per gli Induisti.

Quale delle due Tradizioni abbia realmente preceduto l’altra è tuttavia difficile da stabilire. Come spesso accade, ogni religione giustifica i punti di contatto rivendicando il primato cronologico sull’altra. Siccome molto spesso la verità sta nel mezzo, preferiamo propendere salomonicamente per l’ipotesi dell’influenza reciproca o di una radice comune anteriore ad entrambe.

Tuttavia, viste le scarse e frammentate notizie, i numerosi fraintendimenti e pregiudizi, questo documentario è stato pensato appunto per presentare una più corretta e completa visione dei Bönpos e della loro Tradizione spirituale.

Il Viaggio

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il viaggio dei protagonisti del documentario da Katmandu fino al lago Manasarovar e al monte Kailash

Sullo sfondo quindi del maestoso e surreale paesaggio dell’altopiano del Tibet si svolge un viaggio descritto attraverso due punti di vista: quello di un fotografo americano e quello sicuramente più interessante di Gelek, un monaco Bön, che, ispirato dal suo Maestro, parte dal suo monastero a Kathmandu alla scoperta dell’antico regno di Zhang Zhung, centro originario della sua religione, il Bön appunto.

Il suo è sì un viaggio in senso fisico, anzi, un pellegrinaggio, ma è anche un interessante Viaggio Interiore. Infatti, alla ricerca di luoghi mitici e spirituali, questo lungo pellegrinaggio tocca diverse tappe come il lago Manasarovar e il sacro Monte Kailash nel profondo Tibet occidentale.

E lungo la strada si incontrano ostacoli, sciamani ed insoliti personaggi, e, osservando le diverse sfaccettature di questa religione antica ma un po’ trascurata, emerge come essa sia fortemente radicata in molti aspetti della vita quotidiana delle popolazioni di quell’area.

Una religione in cui i confini tra sciamanesimo e pratiche codificate sono molto labili e che, coltivando un forte legame con la natura, tuttavia ben si adatta alle condizioni estreme che caratterizzano quella regione. E via via che il viaggio prosegue Gelek affronta sempre più dubbi e perplessità e anche piacevoli scoperte riguardo a quella che è la sua Tradizione.

In particolare è divertente per tutto il viaggio osservare il suo rapporto nei confronti degli sciamani che lo accompagnano, perché, se inizialmente vengono da lui considerati l’opposto della propria figura in termini spirituali e di canone religioso, col passare del tempo ne coglie invece la complementarietà, tramite un rapporto più spontaneo, diretto e genuino alla realtà, mostrandogli da un punto di vista opposto al suo l’aderenza profonda a quello stesso canone Bön di cui in teoria lui solo sarebbe il detentore.

Il Monte Kailash

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il monte Kailash, con la sua forma unica a piramide

Alto seimilaseicentotrentotto metri sul livello del mare, il monte Kailash è poco lontano da due grandi laghi, il Manasarovar, che appare anche nel documentario e il Rakshastal. Dalle sue cime originano alcuni dei fiumi più lunghi e importanti dell’Asia come l’Indo, il Sutlejm il Brahmaputra e il Karnali (affluente del Gange).

Oltre alla sua importanza per questi aspetti questa montagna è considerata sacra all’Induismo, in quanto residenza del Dio Shiva, al Buddhismo Tibetano, alla religione Bön e al Gianismo e per questo non è mai stata scalata da nessuno.

Proprio a causa della sua sacralità e importanza per diverse religioni molto diffuse nella regione Indiana e Hymalayana, in diverse Tradizioni si ritiene che nella vita si debba compiere almeno una volta un pellegrinaggio presso il monte Kailash, esattamente come fatto da Gelek nel documentario.

La Fine del Viaggio

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Tutto il documentario è un insieme di esperienze fuori dal comune e apparenti contrasti tra diversi modi di concepire la realtà come ad esempio la scelta complicata e sofferta del protagonista di seguire il pellegrinaggio intorno al monte Kailash in senso orario (secondo il canone buddista) e non antiorario (secondo il canone Bön).

Tutti spunti che nel percorso interiore di Gelek lo porteranno a concludere come gli opposti in realtà non sono altro che il rovescio della stessa medaglia e che la sua ricerca  lo ha portato a realizzare che non sono tanto i luoghi i depositari della sua Tradizione ma che la sua Tradizione stessa vive e vivrà fino a quando ne saranno preservate tramite il lignaggio la Conoscenza e l’Insegnamento.

Il cui fine, come nel Buddhismo, è la liberazione della mente dall’Illusione; e la chiara e limpida mente è simboleggiata in una delle scene finali, dallo specchio d’argento che riflette i raggi del sole.

Esperienze simili accadono spesso in Tibet… da sempre crogiolo spirituale, con una memoria stratificata che affonda in epoche antichissime che da sempre lo rendono una “terra di maghi, sciamani e santi uomini…”.

Alcune immagini dai luoghi del documentario

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filosofia    highlights    Tibet

highlights    Medicina cinese    Tai Chi Chuan    Taoismo

Taijiquan, Daoyin, Qi Gong: le pratiche di lunga vita

28 Gennaio 2015 di Marco Invernizzi


Proseguiamo qui il percorso iniziato con le Tre Tradizioni cinesi (Taoismo, Buddismo e Confucianesimo) e approfondiamo l’argomento delle Pratiche di Lunga vita, ossia il Daoyin, il Qi Gong e il Taiji Quan (altrimenti noto come Tai Chi Chuan). Questo articolo, come il precedente, è un estratto rielaborato dalla mia tesi “Qi Gong Medico: gioiello della medicina”, presentata al corso di Regolazione Biologica e Medicine Complementari, Biofisica Medica Clinica dell’Università degli Studi di Milano in collaborazione con la World Health Organization.

Cosa sono le pratiche di lunga vita?

Col termine Pratiche di Lunga Vita si intende un insieme di insegnamenti contenuti nella multiforme realtà cinese che mirano al prolungamento della vita fisica contemporaneamente ad un miglioramento della sua qualità generale, con l’obbiettivo finale di raggiungere l’immortalità (che sia qui intesa come immortalità fisica o immortalità su un altro piano è un discorso che meriterebbe di essere approfondito a parte).

Poiché queste pratiche hanno profonde radici nella Tradizione Taoista, è evidente come i livelli di questa definizione siano molto diversi dal senso comune e, come abbiamo visto nell’articolo dedicato alle Tre Tradizioni cinesi, non necessariamente l’immortalità è ricercata strettamente in ambito materiale.

Qi, secondo l'ideogramma tradizionale (in uso in Cina fino al 1946)
Qi, secondo l’ideogramma tradizionale (in uso in Cina fino al 1946)

Centrale, in queste pratiche, è il concetto di Qi, principio energetico/vitale che, nonostante le diverse interpretazioni, è molto affine al concetto indiano di prana. Come quest’ultimo, anche il Qi è presente illimitatamente nell’universo, ed è possibile considerare il Qi da un punto di vista macrocosmico e universale oppure da un punto di vista microcosmico e particolare, ovvero il carico di energia di un luogo, o di un essere vivente, o addirittura di un singolo organo. Proprio dall’interazione (o meglio, come vedremo, la risonanza) tra il Qi universale e il Qi particolare si sprigiona il potenziale benefico e terapeutico di tali pratiche.

È infatti interessante notare che uno degli scopi principali delle pratiche di lunga vita è di mantenere il corpo in buona salute agendo preventivamente sull’insorgere di possibili malattie; di qui anche l’attinenza con la medicina. D’altro canto, non deve sorprendere se al tempo stesso queste pratiche hanno attinenza con la sfera interiore e spirituale dell’essere umano: il presupposto da cui muovono queste pratiche, condiviso anche dallo Yoga indo-tibetano, è che un corpo malato è un grandissimo intralcio nella via spirituale.

Le pratiche principali sono: Dao yin/Qi gong e Tai Chi Chuan, oltre ad altre che probabilmente si sono perse nei millenni. Per comprendere queste discipline, strettamente inter-relate, dobbiamo però risalire molto indietro nel tempo, all’origine stessa della civiltà cinese.

Le origini Sciamaniche

Statue di argilla che raffigurano risalenti alla dinastia Zhou (XII-III secolo a.C.) che raffigurano donne sciamane danzanti.
Statue di argilla risalenti alla dinastia Zhou (XII-III secolo a.C.) che raffigurano donne sciamane danzanti.

Le prime testimonianze frammentarie cinesi di approcci terapeutici sono riconducibili alle mitiche figure sciamaniche Wu, che operavano attraverso tecniche esorcistiche impostate sul movimento fisico e sul suono.

Il carattere Wu indica «danza» e secondo il Shuo wen, il dizionario etimologico di epoca Han, il termine era anche accomunato a Zhu, termine riconducibile ad augurio o invocazione. Quindi Wu o Zhu comunicava con il cielo e le sue invocazioni terapeutiche erano essenzialmente preghiere rivolte agli spiriti o formule esorcistiche.

Una caratteristica importante è che originariamente Wu erano donne, tanto che gli sciamani uomini venivano designati con il carattere Xi. La rilevanza di tale elemento concerne la relazione tra la società ideale taoista e l’antico egualitarismo tribale legato al matriarcato.

Più che a spiriti antropomorfi le prime Wu si rivolgevano alle manifestazioni di una serie di «forze» o di «influssi» a forte caratterizzazione archetipica, la cui azione era desunta dall’osservazione dei fenomeni naturali. Era una tecnica rituale per coordinare i movimenti del proprio corpo (e il respiro) con i flussi delle forze cosmiche, così da acquisire la potenza necessaria, ad esempio, a esorcizzare le «forze deviate» che affliggevano il «paziente».

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L’antico ideogramma per Wu

A riprova della forte impronta che gli Wu hanno lasciato sull’origine della medicina tradizionale cinese vi è il fatto che il carattere Yi («medico o scienza medica») era originariamente composto dal carattere Wu più la parte superiore del carattere Yi attuale, composta da segni raffiguranti una faretra colma di frecce e una mano che impugna un’arma.

Ciò denoterebbe la marcata origine demonologica della medicina: le frecce indicherebbero le armi che lo sciamano usava nelle sue danze rituali per esorcizzare i demoni.

L’eziologia «demonica» rimase nella MTC sotto la denominazione di Xie Qi, Soffi Perversi, i Patogeni della definizione moderna, ma sin dall’antichità fu affiancata da altre possibili cause, prima fra tutte il mancato rispetto dei ritmi naturali.1Giulia Boschi. Medicina Cinese: la radice e i fiori. Corso di sinologia per medici e appassionati.
Casa Editrice Ambrosiana 2003. ISBN 88-408-1263-6

Conformarsi al Dao, la legge Universale che governa tutti i fenomeni e le loro trasformazioni, significa uniformare le orbite del proprio Qi psicofisiologico (microcosmo) al retto fluire del Qi in natura (macrocosmo); in altri termini, ciò vuol dire acquisire Zheng Qi, il cosiddetto soffio retto o autentico. Il Zheng Qi è alla base della salute dell’individuo, della sua capacità di rispondere all’attacco patogeno ed adattarsi alle modificazioni macrocosmiche, in un’ottica di armonizzazione con il Dao.

Una sacerdotessa Wu invoca lo spirito di un animale.
Una sacerdotessa Wu invoca lo spirito di un animale.

Lo sciamano cinese, come gli adepti taoisti, non trae il suo potere dalla «possessione» di uno spirito che gli induce uno stato estatico simile alla medianità, ma da un particolare stato di ricettività che gli consente di veicolare attivamente le forze archetipiche armonizzandosi ad esse.

La pratica esperienziale interiore conduce lo sciamano ad uno stato di quiete del cuore e della mente che lo porta ad una risonanza perfetta col mondo naturale. È questo accordo armonico che lo rende permeabile fino a diventare un vero e proprio portale del mondo archetipico e permette agli Shen, gli Archetipi, di agire direttamente attraverso di lui in piena consapevolezza nell’atto terapeutico.

Le sciamane Wu furono i primi medici della storia cinese: lo Shan hai jingìe li associa all’uso di erbe medicinali e alle Pratiche di Lunga Vita, anche se i loro compiti principali rimanevano il controllo degli elementi naturali, l’esorcismo, la comunicazione con gli spiriti. Solo nel taoismo si conservarono le tradizioni legate alla magia delle Wu perché in forma semiclandestina molte donne fecero parte delle più importanti scuole taoiste: molte tecniche, d’altra parte, richiedevano la partecipazione di una coppia di adepti di sesso opposto.

Il concetto di Risonanza

Danzatrice mascherata, tardo periodo Zhou
Danzatrice mascherata, tardo periodo Zhou

È molto probabile che le invocazioni sciamaniche raggiungessero il loro scopo terapeutico per la qualità energetica del suono trasmesso più che per la suggestione provocata dal loro significato. Come spiegano fonti più tarde, esso era in grado di riportare l’organismo all’equilibrio producendo un effetto biofisico di Risonanza, fenomeno conosciuto in Cina in tempi antichissimi come la teoria delle armoniche, mentre in Occidente, escluse le scuole pitagoriche, essa cominciò a svilupparsi soltanto a partire dal XVIII secolo.

A questo proposito può essere interessante notare come l’ideogramma di «farmaco» sia composto dall’ideogramma di «musica» sovrastato dal radicale «erba», quasi a indicare che quanto fa di un’erba un farmaco è la sua «musica». Sebbene l’associazione specifica di un suono particolare con un determinato organo interno appaia per la prima volta in forma esplicita con Tao Hongjing, vissuto nel VI secolo d.C., bisogna considerare che questi suoni erano segreti e, molto probabilmente, trasmessi oralmente già da secoli. È significativo il fatto che ancora oggi i «sei suoni-mantra» liu zi jué, specifici per ogni organo, siano uno degli esercizi più diffusi e praticati del Qi gong terapeutico. 2Giulia Boschi. Medicina Cinese: la radice e i fiori. Corso di sinologia per medici e appassionati.
Casa Editrice Ambrosiana 2003. ISBN 88-408-1263-6

In profondo accordo con la biofisica moderna, la Risonanza, Gan Ying, è l’asse portante del rapporto tra macrocosmo e microcosmo, il fondamento delle loro interazioni quantiche e implica la bipolarità di azione-emanazione Yang e ricezione-percezione Yin che si differenzia da un semplice rapporto causa-effetto o agente-agito, poiché include la nozione di reciprocità. La reciprocità comporta la possibilità di invertire i poli di attività e recettività tra l’uomo e il cosmo.

Analogamente, il termine De, in una delle sue accezioni più antiche, indicava contemporaneamente sia il Potere che l’uomo esercita sul Cielo attraverso l’invocazione, sia la Virtù dell’officiante che consente la risposta del Cielo in un processo di risonanza con il mondo archetipico. La potenza acquisita dal praticante deriva probabilmente da un processo di amplificazione che comporta una serie di inversioni successive. Il rapporto tra la perfetta recettività e l’invocazione può essere paragonato al rapporto che nel Cristianesimo esiste tra la perfetta sottomissione alla volontà divina e la preghiera d’intercessione. 3Giulia Boschi. Medicina Cinese: la radice e i fiori. Corso di sinologia per medici e appassionati.
Casa Editrice Ambrosiana 2003. ISBN 88-408-1263-6

de
L’antico carattere oracolare per De

Nel Taoismo il termine De sta a indicare il veicolo sottile attraverso il quale si effettua la connessione tra due entità che entrano in risonanza, il flusso biofotonico della biofisica moderna. La forza che si attiva in tale situazione di empatia energetica viene percepita nell’atto terapeutico come De qi, un insieme di sensazioni quasi-fisiche comuni sia al medico che al paziente, la cui sapiente lettura guida l’intero atto medico.

Nella concezione taoista la pratica esperienziale della risonanza con le forze che esprimono l’ordine cosmico è il fattore che trasmuta la Scienza in Magia, conferendo all’essere umano il potere sugli aspetti quantici della natura. Ciò è possibile grazie a un atteggiamento di completa recettività che il Taoismo esprime nel concetto di Wu Wei, comunemente tradotto come non agire.

In realtà il concetto di Wu, il non essere, indica la condizione atemporale e non locale del Dao, motore segreto quantico del suo aspetto manifesto spazio-temporale, in cui Wu Wei è compiere l’azione in accordo con la dimensione archetipica Wu.

La costante del Dao è il non-agire, così non c’è nulla che non venga compiuto

Laozi

Il Dao yin

Secondo alcuni autori nelle danze sciamaniche, articolate in posture esorcistiche e invocazioni, sarebbero contenuti i primordi del Dao yin, attuale Qi gong o arte del coltivare il Qi, cioè di quella tecnica, articolata su più livelli, il cui scopo principale è di armonizzare il Qi del proprio organismo con quello dell’ambiente naturale, intensificandone in tal modo la potenza, per poterlo successivamente dirigere e proiettare sotto il controllo della volontà cosciente. Ciò renderebbe possibile agire anche sul mondo materiale attraverso una forza immateriale guidata dalla mente.

Le diverse posture esorcistiche illustrate e commentate nel Dao yin tu di Mawangdui risultano molto simili a quelle in seguito incluse nei sistemi Dao yin / Qi gong delle scuole taoiste. Analogamente, le invocazioni non vanno intese come semplici formule verbali, ma come il veicolo adatto a trasmettere questa forza al corpo del malato, all’ambiente circostante o a se stessi.4Giulia Boschi. Medicina Cinese: la radice e i fiori. Corso di sinologia per medici e appassionati.
Casa Editrice Ambrosiana 2003. ISBN 88-408-1263-6

Il Tai Chi Chuan

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Il Tai Chi Chuan o Tai ji Quan, usando la traduzione degli ideogrammi cinesi con lo standard pinyin, è una pratica che nasce in Cina dall’incontro tra arti marziali e pratiche tradizionali per la salute e la longevità. Il Tai Chi Chuan è molto diffuso tutt’oggi a livello popolare in Cina e in grande espansione in tutto l’Occidente negli ultimi decenni.

La componente marziale del Tai Chi Chuan è di natura interna: le sue più evidenti diversità rispetto ad altre arti marziali sono infatti costituite dal ruolo centrale assegnato ad azioni difensive basate sulla cedevolezza, e dall’impiego nei confronti dell’avversario dell’elasticità del corpo invece che della forza fisica. 5Carlo Moiraghi. Qi Gong. Fabbri editori 2002. ISBN 88-451-8009-3

Moiraghi. la via della Forza Interiore, trattato di energetica esperienziale cinese. Casa Editrice
Meb 1995. ISBN 88-7669-490-0

In realtà, nell’esecuzione del Tai Chi, la forza fisica dev’essere pressoché annullata in favore di un completo rilassamento proprio per far emergere la componente più propriamente energetica e potenzialmente ancora più travolgente della forza fisica stessa, in un movimento fluido e circolare, senza interruzioni, una costante alternanza di Yin e Yang, vuoto e pieno.

E proprio l’alternanza di Yin e Yang è il principio esperienziale del Tai Chi Chuan, rappresentato dal Taiji, ovvero il “grande polo” del movimento degli opposti, che procede dal Wuji, il “non-polo” indifferenziato rappresentato generalmente da un cerchio vuoto. Insieme, formano il Taijitu, che rappresenta l’alternanza di Yin e Yang e al tempo stesso la compresenza del principio anteriore (Wuji) indifferenziato:

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Il Qi gong

Qi gong è un termine generico recente che designa un insieme di pratiche di benessere, salute, risveglio e realizzazione personali. Qi gong può dunque essere tradotto semplicemente con lavoro (Gong) del soffio (Qi), indicando con questo l’aspetto attivo di una pratica che riguarda l’energia vitale che anima le cose e gli esseri.

L’antica denominazione classica di Qi gong era Yang sheng fa, letteralmente i metodi (Fa) che nutrono (Yang) la vita (Sheng) i quali, secondo la Tradizione, permetterebbero di opporsi o di ritardare il processo della morte, per cui sostenere la vita vuol dire ritardare la morte vivendo bene e a lungo.

qigong
Chen bao shi, ovvero la visualizzazione di due grandi sfere di energia ai lati. Illustrazione tratta da C. Moiraghi, Qi Gong, Fabbri, 2002.

In definitiva il Qi gong rappresenta un variegato scenario in cui si stratificano scuole e stili, in un lignaggio ininterrotto di maestri e ricercatori che ne hanno mantenuto la vitalità modificandolo incessantemente. Una classificazione dei Qi gong più importanti, tenendo conto del fatto che spesso appaiono mescolati tra loro, potrebbe essere la seguente:

  • Qi gong di origine taoista, o che intrattengono qualche tipo di rapporto con la filosofia del Tao;
  • Qi gong di origine buddista che, in Cina, sono legate al Chan;
  • Qi gong di origine confuciana che spesso si ritrovano nei rituali come il saluto;
  • Qi gong di origine marziale che hanno lo scopo di rinforzare il corpo e di proteggerlo;
  • Qi gong di origine medica ancora prescritti nelle pratiche terapeutiche;
  • Qi gong di origine familiare che si trasmettono all’interno dei clan o delle famiglie;
  • Qi gong di origine sintetica concepito recentemente per fini pedagogici;
  • Qi gong di origine esterna alla Cina e che sono spesso nuove creazioni, come la ginnastica svedese del Ling.

Tutte queste varietà di Qi gong hanno in comune una pratica di meditazione con la finalità di raggiungere “un’altra cosa ancora” (Hua) ma classicamente non viene mai precisato che cos’è questa “altra cosa”, assimilata a una trasmutazione.

Laozi spiega: “il grossolano è la radice del sottile” significando che ciò che è grossolano può trasmutarsi in qualcosa di molto sottile. Ne deriva che il Qi gong può essere, di volta in volta, molto terrestre o molto celeste, ovviamente sempre nel senso prima citato della trasmutazione alchemica.

Ritengo utile citare in toto una parte dell’introduzione del libro di Charles sul Qi gong che definisce in maniera chiara e molto intuitiva le radici su cui poggia il Qi gong e il suo impianto filosofico:

Un gesto può essere molto sottile e un pensiero può essere molto grossolano. Talvolta il fatto di rendere sottile il gesto permette di affinare lo spirito mentre il contrario non è necessariamente vero. Come nello Yijing sarebbe meglio cominciare dalla cosa più semplice, il monogramma composto da un solo tratto, per arrivare alla cosa più complessa, l’esagramma, composto da sei tratti.
Se non si comprende bene o si travisa ciò che realmente corrisponde allo Yin e allo Yang, sarà difficile definire il valore di un esagramma. Come comprendere un concatenamento complesso senza conoscere le basi del movimento e della respirazione? Come comprendere i principi se non si conoscono le regole? Molti testi classici o grandi autori classici come Liji (o Libro dei riti), Zhuangzi, Liezi, Neijing Suwen (Trattato di Medicina Interna dell’Imperatore Giallo) spiegano letteralmente che “lo Yang sale, lo Yin scende”. Ciò viene inteso in Occidente come : “Lo Yang è in alto, lo Yin è in basso”. Ma tra salire ed essere in alto o scendere ed essere in basso esiste una differenza considerevole. Se lo Yang sale è perché originariamente (radice) era in basso. Se lo Yin scende è perché originariamente (radice) era in alto.
I “classici” distinguono dunque tre stati: l’origine (radice), il movimento (evoluzione), la conseguenza (preparazione al cambiamento). Ma quando si tratta di movimento (Dong) o di trasformazione (Yi) gli occidentali, come i turisti, di solito fanno una foto. Il classico dice: “Lo Yang sale”; loro fanno una foto e constatano, dopo e basandosi sulla foto,- che lo Yang è in alto.
Dunque, per la logica occidentale, lo Yin deve essere in basso. Così si è detto tutto e non si è fatto nulla. O lo si è fatto in controsenso.
Ma, nel tempo, anche i cinesi si sono occidentalizzati e propongono a loro volta pratiche per turisti in cui lo Yang è in alto e lo Yin è in basso. Normale. E tutto va bene solo nel migliore dei mondi. Io qui vi propongo, al contrario, una versione meno turistica e più classica di una pratica di “sostenimento della vita” legata alla filosofia del Tao e del Lingbaoming, ma nello stesso tempo influenzata dai principi sviluppati da Wang Yang Ming, precursore di Wang Tse Ming, della corrente della “Purezza del cuore” (Xin Xue)”

Georges Charles6Georges Charles. Qi Gong ed energia vitale. Pratiche Taoiste di lunga vita. Edizioni Pendragon 2008. ISBN 978-88-8342-573-8

Per concludere (per ora)

Il quadro storico delineato con le Tre Tradizioni e le pratiche di lunga vita ha un obiettivo, che sarà raggiunto con il prossimo articolo, a completamento di un trittico: ovvero il rapporto tra queste discipline e la scienza moderna e soprattutto tra le pratiche di lunga vita e un approccio terapeutico. Se abbiamo già visto che il Tai Chi Chuan è applicato con successo in ambito preventivo, meno conosciuto è l’aspetto medico del Qi Gong, di cui parleremo nell’articolo finale.

Non dimenticando mai, naturalmente, che lo scopo ultimo di queste pratiche è, come abbiamo visto, Hua, ovvero “un’altra cosa ancora”.

Note[+]

Note
↑1, ↑2, ↑3, ↑4 Giulia Boschi. Medicina Cinese: la radice e i fiori. Corso di sinologia per medici e appassionati.
Casa Editrice Ambrosiana 2003. ISBN 88-408-1263-6
↑5 Carlo Moiraghi. Qi Gong. Fabbri editori 2002. ISBN 88-451-8009-3

Moiraghi. la via della Forza Interiore, trattato di energetica esperienziale cinese. Casa Editrice
Meb 1995. ISBN 88-7669-490-0

↑6 Georges Charles. Qi Gong ed energia vitale. Pratiche Taoiste di lunga vita. Edizioni Pendragon 2008. ISBN 978-88-8342-573-8
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highlights    Medicina cinese    Tai Chi Chuan    Taoismo

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Il mondo è un recipiente sacro e non si può governare

30 Ottobre 2014 di Marco Invernizzi


Con un ringraziamento a Francesco Vignotto per il lavoro editoriale svolto su questo articolo.

Che sapore ha l’aceto?

Tre uomini sono riuniti attorno a un barile di aceto. Ognuno ne ha appena assaggiato il contenuto ed esprime le proprie impressioni. Il primo ha un’espressione di disappunto, il secondo di amarezza, e il terzo infine sorride.

I tre saggi sono, nell’ordine, Confucio, Buddha e Laozi, ovvero i rappresentanti delle tre correnti principali della Tradizione Cinese, nella quale l’episodio è un tema molto ricorrente e che è qui molto bene esplicitato da questa vignetta:

confucio-buddha-laozi-ita

L’aceto simboleggia la vita e i tre saggi sembrano avere atteggiamenti contrastanti: per Confucio occorre correggerne il degrado dalla corretta via del passato; per Buddha è caratterizzata inevitabilmente dal dolore e l’unica via di scampo è abbandonare ogni attaccamento; per Laozi, infine, anche attraverso il sapore al tempo stesso acido e amaro dell’aceto è possibile esperire l’armonia celeste.

L’episodio è in apparenza “di parte” e decisamente a favore del Taoismo (cioè la tradizione rappresentata da Laozi) a discapito delle altre due tradizioni, soprattutto perché, come vedremo, le altre due tradizioni, qui forse eccessivamente stilizzate, in realtà non sono così in disaccordo con Laozi.

Laozi, Confucio e Buddha

Tuttavia, secondo una delle interpretazioni del celebre dipinto, siccome i tre Maestri sono riuniti attorno allo stesso barile, i Tre Insegnamenti sono in realtà uno solo, un contenuto unico ma al contempo dinamico che ha animato e anima discipline come il Tai Chi Chuan, il Qi gong, la Medicina Tradizionale Cinese e il Buddhismo C’han (che in Giappone diventerà Zen).

L’affermazione, la negazione e la sintesi; l’esperienza dell’azione rituale, l’esperienza del Vuoto e quella delle Presenze (necessaria per percepire il vuoto): l’unione di questi tre aspetti ha reso e rende tuttora, anche se molto meno “visibile”, la Tradizione Cinese una delle più ricche e dinamiche vie all’interno delle varie Tradizioni su questo pianeta.1C. Moiraghi, Qi Gong, Fabbri editori 2002. ISBN 88-451-8009-3 Moiraghi. la via della Forza Interiore, trattato di energetica esperienziale cinese. Casa Editrice Meb 1995. ISBN 88-7669-490-0

Un particolare in apparenza curioso è che l’Alchimia, ovvero la via della Trasmutazione, in Cina si sviluppò proprio in seno al Taoismo, il quale sembrerebbe invitare ad accettare il mondo così com’è:

Vorresti afferrare il mondo e cambiarlo?
Io vedo che non è possibile.
Il mondo è un recipiente sacro: non si può cambiare.
Coloro che lo cambiano lo rovinano,
coloro che lo afferrano lo perdono

Laozi2Daodejing, XXIX, Feltrinelli,

Questo paradosso – anch’esso apparente – racchiude un insegnamento molto profondo e ci invita a varcare il confine tra il livello letterale e quello nascosto di questa tradizione. Se esiste un ordine celeste che respira attraverso i pori di tutta la realtà sensibile, quest’ordine – visto da qui – assomiglia molto al caos e non può che essere espresso per paradossi e con un forte senso dello humor: tale appare il sapore aspro dell’aceto, se lo si considera quale corruzione del vino.

Ma per poter agire senza spezzare il “recipiente sacro” del mondo (o più probabilmente esserne spezzati), occorre innanzitutto  assecondare quest’ordine non opponendo resistenza. Allora la propria volontà perde ogni connotato egoico (Il saggio non ha una mente propria […] e fa della turbolenza del mondo la propria mente3Lao Tzu, Daodejing, LXIV, Feltrinelli,) e l’azione è tale quale alla non-azione (wei wu wei). A quel punto, non può incontrare ostacolo alcuno:

Il cielo dura e la terra permane.
La ragione per cui cielo e terra
possono durare e permanere
è che non vivono per sé stessi;
perciò possono vivere a lungo.
Per questo il saggio si tira indietro
e viene a trovarsi davanti,
si esclude, ma rimane presente.
Non è forse perché non ha fini personali
che può realizzare i suoi fini personali?

Laozi, Tao Te Ching (Daodejing), VII

Tuttavia sbaglieremmo – lo ripetiamo – a voler circoscrivere tutto questo al solo Taoismo. Come vedremo in questo articolo,  anche questa esperienza, dev’essere letta alla luce dei Tre Insegnamenti, che rappresentano i tre principi necessari perché la trasformazione non rimanga bella teoria. Per questo vogliamo iniziare un viaggio che sicuramente non riuscirà a toccare tutti i temi e gli intrecci tra Buddhismo, Confucianesimo e Taoismo, ma che speriamo riesca a far emergere il disegno di fondo.

L’aceto è guasto: il Confucianesimo

Kongfuzi (551-479 a.C.), conosciuto anche come “Maestro Kong” o Confucio in Occidente è il fondatore del Confucianesimo. Questa Tradizione si fonda sui principi di un’etica individuale e sociale basata sul senso di rettitudine e giustizia, sull’importanza dell’armonia nelle relazioni sociali e nel vissuto quotidiano.

Q Confucius Rockbund Art Museum 4
Una bizzarra e gigantesca rappresentazione di Confucio dell’artista contemporaneo cinese Zhang Huan.

Il Confucianesimo quindi esplica i suoi fondamenti principalmente in ambito sociale, familiare e statale, fornendo delle norme etiche e rituali ereditate dall’antichità che hanno lo scopo di generare armonia nei rapporti umani che rifletta quella delle dinamiche Universali. Viene data inoltre quindi molta importanza allo studio, alla riflessione e al miglioramento in generale di sé e del prossimo sempre col fine di promuovere Ordine e Armonia.

Nella sua opera principale, I dialoghi, Confucio si presenta come “un messaggero che nulla ha inventato”, impegnato solo a trasmettere la sapienza degli antichi.

Inizialmente il suo pensiero, più che una Tradizione era un invito a riflettere su se stessi (microcosmo) e quindi di riflesso sul mondo inteso nella sua universalità (macrocosmo). Solo in seguito, principalmente ad opera dei suoi discepoli, di cui il principale era suo nipote Zi Si, vi fu la codifica di un vero e proprio corpus filosofico basato principalmente su di un sistema rituale e una dottrina morale e sociale, che si proponevano di rimediare alla decadenza spirituale della Cina, in un’epoca di profonda corruzione e di gravi sconvolgimenti politici.

Confucius02

Confucio non volle mai, invece, trattare questioni soprannaturali o che trascendessero l’esperienza umana, limitandosi ad aspetti più “concreti” e legati alla vita di tutti i giorni. Per questo motivo il Confucianesimo rapidamente diventò il cuore del sistema educativo cinese, e numerose importanti figure del confucianesimo come Mencio e Xunzi svilupparono questa dottrina nei secoli sul piano etico, sociale e politico.

Il confucianesimo penetrò quindi profondamente nel sistema di pensiero dei cinesi e dei loro statisti, divenendo il pensiero politico dominante, raramente messo in discussione fino agli inizi del XX secolo; tuttavia per le caratteristiche descritte in precedenza, tra cui il relativo disinteresse per il sovrannaturale, risulta difficile inquadrarla come una religione.

Interpretando le basi concettuali di questa Tradizione come il rapporto macro-microcosmo, lo stimolo alla riflessione e la ricerca dell’Armonia all’interno e al di fuori di sé, si notano molti rimandi ed elementi comuni al Taoismo e alla tradizione Induista. Per questo motivo, come vedremo in seguito per le altre due grandi Tradizioni cinesi, l’apporto reale del solo Confucianesimo alla Tradizione Cinese risulta difficilmente quantificabile, e soprattutto sarebbe riduttivo se analizzato come slegato dalle altre due.

L’aceto è amaro: il Buddhismo

Monaci buddhisti a Zhengzhou, foto di Steve McCurry
Monaci buddhisti a Zhengzhou, foto di Steve McCurry

Il Buddhismo è una delle religioni più antiche e più diffuse al mondo, una religione piuttosto originale in quanto non si fonda sulla fede in un Dio, bensì su una via per raggiungere la liberazione, la buddhi, ovvero l’illuminazione, “attraverso la quale si arriva a prendere atto della realtà, quale risultato di un intreccio di elementi che si condizionano reciprocamente”.

Con il termine Buddhismo intendiamo l’insieme di dottrine e di pratiche che originò  dagli insegnamenti di Siddhartha Gautama, il Buddha storico vissuto tra il VI e il V secolo avanti Cristo in India. Di famiglia nobile e molto ricca, all’età di 29 anni Siddharta venne a contatto con la sofferenza umana durante una visita fuori dall’ambiente protetto della reggia paterna.

Decise allora di abbandonare la famiglia (tra cui moglie e figlio) e di rifiutare ogni ricchezza per dedicarsi alla vita meditativa e trovare una soluzione al problema del dolore che accompagna l’esistenza, alla ricerca di una via per la liberazione dal ciclo di cause-effetto che da sofferenza genera inevitabilmente sofferenza.

Siddharta Gautama definì in seguito questo ciclo coproduzione condizionata, ovvero interdipendenza dei fenomeni, “perché esiste quello, esiste questo”.4Gautama Buddha, Nidānasūtra 124, 547b-548a Il Buddha elencò dodici cause, ognuna delle quali genera la successiva quale effetto:

  1. L’ignoranza genera i
  2. coefficienti karmici (ovvero la traccia delle azioni passate), che generano
  3. la coscienza, che genera
  4. nome e forma, che generano
  5. i sei sensi, che generano
  6. il contatto, che genera
  7. la sensazione, che genera
  8. la brama, che genera
  9. l’attaccamento, che genera
  10. l’esistenza, che genera
  11. la nascita, che genera
  12. vecchiaia, morte, tristezza e sofferenza
buddha_sky_2_by_hanciong-d6cctvq

Nella sua ricerca, Siddharta Gautama sperimentò molte dottrine e praticò anche forme di ascetismo estremo. Tuttavia a suo parere nessuna di queste vie offrivano una reale liberazione. Con estrema finezza, Siddharta individuava anche nelle vie allora codificate e nella rinuncia alla vita mondana una forma di attaccamento all’io, una brama, un seme che rimetteva in moto la catena delle cause e degli effetti e provocava la ricaduta nel ciclo che genera sofferenza.

Continuando quindi nella sua ricerca di una ‘via di mezzo’, all’età di 35 anni, dopo sette giorni intenso raccoglimento, Siddharta Gautama conseguì l’illuminazione ed entrò nel Nirvana – ovvero la “condizione di incondizionato”.

Alla base del suo insegnamento vi sono le “Quattro Nobili Verità” e l’Ottuplice Sentiero, enunciati nel famoso Discorso della messa in moto della ruota del Dharma, che qui esponiamo molto in sintesi:

  1. La verità del dolore: tutti gli aggregati fisici e mentali sono soggetti a nascita, vecchiaia, malattia, morte, unione con ciò che è spiacevole e distacco da ciò che è piacevole.
  2. La verità dell’origine del dolore: l’origine è l’attaccamento a ciò che è impermanente e che quindi genera inevitabilmente sofferenza.
  3. La verità della cessazione del dolore: è la cessazione (nirodha) della brama, abbandonando l’attaccamento a ciò che è solo provvisorio.
  4. La verità della via che conduce alla cessazione del dolore: è la “via di mezzo” che rifugge “i due estremi”, non indulgendo nei piaceri sensoriali, ma nemmeno abbracciando la “l’automacerazione, dolorosa, ignobile, senza profitto”. La via consiste nell’Ottuplice sentiero: retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retto modo di vivere, retto sforzo, retta consapevolezza, retta concentrazione.

Questa breve esposizione non fa giustizia della sterminata complessità che assunse questa dottrina nei millenni successivi, diffondendosi in tutta l’Asia e anche, a partire dal XIX secolo, in Occidente. Ci aiuta a comprendere meglio l’espressione amara del Buddha nei confronti dell’aceto: la vita, secondo il Buddhismo, è dominata dalla sofferenza.

"Grasso come un Buddha": in realtà il personaggio grasso e ridente che ricorre spesso nell'arte popolare cinese non è il Buddha Siddharta Gautama, ma il Budai
“Grasso come un Buddha”: in realtà il personaggio grasso e ridente che ricorre nell’arte popolare cinese e giapponese non è il Buddha Siddharta Gautama, ma il Budai. Probabilmente in origine il Budai fu una divinità folkloristica, ma successivamente fu inglobato nel Buddhismo, nel Taoismo e nello Shintoismo.

Tuttavia occorre sottolineare che il Buddhismo è tutt’altro che una visione pessimista e – come abbiamo visto – rifugge l’estremismo ascetico: ricordiamo che, al di fuori dell’episodio dei Tre Saggi, il Buddha è generalmente rappresentato sorridente, un’espressione di sereno distacco più che di amara rinuncia. La causa principale della sofferenza, infatti, è l’ignoranza della sua vera natura, ovvero l’attaccamento a ciò che è impermanente.5Impermanenza che comprende anche il concetto di io: “Il Buddhismo, forse anche nella sua primitiva formulazione, aveva sostenuto […] che non esiste un io permanente, un atman, un jiva, un purusa [tutti termini che indicano il sé, universale o individuale, nelle diverse tradizioni indiane, NdR]; ma non per questo sottraeva l’uomo alla responsabilità delle proprie azioni. Ciò che noi compiamo fruttifica; ogni pensiero, primo motore dell’azione, racchiude in sé l’esperienza passata e si proietta, così carico, nel pensiero seguente; la nostra personalità si riduce a un fluire perenne di elementi (dharma) in continuo moto condizionato; questo moto è dolore; la pace è nella cessazione di questo moto, il quale è arrestato dall’eliminazione del carma infetto; l’eliminazione avviene in virtù della disciplina morale e della conoscenza.” (G. Tucci, Storia della filosofia indiana, Laterza, pag. 52)

E qui, come vedremo in seguito, i punti di contatto con il Taoismo sono molteplici, in primo luogo il concetto Vacuità (Sunyata) quale vera realtà che trascende tutti i fenomeni impermanenti, e che proprio per l’affinità con il Tao 6Cfr Laozi, XI: “Trenta raggi convergono in un mozzo:/grazie al suo vuoto abbiamo l’utilità del carro.” trovò un terreno molto ricettivo nella Cina antica, così come la percezione che di un ordine che unisce ciò che in apparenza è dissimile.

Neve copiosa in tazze d’argento,
aironi celati dalla luna splendente;
cose dissimili nell’affine
la confusione è il luogo della conoscenza.

Pao-ching san-mei ko, “Poema del Samadhi dello specchio prezioso”7In L. Arena, Antologia del Buddhismo Ch’an, Mondadori, 180
Bodhidharma
Bodhidharma

Le influenze Buddiste sulla Tradizione Cinese sono fatte risalire alla figura di Bodhidharma (India, 483 circa – Shaolin, 540), un monaco buddhista indiano, 28° patriarca del Buddhismo indiano secondo la tradizione Chan/Zen, appartenente alla corrente Mahayana, ed erede del Dharma, del maestro Prajñātāra.

Bodhidarma raggiunse la Cina e si stabilì nei pressi della capitale dell’epoca che era Luoyang, presso il monastero di Shaolin. Qui si narra che dopo 9 anni di meditazione insegnò ai monaci il sentiero marziale (che nei secoli si trasformò nella leggendaria imbattibilità dei monaci guerrieri buddisti di Shaolin) e un corpus di insegnamenti che rientrano sotto la definizione di Buddhismo Ch’an. Da questa scuola nasceranno poi in Giappone le diverse scuole di Buddhismo Zen.

In realtà molti aspetti propri al buddismo tantrico di origine Himalayana-Tibetana (Vajrayana o veicolo di Diamante) e della sua propaggine mongola sono fortemente presenti anche nel Taoismo, deponendo quindi a favore di un’influenza di queste correnti Buddhiste sulla Tradizione Cinese in toto, anche se mancano le testimonianze e le prove di un reale contatto.8Giovanni Filoramo (a cura di), Mario Piantelli, Ramon N. Prats, Erich Zürcher, Pier Paolo Del
Campana, Heinz Beckert, Martin Baumann, Buddhismo, Bari, Laterza, 2007, ISBN
978-88-420-8363-4

L’aceto è aceto: il Taoismo

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Il Dao di cui si può parlare non è l’eterno Dao.
I nomi che si possono nominare non sono nomi eterni.
Senza nome, l’origine di cielo e terra

Laozi, Daodejing, I

Definire il Taoismo risulta molto complicato, proprio perché il tentativo di catalogarlo come una religione da parte del Mondo Occidentale ha sviato in parte l’interpretazione dei suoi reali contenuti.

Innanzitutto il termine Taoismo (o Daoismo) si rifà appunto al termine Dao (o Tao), che, come detto prima è stato erroneamente paragonato al concetto di Dio come viene inteso nelle religioni monoteiste e in particolare in Occidente.

In realtà Tao esprime un concetto più complesso essendo al contempo il principio che abbraccia e comprende tutto l’Universo, gli esseri viventi, cielo, terra e sole ma è anche l’ente determinante tutti questi aspetti. È quindi il cardine dell’universo, la sorgente da cui scaturisce e a cui ritorna ogni cosa.

una delle cinque montagne sacre taoiste, fotografati nel 1935.
Monaci taoisti sul Monte Huashan una delle cinque montagne sacre taoiste, fotografati nel 1935.

Quindi il Tao, nella sua caratteristica di principio originario e ordinatore, trova molte similitudini con il concetto di Logos presocratico, di Uno Neoplatonico e nel suo significato di Via, intesa come Sentiero per il raggiungimento dell’armonia con il Tutto, anche con il concetto di Dharma proprio del Buddhismo.

La sua origine non è perfettamente riconducibile ad un personaggio, ad una rivelazione o ad un preciso momento storico. Infatti è più il risultato di un processo di evoluzione progressiva dei contenuti, partendo dalle Tradizioni Sciamaniche e Wu di difficile inquadramento cronologico, e di integrazione di messaggi e informazioni successive. E a tal proposito è interessante che sulla reale esistenza del principale autore Taoista – Laozi (o anche Lao Tzu) – tuttora si dibatte.

il Taoismo non ha né data né luogo di nascita

Isabelle Robinet9Storia del Taoismo dalle origini al XIV secolo, Ubaldini, p. 8

E a tal proposito per convenzione si fa risalire appunto a questo autore e al libro Daodejing (400 a.C. circa) “l’inizio” di questa tradizione. Il libro è una raccolta di pensieri di origine più antica, fino a quel momento tramandati soltanto oralmente, integrati da una serie di riflessioni a commento.

Il Tao di cui io parlerò non è l’eterno tao

Laozi

Una delle interpretazioni di questa frase, alla luce di altri passaggi del testo che ritornano su questo argomento, è che vi sia una dimensione dicibile del Tao che però non arriva a sfiorare la vera natura di esso, che per definizione sfugge a qualunque tentativo di “presa” mediante il discorso e il linguaggio.

Laozi
Laozi

Circa il significato del titolo:

  • Dao/Tao letteralmente ha il significato di “via”
  • De/Te traducibile con “virtù”
  • Jīng/Ching viene qui usato nei significati di canone o “grande libro” o “classico”

Nella cultura cinese il termine Taoismo copre tantissimi argomenti diversi, dal cosiddetto aspetto regolamentato, codificato dal Canone Taoista 10 Il Daozang, raccolta di almeno cinquemila testi che costituiscono la summa della letteratura taoista, raccolti tra il V e il VI secolo dopo Cristo. , che lo ha reso interpretabile come una religione, fino a concezioni di vita ascetiche e mistiche, totalmente avulse dal concetto di religione, finalizzate all’armonia con la natura.

Il simbolo principale, universalmente associato al Taosimo è il Taijitu, dove le controparti yin e yang sono rispettivamente di colore nero (o blu) la parte yin e di colore bianco (o rosso) la parte yang.

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L’Armonia e L’ Equilibrio con il Tutto, il Tao appunto, che è sia il Sentiero che la Meta, viene raggiunta tramite una “armonizzazione” esplicata nel concetto di “agire senza agire” (wei wu wei), cioè permettere il ritmo naturale delle cose, non deviare o forzare la spontaneità della natura, non imporre la propria volontà sopra l’organizzazione del mondo ma più che altro agire in armonia con la volontà organizzatrice superiore che è appunto il Tao.

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Da qui traspare un forte messaggio di essenzialità, di eliminazione del superfluo per cogliere l’aspetto più profondo delle cose, l’essenza appunto, attraverso un processo in cui il cardine sono la “naturalezza” e la “spontaneità”. Il tutto però non visto in un’ottica di lassismo o di accettazione passiva delle cose, ma tramite un intento attivo che è ricercabile soltanto nel profondo dell’essere umano, tramite un percorso evolutivo che porta il praticante stesso a eliminare tutto il superfluo.

Essere in accordo con il Tao, anzi, è muoversi negli interstizi, penetrando dunque l’esperienza sensoriale e attraverso (per mezzo) di essa passando oltre, in un percorso “positivo” che appare complementare – e opposto – a quello “negativo” Buddhista, ma che è essenzialmente identico. Così il macellaio del principe Wen-Hui, il cui coltello dopo diciannove anni è ancora perfettamente affilato, afferma nel Zuang-zi (Chuang Tzu), altra opera fondamentale del Taoismo:

Amo il Tao e così miglioro nella mia arte. All’inizio della mia carriera non vedevo che il bue. Dopo tre anni di pratica, non vedevo più il bue. Adesso è il mio spirito che opera, più che i miei occhi. I miei sensi non agiscono più, ma soltanto il mio spirito.  Conosco la conformazione naturale del bue e attacco solo gli interstizi. […] In verità, le giunture delle ossa hanno degli interstizi e il taglio del coltello non ha spessore. Colui che sa introdurre il filo della lama in quegli interstizi usa agevolmente il proprio coltello, perché si muove attraverso i vuoti. 11Zhuang-zi, III, Adelphi, pp. 35-36

Le mappe alchemiche

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La principale mappa alchemica di Mawangdui, grazie alla quale è stato possibile ricostruire i diagrammi delle pratiche di Qi Gong ritrovati nella tomba (vedi immagine successiva). Sull’interpretazione di questa mappa pubblicheremo degli approfondimenti molto presto.

Proprio perché si rivolge alla parte più interiore, profonda e spirituale la modalità comunicativa nel Taoismo è peculiare. Infatti non segue dinamiche lineari e i testi contengono molte metafore e poche reali indicazioni pratiche, ma sono orientate a portare il lettore ad uno stato di apertura in cui non è tanto l’intelletto a essere principalmente interessato ma altre modalità percettive più legate all’intuizione.

Il classico esempio di queste modalità sono le cosiddette Mappe Alchemiche, vere e proprie schematizzazioni grafiche intuitive di aspetti cosmogonici legati alla realtà che senza troppe spiegazioni inducono una lettura che trascende i normali processi elaborativi intellettuali.

A tal proposito basti pensare che moltissime informazioni fino a poco tempo fa sconosciute riguardo alle pratiche di lunga vita taoiste come il Tai Chi e il Qi gong sono state rinvenute negli anni settanta del secolo scorso con l’importantissima scoperta archeologica della tomba di Mawangdui del II secolo a. C.

In tale sito era stata sepolta la Marchesa di Dai, iniziata taoista di altissimo livello, e vi erano contenute numerose “mappe” e rappresentazioni riguardanti appunto questi aspetti e per gli studiosi ha segnato un punto di svolta nella possibilità di “riscoprire” il Taoismo sistematizzare le pratiche psicocorporee miranti a lavorare sul Qi (ovvero, come vedremo e approfondiremo nei prossimi articoli, sull’energia).

Sequenza di esercizi psicofisici proveniente dalla tomba di Mawangdui
Sequenza di esercizi psicofisici e respiratori proveniente dalla tomba di Mawangdui

L’alchimia e la ricerca dell’immortalità

Abbiamo nominato le mappe alchemiche taoiste e occorre dunque accennare, almeno per brevi capi, al concetto di Alchimia. L’Alchimia Taoista è una pratica spirituale finalizzata alla ricerca dell’immortalità, intesa non tanto in termini cronologici ma come ricerca di stati esperienziali estatici e mistici.

Il termine immortalità si è prestato a numerose interpretazioni e quello forse più completo è un superamento dei limiti del corpo fisico attraverso un lungo processo di manipolazione del corpo energetico in cui esso viene “trasmutato” in una forma più sottile e spirituale. L’essere umano in questo stato fisico e di coscienza “si eleva” fino a trascendere i limiti della dimensione spazio-temporale della sua incarnazione, che prevede la morte fisica (da qui la confusione con un concetto di immortalità intesa solo in senso letterale sul piano fisico).

Si possono distinguere due diverse tradizioni dell’Alchimia:

  • l’Alchimia Interna (Nei dan o cinabro interiore). Questa riguardava esclusivamente l’interiorità dell’essere umano, focalizzandosi esclusivamente su pratiche meditative e pratiche spirituali finalizzate al raggiungimento di stati di coscienza trascendenziali. L’Alchimia Interna si può considerare complementare al daoismo più liturgico, la sua parte più Esoterica e scevra di aspetti religiosi e dottrinali, una via non finalizzata al raggiungimento di uno scopo materiale ma più vicina ad una tecnica per aggiungere l’illuminazione.
  • l’Alchimia Esterna (Wai dan o cinabro esteriore) invece, poneva l’accento su tecniche più fisiche e materiali (quindi esterne) finalizzate alla trasformazione dei metalli in oro. Nella ricerca sul piano materiale della trasmutazione vi era un riflesso di quello stesso processo interiore ricercato dall’Alchimia Interna in cui l’uomo (metallo grezzo) attraverso processi successivi di purificazione e trasmutazione raggiunge uno stato superiore di purezza e quindi l’immortalità simboleggiato dall’oro.12Leonardo Vittorio Arena, L’innocenza del Tao: storia del pensiero cinese, Milano, Mondadori

Equilibrio e Armonia

I Tre Insegnamenti come uno
I Tre Insegnamenti come uno: Confucio porge Gautama Buddha in fasce a Laozi.

Da questa introduzione, riduttiva ma comunque necessaria per meglio comprendere il discorso che svilupperemo nei prossimi articoli, emerge come le tre principali Tradizioni alla base del pensiero cinese contengano degli elementi comuni e delle complementarietà che tradiscono le diverse influenze che nei millenni hanno esercitato reciprocamente.

Abbiamo già parlato delle apparenti divergenze e le sostanziali affinità tra Taoismo e Buddhismo, la cui naturale ibridazione produsse il Buddhismo Ch’an/Zen.

D’altro canto, in tutta la storia cinese compare una apparente contrapposizione anche tra Confucianesimo e Taoismo, l’uno caratterizzato da una sorta di visione razionale e “terrena” finalizzata all’armonia nella vita sociale, burocratica e statale; l’altro da uno stuolo di mistici, guaritori, sciamani e alchimisti miranti sempre all’armonia ma ad un aspetto più spirituale.

In realtà essi spiegano la vitalità della cultura cinese perché testimoniano il profondo abbraccio che li lega come principio della Terra e del Cielo insieme al Buddhismo, principio trasmutatore dell’Uomo, in un unico sistema dinamico. 13Lao Tzu, Tao Te Ching: il libro della virtù e della via, Moretti & Vitali, ISBN 88-7186-269-4Hua Ching Ni. La Via mistica del Tao. M.I.R. edizioni 1998. ISBN 88-86873-56-5
Giulia Boschi. Medicina Cinese: la radice e i fiori. Corso di sinologia per medici e appassionati Casa Editrice Ambrosiana 2003. ISBN 88-408-1263-6 Georges Charles. Qi Gong ed energia vitale. Pratiche Taoiste di lunga vita. Edizioni Pendragon 2008. ISBN 978-88-8342-573-8

Laozi e Confucio
Laozi e Confucio

Infatti, la chiave interpretativa alchemica rivela come Confucianesimo e Taoismo possano rappresentarsi come il lato essoterico ed esoterico della stessa Tradizione, poggiando entrambi sulla preesistente tradizione sciamanica e della magia Wu di difficile inquadramento cronologico e di cui parleremo prossimamente.

Spesso il Confucianesimo ha rimproverato al Taoismo un certo grado di egoismo in quanto il Taoismo sarebbe distante dall’agire sociale e ricercherebbe per lo più la salvezza individuale, anche se nella ricerca individuale dell’Armonia con il Tutto vi è comunque una ricerca mirata al bene collettivo. Ma ancora, mentre per il Taoista il sovrano doveva raggiungere l’unione mistica con il Tao per ben governare, per il confuciano al sovrano bastava l’approvazione celeste e la appropriazione di virtù etico sociali.

Il confucianesimo dunque, rappresenta il lato pratico, sobrio, sociale della vita e del carattere del popolo cinese, bilanciato, in questo senso, dal taoismo, che rappresenta l’aspetto metafisico, mistico, artistico e allegro.14Invernizzi G., Analisi frattale della HRV e MTC, dall’intuizione alla ricerca, University of Milan, 2009, tesi non pubblicata 

A ben vedere, ci troviamo di fronte all’ennesima divergenza apparente. All’inizio dell’epoca Han, ad esempio, i letterati svilupparono la teoria, estremamente suggestiva anche ai nostri giorni, secondo la quale le semplici irregolarità di ordine etico provocano squilibri a livello cosmico. Il massimo rappresentante di questa corrente confuciana, fortemente influenzata dal taoismo, è Dong Zhongshu (179-104 a.C.), il quale afferma, ad esempio:

L’universo ha lo Yin e lo Yang, anche l’uomo ha lo Yin e lo Yang. Quando il Qi Yin dell’universo cresce, quello dell’uomo, conformemente, cresce anch’esso. Quando il Qi Yin dell’uomo cresce, anche il Qi Yin dell’universo può facilmente accordarsi a ciò e crescere anch’esso. Il loro Dao è unico. 15J. C. Cooper, Yin e Yang. L’armonia taoista degli opposti, Roma, Astrolabio-Ubaldini Editore

La visione alchemica di questo processo rivela quindi il profondo abbraccio che lega le due Tradizioni nell’anima popolare e, con l’integrazione della Tradizione Buddhista, spiega l’estrema vitalità a tuttora della cultura cinese.

Le tre Tradizioni infatti definiscono un sistema dinamico speculare ai tre principi cosmogonici della Terra del Cielo e dell’Uomo simbolizzati nelle antiche monete cinesi, in cui il Confucianesimo rappresenta l’ordine quadrato terrestre, il Taoismo l’ordine circolare celeste e il Buddhismo il principio di trasmutazione che li muove.

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Il messaggio finale di ciascuna di queste tre tradizioni propone la via dell’Equilibrio come unica modalità per raggiungere uno stato di Armonia, manifestantesi al massimo livello nell’armonia con il Tutto. Tuttavia gli ambiti di consapevolezza sono molto diversi,  per cui nel Confucianesimo l’armonia è intesa in termini sociali e materiali mentre nel Taoismo è in termini più spirituali come Armonia con l’universo.

Alla luce di queste considerazioni è interessante notare come la Medicina Tradizionale Cinese tragga il cardine del suo impianto costitutivo, e cioè il concetto di Equilibrio e di Armonia, proprio da ciascuna delle tre Tradizioni considerate. In particolare la MTC ha ereditato dalle tre Tradizioni il concetto principe che guida tutte le sue modalità guaritive: pensare l’organismo malato come un sistema “squilibrato” che necessita di essere riarmonizzato.

Ma tutto questo, e su come la medicina “ufficiale” stia tentando di integrare questa visione, parleremo nei prossimi articoli.

Note[+]

Note
↑1 C. Moiraghi, Qi Gong, Fabbri editori 2002. ISBN 88-451-8009-3 Moiraghi. la via della Forza Interiore, trattato di energetica esperienziale cinese. Casa Editrice Meb 1995. ISBN 88-7669-490-0
↑2 Daodejing, XXIX, Feltrinelli,
↑3 Lao Tzu, Daodejing, LXIV, Feltrinelli,
↑4 Gautama Buddha, Nidānasūtra 124, 547b-548a
↑5 Impermanenza che comprende anche il concetto di io: “Il Buddhismo, forse anche nella sua primitiva formulazione, aveva sostenuto […] che non esiste un io permanente, un atman, un jiva, un purusa [tutti termini che indicano il sé, universale o individuale, nelle diverse tradizioni indiane, NdR]; ma non per questo sottraeva l’uomo alla responsabilità delle proprie azioni. Ciò che noi compiamo fruttifica; ogni pensiero, primo motore dell’azione, racchiude in sé l’esperienza passata e si proietta, così carico, nel pensiero seguente; la nostra personalità si riduce a un fluire perenne di elementi (dharma) in continuo moto condizionato; questo moto è dolore; la pace è nella cessazione di questo moto, il quale è arrestato dall’eliminazione del carma infetto; l’eliminazione avviene in virtù della disciplina morale e della conoscenza.” (G. Tucci, Storia della filosofia indiana, Laterza, pag. 52)
↑6 Cfr Laozi, XI: “Trenta raggi convergono in un mozzo:/grazie al suo vuoto abbiamo l’utilità del carro.”
↑7 In L. Arena, Antologia del Buddhismo Ch’an, Mondadori, 180
↑8 Giovanni Filoramo (a cura di), Mario Piantelli, Ramon N. Prats, Erich Zürcher, Pier Paolo Del
Campana, Heinz Beckert, Martin Baumann, Buddhismo, Bari, Laterza, 2007, ISBN
978-88-420-8363-4
↑9 Storia del Taoismo dalle origini al XIV secolo, Ubaldini, p. 8
↑10 Il Daozang, raccolta di almeno cinquemila testi che costituiscono la summa della letteratura taoista, raccolti tra il V e il VI secolo dopo Cristo.
↑11 Zhuang-zi, III, Adelphi, pp. 35-36
↑12 Leonardo Vittorio Arena, L’innocenza del Tao: storia del pensiero cinese, Milano, Mondadori
↑13 Lao Tzu, Tao Te Ching: il libro della virtù e della via, Moretti & Vitali, ISBN 88-7186-269-4Hua Ching Ni. La Via mistica del Tao. M.I.R. edizioni 1998. ISBN 88-86873-56-5
Giulia Boschi. Medicina Cinese: la radice e i fiori. Corso di sinologia per medici e appassionati Casa Editrice Ambrosiana 2003. ISBN 88-408-1263-6 Georges Charles. Qi Gong ed energia vitale. Pratiche Taoiste di lunga vita. Edizioni Pendragon 2008. ISBN 978-88-8342-573-8
↑14 Invernizzi G., Analisi frattale della HRV e MTC, dall’intuizione alla ricerca, University of Milan, 2009, tesi non pubblicata 
↑15 J. C. Cooper, Yin e Yang. L’armonia taoista degli opposti, Roma, Astrolabio-Ubaldini Editore
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Effetto Warburg, ovvero la famigerata “causa primaria del cancro”

8 Agosto 2014 di Marco Invernizzi


Premessa

Da un po’ di tempo ricorrono su blog e social network notizie sensazionalistiche riguardo alla scoperta della ‘causa primaria del cancro’, di un famigerato “Effetto Warburg”, denominato così in onore del Premio Nobel Otto Warburg.

Secondo la vulgata, lo scienziato avrebbe scoperto che le cellule tumorali si sviluppano in un ambiente acido. Per combattere la loro proliferazione, quindi, sarebbe necessario alcalinizzare l’organismo, nella fattispecie ingerendo quotidianamente dosi di bicarbonato e limone. Questo rimedio non solo aiuterebbe e preverrebbe la malattia, ma limiterebbe gli effetti collaterali della chemioterapia. Tuttavia – manco a dirlo – essendo una soluzione troppo a buon mercato, le case farmaceutiche non vogliono che le masse lo sappiano.

Ebbene, quando esplode la giaculatoria di copia-incolla e meme su internet, è d’uopo dubitare fortemente, soprattutto di fronte all’evidenza di copioni collaudati. Tuttavia, siccome una bugia per essere creduta deve contenere degli elementi di verità, per una mente realmente critica si dovrebbe porre il dilemma: verità avvelenata o veleno ‘verificato’?

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Il rigetto di una tesi perché avvertiamo la goccia di veleno  è infatti altrettanto dannoso quanto la facile creduloneria di chi si cura solo dello zuccherino del vero. In entrambi i casi, lasciamo cadere il desiderio di avvicinarci alla verità dei fatti abbracciando il pregiudizio.

E così, l’effetto Warburg – almeno così come è stato vulgato – diviene Verità bevuta da coloro ai quali piace credere alle soluzioni facili e solo in apparenza logiche, oppure Bufala per chi si appella alla Scienza, ma ha letto solo una parte della letteratura, che vorrebbe questa teoria screditata da scoperte successive sull’origine genetica del cancro.

Ma, per chi avrà pazienza, vedremo che le cose non sono esattamente così semplici.

A mio parere l’unica cosa chiara è che c’è una grande confusione. Questo ahimè accade purtroppo sempre più spesso in rete, proprio perché la ricerca dello scandalo  da una parte e l’ignoranza dall’altra sono le uniche logiche dietro alla pubblicizzazione e alla discussione intorno ad argomenti che invece andrebbero trattati in maniera più completa e dettagliata, per comprenderne appieno i fenomeni e le loro reali implicazioni e, non ultimo, le ricadute sulle nostre stesse vite.

Quindi, come già fatto per altri temi su questo sito, mi sembrava doveroso cercare di fare un po’ di chiarezza presentando i fatti per quello che sono, con la massima oggettività e trasparenza e lasciando al lettore uno spunto per un’eventuale riflessione e approfondimento dell’argomento (sempre che ne abbia voglia…).

Nota: a causa della complessità di alcuni argomenti mi è sembrato doveroso aggiungere una breve Appendice in cui spiego alcuni dei termini e dei cicli/fenomeni biochimici che appaiono nel testo. Spero aiuti anche il lettore non ferrato in materia a comprendere meglio alcuni passaggi dell’articolo.

Otto Warburg

Il primo chiarimento riguarda il Sig. Warburg, anzi Prof. Warburg, visto che si parla di uno dei più grandi biochimici del ‘900, nonché Premio Nobel. Tuttavia se controlliamo la voce “Otto Warburg” su Wikipedia veniamo subito avvertiti che:

Questa voce o sezione sull’argomento medicina è ritenuta da controllare.
Motivo: La voce va mondata dalle leggende metropolitane che gli attribuiscono miracolose scoperte oggi nascoste dal solito complotto

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Otto Warburg

Sull’oggettività “sfumata” di Wikipedia, che emerge in maniera imbarazzante qui sopra, già ci siamo espressi in un altro articolo. Tuttavia, dobbiamo dare atto che questo argomento si sia prestato da subito come combustibile perfetto per alimentare le solite sterili battaglie di trincea che rendono le discussioni sul web così tragicamente piatte e inconcludenti.

Tornando al nostro Otto Warburg, dobbiamo dire che era effettivamente un medico e fisiologo tedesco che studiò a lungo il metabolismo energetico cellulare in vitro (e non solo dei tumori…) e ricevette anche il Premio Nobel nel 1931 per, citando l’enciclopedia Treccani:

I suoi fondamentali studi sulla biochimica della respirazione cellulare e dei processi di ossidoriduzione e sull’enzima respiratorio citocromoossidasi (inizialmente detto fermento di Warburg). E’ stato il primo a utilizzare, per tali ricerche, la tecnica delle fettine di tessuto immerse in soluzioni con opportuni nutrienti; fettine sufficientemente sottili sia da essere alimentate per diffusione libera sia da permettere la misurazione volumetrica dell’ossigeno assorbito e consumato dal preparato in studio. 1Enciclopedia Treccani, edizione 2007

Il suo discorso alla cerimonia dei Nobel si intitolò “The oxygen-transferring ferment of respiration”2http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/medicine/laureates/1931/warburg-lecture.pdf senza citazione alcuna di tumori od oncologia, perché  il nobel fu vinto per studi in vitro, svolti anche nell’ambito della fotosintesi vegetale.

Solo in un secondo tempo si ipotizzò una possibile correlazione tra le sue scoperte e i tessuti tumorali, basandosi sul dato sperimentale che le cellule tumorali usano preferibilmente la glicolisi (via poco “redditizia” dal punto di vista energetico) per produrre energia a differenza delle cellule sane; questo comportamento è definito appunto “Effetto Warburg”.

Le cellule tumorali, infatti, possono presentare livelli di attività glicolitica fino a 200 volte superiori a quelli dei tessuti sani, anche in presenza di grandi condizioni di ossigeno. Questo evento fu spiegato da Warburg negli anni ’30 attraverso l’osservazione in vitro di un’accelerata glicolisi in alcune cellule tumorali in vitro che lo portò ad ipotizzare che questo squilibrio metabolico verso la glicolisi si generasse a causa di una alterazione a livello mitocondriale, che ricordiamo essere sostanzialmente il “motore/generatore” della cellula. 3Warburg O (1956) Science 124:269–270

Tuttavia questa sua teoria fu screditata dopo la scoperta che queste mutazioni mitocondriali sono poco frequenti nelle cellule tumorali e anche il fatto che molti tumori non presentano un utilizzo così massiccio della glicolisi 4Garber 2006; questo portò allo spostamento dell’attenzione verso le modificazioni genetiche come paradigma esplicativo della genesi tumorale, rispetto alla teoria di Warburg che fu solamente “riscoperta” nell’ultimo decennio. 5Koppenol, W. H., Bounds, P. L., & Dang, C. V. (2011). Otto Warburg’s contributions to current concepts of cancer metabolism. Nat Rev Cancer 11, 325–337

Several decades ago, Otto Warburg discovered that cancer cells produce energy predominantly by glycolysis; a phenomenon now termed “Warburg effect”. Warburg linked mitochondrial respiratory defects in cancer cells to aerobic glycolysis; this theory of his gradually lost its importance with the lack of conclusive evidence confirming the presence of mitochondrial defects in cancer cells. Scientists began to believe that this altered mechanism of energy production in cancer cells was more of an effect than the cause. More than 50 years later, the clinical use of FDG-PET imaging in the diagnosis and monitoring of cancers rekindled the interest of the scientific community in Warburg’s hypothesis. In the last ten years considerable progress in the field has advanced our understanding of the Warburg effect. However, it still remains unclear if the Warburg effect plays a causal role in cancers or it is an epiphenomenon in tumorigenesis.

Alcuni decenni fa, Otto Warburg scoprì che le cellule cancerogene producono energia principalmente tramite la glicolisi, secondo un fenomeno denominato appunto “Effetto Warburg”. Warburg legò questa aumentata glicolisi nei tumori a dei difetti a livello mitocondriali, tuttavia questa teoria perse gradualmente importanza a causa della mancanza di evidenze scientifiche di questi deficit. Gli scienziati iniziarono a pensare che questa alterazione nel metabolismo energetico fosse più un effetto che una causa del tumore stesso. Più di 50 anni dopo l’uso clinico della PET con glucosio marcato nella diagnosi e monitoraggio dei tumori ravvivò l’interesse della comunità scientifica verso l’ipotesi di Warburg. Negli ultimi dieci anni sono stati fatti considerevoli progressi in questo campo nel comprendere l’effetto Warburg. Tuttavia, rimane ancora poco chiaro se esso giochi un ruolo causale o sia invece un epifenomeno.[footnote nella genesi dei tumori” 6Upadhyay M et al. The Warburg effect: Insights from the past decade. Pharmacology & Therapeutics 137 (2013) 318–330

Warburg, me e…

Peter_Pedersen

Questo è un breve riassunto delle vicende legate ad Otto Warburg e alle sue scoperte. Tuttavia è a mio parere interessante rivedere questa vicenda secondo l’interpretazione data da un ricercatore che per 50 anni si è occupato nel suo laboratorio di queste tematiche. Il suo punto di vista ci aiuterà a capire meglio come questa teoria abbia influenzato (e lo stia facendo ancora tuttora…) i paradigmi relativi alla genesi e al comportamento metabolico dei tumori,

Lo scienziato in questione è Peter L. Pedersen e nel suo interessante articolo intitolato “Warburg, me and Hexokinase 2…” del 20077Pedersen PL. Warburg, me and Hexokinase 2: Multiple discoveries of key molecular events underlying one of cancers’ most common phenotypes, the “Warburg Effect”, i.e., elevated glycolysis in the presence of oxygen. J Bioenerg Biomembr (2007) 39:211–222 e racconta come la sua carriera da ricercatore sia strettamente legata a Warburg e alle sue scoperte.

Infatti, agli inizi della carriera nel 1969, Pedersen fu colpito profondamente dalle teorie di Warburg e si lanciò a capofitto a lavorare nel suo laboratorio seguendo le sue tesi, attraversando silenziosamente e caparbiamente il periodo “anti-Warburg / anti-Metabolico” della ricerca oncologica e riemergendo con soddisfazione in periodi più recenti con le sue scoperte dei meccanismi molecolari cellulari che regolano appunto l’effetto Warburg.

Secondo l’autore (ma non solo per lui) Il passaggio-chiave per la “riscoperta” dell’effetto Warburg fu l’invenzione  della PET, il più recente dispositivo di imaging radiologico, che sfrutta appunto la diversa attività metabolica dei tumori per individuarli tramite un apposito tracciante al glucosio marcato. Questo nuovo approccio diagnostico ravvivò l’interesse negli anni ’80 verso la teoria metabolica di Warburg, suggerendo un link molto stretto tra causalità genetica e modificazioni metaboliche nella genesi dei tumori: i due fattori quindi, non si escluderebbero necessariamente a vicenda.

L’incipit dell’articolo di Pedersen conferma quanto già detto all’inizio:

Misconceptions about the “Warburg Effect”
Unfortunately, what has been attributed to Warburg or called the “Warburg effect” in some current literature and particularly in Press releases is not completely correct. For example, it is quite common for some writers to state or implicate Warburg as showing or stating that cancerous tumors, unlike normal tissues, rely predominantly or exclusively on glycolysis for their energy (ATP) production rather than on mitochondria.

Fraintendimenti riguardo l’”Effetto Warburg”
Purtroppo, quello che è stato attribuito a Warburg e chiamato “Effetto Warburg” secondo un certo tipo di letteratura, e principalmente la stampa, non è completamente corretto. Per esempio, è abbastanza diffuso affermare per molti autori che i tessuti tumorali, a differenza dei tessuti sani, si affidano in maniera predominante o addirittura esclusiva alla glicolisi per la produzione di energia (ATP) piuttosto che coi mitocondri.

Infatti uno dei primi miti da sfatare è che le cellule tumorali usino “esclusivamente” la glicolisi per produrre ATP (cioè la “benzina” della cellula, vedi Appendice). In realtà Warburg già nel 1956 aveva pubblicato su Nature dati secondo cui anche il tumore a crescita più rapida e aggressivo che aveva testato in vitro non superava il 50% di produzione energetica cellulare tramite la glicolisi, mentre il resto avveniva “normalmente” tramite la respirazione mitocondriale.

Questo ovviamente è un dato anomalo, in quanto nei tessuti sani di solito prevale di gran lunga percentualmente la respirazione mitocondriale sulla glicolisi, tuttavia ridimensiona molto il concetto spesso propugnato scorrettamente che le cellule tumorali producano energia SOLO tramite glicolisi.

E per rincarare la dose su come l’argomento sia stato preso “alla leggera” nella figura qui sotto viene dimostrato come in realtà l’effetto Warburg riconosca una genesi complessa e multifattoriale che quindi sottende a delle spiegazioni molto più complicate di quelle fornite finora soprattutto da media e affini e che soprattutto non sia ancora chiaro se sia una causa o una conseguenza del tumore stesso…

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La complicazione delle cause alla base della genesi dell’Effetto Warburg Upadhyay M et al. (2013)

Ma qual’è il vantaggio della cellula tumorale ad usare la glicolisi come fonte principale di energia?

Infatti paradossalmente tale via metabolica non è assolutamente considerabile efficiente rispetto ad esempio al ciclo di Krebs che avviene a livello mitocondriale. Infatti per quanto riguarda la glicolisi, da una molecola di glucosio si ottengono 2 molecole di ATP (la molecola dell’energia se vogliamo usare un eufemismo), mentre col ciclo di Krebs dalla stessa molecola di glucosio se ne ottengono 30 di ATP.

La differenza nel rendimento dei due diversi “motori” cellulari è enorme. Infatti questi due metabolismi potrebbero essere paragonabili a due auto che andando alla stessa velocità con un litro di benzina percorrono una 2km e una 30km… Inoltre, in presenza di ossigeno la glicolisi fermentativa (quella appena descritta dell’effetto Warburg) viene inibita e c è un cambio metabolico verso il ciclo di Krebs più vantaggioso (tale fenomeno viene chiamato effetto Pasteur).

Ritorniamo quindi alla domanda precedente… perché la cellula tumorale persevera in un metabolismo scarsamente redditizio dal punto di vista energetico e che in condizioni di normale apporto di ossigeno dovrebbe essere inibito?

Secondo Pedersen, esistono 3 motivi che renderebbero vantaggioso l’Effetto Warburg per una cellula tumorale:

Primo vantaggio

Una cellula che si duplica rapidamente ha bisogno di un’elevata disponibilità di sostanze che servono a costruire i “mattoni” della cellula stessa. In questo la glicolisi è una ricca fonte di precursori essenziali per la biosintesi di acidi nucleici, fosfolipidi, colesterolo e porfirine… insomma tutti ingredienti fondamentali per ottenere tramite mitosi da una cellula un’altra cellula e via via aumentare il numero totale di cellule. Quindi il mantenimento di un’elevata glicolisi, anche in presenza di ossigeno (effetto Warburg), assicura non solo la sopravvivenza del tumore ma anche la sua rapida crescita, tramite la produzione dei “mattoni” essenziali appunto per proliferare.

Secondo vantaggio

Il secondo vantaggio è la protezione del tumore e la sua invasività. Infatti, come effetto collaterale dell’aumentata glicolisi e del mancato inizio del ciclo di Krebs, la cellula tumorale produce ingenti quantitativi di acido lattico che espelle nel microambiente circostante, proteggendola dagli attacchi del sistema immunitario da una parte e producendo contemporaneamente effetti negativi alle cellule sane circostanti, predisponendo il terreno per “un’invasione” del tessuto sano, quasi come in una “guerra chimica”.

Terzo vantaggio

L’effetto Warburg garantisce alla cellula un tempo di sopravvivenza maggiore in caso di limitato apporto di ossigeno. infatti, come un apneista che è abituato a stare anche per alcuni minuti senza ossigeno, la cellula tumorale, basando principalmente il proprio metabolismo energetico su un meccanismo che non necessita di ossigeno per funzionare, anche in condizioni di carenza di quest’ultimo (indotta per esempio da alcuni approcci terapeutici), sopravviverà di più rispetto ad un tessuto sano.

Cellule tumorali e cellule fetali

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A questi dati interessanti che spiegano in parte come le cellule tumorali riescano a proliferare con una aggressività incontrollata, si accompagna una recente scoperta dell’anno scorso fatta da un gruppo di ricerca in ambito oncologico di Harvard 8Yang W, Zheng Y, Xia Y, Ji H, Chen X, Guo F, Lyssiotis CA, Aldape K, Cantley LC, Lu Z. ERK 1/2-dependent phosphorylation and nuclear translocation of PKM2 promotes the Warburg effect.

Infatti è emerso da esperimenti in vitro come le cellule tumorali esprimano delle forme di alcuni enzimi metabolici mitocondriali propri delle cellule fetali, ma assenti nei tessuti completamente formati e sani. Ciò è stato dimostrato sempre in vitro in alcune linee cellulari di tumori umani passando alternativamente dalla forma fetale a quella adulta dell’enzima.

Ciò che ne risultava era che l’effetto Warburg si invertiva fino a scomparire del tutto in queste cellule dopo l’espressione forzata dell’enzima adulto. Ciò da una parte spiegherebbe l’aggressività e la velocità di replicazione dei tumori che mostrano di avere delle caratteristiche comuni con un feto che deve crescere rapidamente;  dall’altra avvalora ancora di più la tesi già emersa in precedenza che vi sia, a prescindere dalla chiarezza del nesso di causalità, un legame tra la spiegazione metabolica e l’ipotesi genetica.

Conclusioni

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Spero di non aver annoiato troppo il lettore e al contempo di essere riuscito ad evidenziare i punti critici, sia in positivo che in negativo, relativi alla vicenda Otto Warburg e all’omonimo Effetto.

Se sono riuscito nel mio intento, penso che la maggior parte dei lettori converrà che l’argomento è molto più complesso e articolato rispetto ad un semplice titolo sensazionalistico come “scoperta la causa del cancro” e sostenere che l’acidità generata dal tumore nel microambiente circostante può essere facilmente contrastata bevendo bicarbonato e limone.

Il punto fondamentale è che l’Effetto Warburg ha una sua notevole importanza in ambito oncologico a prescindere, proprio perché offre dei grandi spunti per studiare e capire il comportamento dei tumori.

Per fortuna sta tornando ad essere considerato dopo un lungo periodo di ostracismo, tuttavia al contempo i dati che lo sostengono sono per la maggior parte ottenuti in vitro e raramente hanno trovato riscontro nella clinica. Infatti vari tentativi di sviluppare terapie che lo contrastassero non hanno fornito risultati incoraggianti. Anche per questo bisogna usare molta cautela nel traslare ciò che si osserva a livello cellulare in un ambiente sperimentale controllato come un laboratorio rispetto a quanto accade poi realmente in un organismo complesso come l’ essere umano.

Il rischio è di semplificare eccessivamente un qualcosa che è tutto fuorché semplice, di cui ad oggi non si sa se sia la causa o una conseguenza del tumore stesso e che, come sembrerebbe più verosimile, risulta essere, come descritto nello schema più sopra, un epifenomeno 9”Epifenomeno Termine filosofico coniato in ambiente positivistico per designare la coscienza quale fenomeno accessorio o secondario, la presenza o l’assenza del quale non inciderebbe sulla esplicazione dei fenomeni essenziali”(da Treccani.it). inserito in mezzo ad altri e la cui somma soltanto determina il comportamento e le caratteristiche della cellula tumorale.

La considerazione finale con cui vorrei lasciare i lettori è la seguente: attenzione ad “abboccare” al sensazionalismo e ai vari “incredibile scoperta” che ogni giorno ci piovono addosso dai media e dai social, interessati solo al numero di like o di click più che ai reali contenuti da divulgare; al contempo però non sdoganiamo tutto come bufale o mantra complottistici e non abbandoniamoci al cinismo più esasperato e disincantato, ma convertiamolo in un senso critico costruttivo e nella voglia di approfondire sempre e comunque, a prescindere dalle nostre convinzioni e dal nostro vissuto, per non perdere quella molla propulsiva fondamentale che è la curiosità

Post scriptum: e il bicarbonato?

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Chi abbia avuto la pazienza di giungere fin qui forse potrebbe trovare oziosa la questione della cura a base di bicarbonato (e limone…). Tuttavia, a onor di completezza, cito la sintesi di un articolo apparso sul sito dell’AIRC dal titolo Si può curare il cancro con il bicarbonato?, a cui rimando per ulteriori approfondimenti e da cui è ancora una volta evidente come i danni provocati dalle bufale non siano tanto le menzogne che diffondono, ma le verità che avvelenano:

  • Nessuna ricerca scientifica ha dimostrato che il bicarbonato di sodio sia una cura efficace dei tumori umani.
  • Il tumore può creare intorno a sé un ambiente acido, ma il bicarbonato, pur essendo una sostanza basica, non modifica in alcun modo il pH intorno alla massa tumorale, quando è assunto per via orale.
  • L’iniezione del bicarbonato per via endovenosa (o parenterale) è estremamente pericolosa per gli organi sani.
  • Alcuni studi in corso negli Stati Uniti stanno testando un derivato del bicarbonato di sodio, allo scopo di diminuire l’acidità intorno alla massa tumorale e studiare se questo rende la chemioterapia più efficace.



APPENDICE

Liberamente tratta da LD Nelson e MC Cox,  I principi di biochimica di Lehninger.

Glucosio

È la forma principale in cui sono convertiti i carboidrati della dieta e per alcune cellule prive di mitocondri o con scarso rifornimento sanguigno è la sola fonte energetica. Il Cervello necessita di ~120g glucosio/die mentre globuli rossi, cornea, cristallino, retina, midollare surrene, testicoli leucociti, fibre muscolari bianche ~ 40g glucosio/die. Il glucosio è coinvolto sia in processi catabolici come la Glicolisi che in processi anabolici come la sintesi di glicogeno.

È possibile ottenere glucosio per:

  • glicogenolisi: scissione del glicogeno (>nel fegato e nei muscoli);
  • gluconeogenesi: sintesi di glucosio a partire da precursori non saccaridici (nel fegato e nella corteccia surrenale).

Glicolisi

La glicolisi è una via metabolica universale mediante la quale una molecola di glucosio è ossidata a due molecole di piruvato con produzione di energia sotto forma di ATP e NADH. Per alcune cellule (globuli rossi, cellule del cervello) la glicolisi rappresenta la principale fonte di energia metabolica. La glicolisi consiste in 10 reazioni che hanno luogo nel citosol cellulare e nel corso della glicolisi si ha produzione di intermedi indispensabili per altri processi biochimici.

La glicolisi si divide in due fasi cioè la Fase preparativa in cui il glucosio viene fosforilato e scisso in due molecole di gliceraldeide-3-fosfato (in questa fase vengono utilizzate 2 molecole di ATP) e una Fase di recupero in cui le due molecole di gliceraldeide-3-fosfato vengono trasformate in due molecole di piruvato con produzione di 4 molecole di ATP.

La fase preparativa consuma 2 molecole di ATP. La fase di recupero produce 4 molecole ATP. Il rendimento netto è di 2 molecole di ATP per ogni molecola di glucosio ossidata a piruvato.

L’equazione complessiva dell’intera via è:

Glucosio + 2 NAD+ + 2 ADP + 2 Pi → 2 piruvato + 2 NADH + H+ + 2 ATP + 2 H2O

Il piruvato prodotto durante la glicolisi può andare incontro a tre diversi destini in funzione della presenza o meno dell’ossigeno. In presenza di ossigeno il piruvato entra nel ciclo dell’acido citrico (Ciclo di Krebs) dopo essere stato trasformato in acetil-CoA. In assenza di ossigeno il destino del piruvato è la fermentazione o Lattica o alcolica.

Fermentazione lattica

La fermentazione lattica consiste in una reazione di ossido-riduzione che avviene in un’unica tappa. L’acido piruvico proveniente dalla Glicolisi viene ridotto a lattato utilizzando gli equivalenti riducenti del NADH. Il NADH viene ossidato a NAD+.

Piruvato + NADH + H+ ⇆ lattato + NAD+.>

La reazione è catalizzata dall’enzima lattico deidrogenasi. In questo modo viene rigenerato il NAD+ necessario alla glicolisi. La fermentazione lattica ha luogo nel muscolo sotto sforzo ed in alcuni microrganismi.

Ciclo di Krebs

Il ciclo di Krebs, detto anche ciclo dell’acido citrico o ciclo dell’acido tricarbossilico, consiste in una serie di reazioni biochimiche di fondamentale importanza per il fabbisogno energetico cellulare. Infatti, in condizioni aerobiche, il piruvato ottenuto dalla Glicolisi viene completamente ossidato ad anidride carbonica ed acqua con produzione di una grande quantità di composti ad alto contenuto energetico.

L’inizio del destino aerobico del piruvato comporta la sua trasformazione in Acetil-S-CoA, un intermedio chiave di altri processi metabolici ad opera del complesso enzimatico della piruvato deodrogenasi. Nel mitocondrio il piruvato dopo la trasformazione in AcetilCoA entra nel ciclo dell’acido citrico (Krebs) dove viene ulteriormente ossidato.

1AcetilCoA +3NAD+ + FAD + GDP + Pi + 2H2O → 2CO2 + 3NADH + H+ + FADH2 + GTP+ CoA

È un ciclo perché l’ossalacetato, condensato con l’acetil-CoA nella prima reazione, viene rigenerato alla fine del ciclo e avviene nella matrice mitocondriale. Viene definito ciclo anfibolico, perché alcuni suoi intermedi partecipano ad altre vie sia cataboliche che anaboliche. il rendimento netto è di 30 molecole di ATP per molecola di glucosio.

Effetto Pasteur

Consiste nell’ inibizione della glicolisi che si verifica nelle cellule in condizioni aerobiche, in cui cioè è presente ossigeno. Pasteur, che studiava i mosti d’uva, i vini e le malattie dei vini, notò che il lievito Saccharomyces cerevisiae (il principale agente fermentante nelle produzioni enologiche) assumeva un comportamento particolare nel passaggio dalle condizioni anaerobiche a quelle aerobiche.

Questo passaggio determinava un rallentamento del catabolismo del glucosio. Il risultato consisteva in una minore produzione di etanolo (derivante appunto dalla fermentazione alcolica) a vantaggio di una maggiore biomassa (risultato di una più abbondante divisione cellulare). La spiegazione è da ricercarsi nel fatto che il metabolismo ossidativo è più energetico: la via catabolica percorsa è quella dei pentoso fosfati, con conseguente produzione di intermedi a 4, 5 e 6 atomi di carbonio che possono essere usati per reazioni anaboliche come quelle che interessano la moltiplicazione cellulare.

In pratica se viene rifornita una sufficiente quantità di ossigeno il lievito abbandona il suo metabolismo fermentativo per comportarsi come ogni altro fungo, moltiplicandosi molto attivamente.

ATP

L’adenosina trifosfato (o ATP) è un ribonucleoside trifosfato formato da una base azotata, cioè l’adenina, dal ribosio, che è uno zucchero pentoso, e da tre gruppi fosfato. È un composto ad alta energia ed è uno dei reagenti necessari per la sintesi dell’ RNA, ma soprattutto è la “benzina” che fornisce l’energia necessaria alla cellula per compiere le sue principali attività e quindi anche per sopravvivere. Esso viene idrolizzato ad ADP (adenosinfosfato), che viene riconvertito in ATP mediante vari processi.

L’ATP viene prodotto secondo la reazione endoergonica:

ADP + Pi + E => ATP

Note[+]

Note
↑1 Enciclopedia Treccani, edizione 2007
↑2 http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/medicine/laureates/1931/warburg-lecture.pdf
↑3 Warburg O (1956) Science 124:269–270
↑4 Garber 2006
↑5 Koppenol, W. H., Bounds, P. L., & Dang, C. V. (2011). Otto Warburg’s contributions to current concepts of cancer metabolism. Nat Rev Cancer 11, 325–337
↑6 Upadhyay M et al. The Warburg effect: Insights from the past decade. Pharmacology & Therapeutics 137 (2013) 318–330
↑7 Pedersen PL. Warburg, me and Hexokinase 2: Multiple discoveries of key molecular events underlying one of cancers’ most common phenotypes, the “Warburg Effect”, i.e., elevated glycolysis in the presence of oxygen. J Bioenerg Biomembr (2007) 39:211–222
↑8 Yang W, Zheng Y, Xia Y, Ji H, Chen X, Guo F, Lyssiotis CA, Aldape K, Cantley LC, Lu Z. ERK 1/2-dependent phosphorylation and nuclear translocation of PKM2 promotes the Warburg effect
↑9 ”Epifenomeno Termine filosofico coniato in ambiente positivistico per designare la coscienza quale fenomeno accessorio o secondario, la presenza o l’assenza del quale non inciderebbe sulla esplicazione dei fenomeni essenziali”(da Treccani.it).
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Lo Yoga è ‘sicuro’?

30 Luglio 2014 di Marco Invernizzi


Che lo Yoga sia una pratica in netta espansione non vi è alcun dubbio. Basti vedere il grafico più sotto sul numero di praticanti negli Stati Uniti per capire la dinamica del fenomeno e il trend di crescita costante registrato negli ultimi 20 anni. E, se questo non bastasse, l’enorme proliferare di stili diversi, insegnanti e centri più o meno pubblicizzati ad ogni angolo di strada, testimonia una domanda sempre più crescente verso questo tipo di disciplina. Tuttavia, proprio per la presenza da una parte di un’estrema varietà di stili, interpretazioni, commistioni con altre discipline e dall’altra l’assenza di enti regolatori, albi, scuole e/o federazioni, definire il termine Yoga diventa a mio parere ogni giorno sempre più difficile.

E infatti di preciso che cos’è lo Yoga? È una disciplina? È un tipo di ginnastica? Appartiene a quelle attività che si “fanno” o invece si “pratica”?

Forse la definizione che più si avvicina alla realtà è che lo Yoga è una Filosofia in cui la componente psicofisica è il principale strumento di indagine, profondamente radicata nella Tradizione Indiana, ma le cui origini cronologiche non sono chiaramente individuabili e già questo dovrebbe dirla lunga sulla sua vastità e complessità.

Tuttavia, in questo articolo non voglio addentrarmi in un discorso filosofico complesso ed estremamente profondo, su cui esistono testi sacri classici indiani millenari, tomi e tomi di letteratura interpretativa e, non ultimo, moltissime persone infinitamente più qualificate di me nel trattare tali argomenti.

Invece è a mio parere interessante un inquadramento dello Yoga dal punto di vista medico. Infatti una delle prime perplessità da parte di pazienti e non, con cui mi scontro quasi quotidianamente è la seguente: “Ma è sicuro? Non mi farà male? Non mi romperò qualche articolazione? Oddio non riesco neanche a toccarmi i piedi, come potrò mai fare quelle posizioni da contorsionista?”

A queste domande, che spesso sorgono per una pubblicizzazione esagerata degli aspetti più fisici e “contorsionistici” dello Yoga a discapito – ahimè – di quelli più profondi, rispondo principalmente in due modi: in primis condividendo la mia esperienza personale, dove, partendo anch’io da una rigidità fisica notevole, data da anni di attività sportiva molto intensa, nello yoga ho trovato un utilissimo strumento per migliorare l’elasticità muscolare e articolare, prevenendo, se non quasi azzerando, il rischio di infortuni e addirittura andando a correggere una serie di problematiche croniche muscolo-scheletriche che ormai avevo accettato come irreversibili (d’altronde come si dice il ciabattino ha sempre le scarpe rotte…).

In secondo luogo, rispondo con i risultati di una review effettuata nell’ambito della letteratura medica scientifica su quali siano le reali incidenze di eventi avversi associati alla pratica dello Yoga.1Cramer H, Krucoff C, Dobos G (2013) Adverse Events Associated with Yoga: A Systematic Review of Published Case Reports and Case Series. PLoS ONE 8(10): e75515. doi:10.1371/journal.pone.0075515 E qui, come accaduto già per altri argomenti come l’agopuntura o il Tai Chi, ho trovato una letteratura sorprendentemente vasta che dimostra l’efficacia dello Yoga nella cura o nella prevenzione delle patologie più disparate.

Il primo dato, espresso nel grafico qui sotto e già citato in precedenza, è il numero esorbitante di praticanti negli Stati Uniti, circa 15 milioni di persone e, dato secondo me ancora più interessante che a ben 14 milioni di americani (6% della popolazione) è stato suggerito di iniziare a praticare Yoga proprio dal loro medico in relazione ad una problematica specifica di salute.

Grafico 1.001

Purtroppo a causa della eterogeneità di stili e di formazione degli istruttori non esistono dei registri ufficiali e le statistiche presenti in letteratura sugli infortuni legati alla pratica sono perlopiù aneddottici, quindi, per definizione, scarsamente scientifici. Tuttavia questo lavoro effettua un interessante riassunto di tutto lo scibile scientifico sull’argomento e i dati emersi sono comunque interessanti e di spunto per molte riflessioni.

In totale la letteratura medica aggiornata al 2013 registra 76 rapporti aneddottici di eventi avversi associati allo yoga, la stragrande maggioranza dei quali a carico dell’apparato muscolo-scheletrico. Più di metà dei casi sono andati incontro a completa guarigione, uno non si è risolto e addirittura è riportato anche un caso di decesso.

Gli studi più sistematizzati citati nella review riguardano popolazioni che praticano principalmente lo stile Vinyasa che, come sottolineano gli autori, è caratterizzato da un elevata accentuazione dell’aspetto atletico. Tra quelli più rilevanti vi è uno studio Australiano condotto su oltre 2500 praticanti di Yoga che ha indicato come l’80% non abbia mai riportato alcun danno dalla pratica e i restanti danni di lieve entità che si sono risolti in breve tempo senza necessità di alcuna cura 2Penman S, Cohen M, Stevens P, Jackson S (2012) Yoga in Australia: Results of a national survey. Int J Yoga 5: 92–101.

Un altro studio, condotto invece nel Nord America, giungeva a conclusioni simili, di cui di seguito un breve estratto a mio parere molto significativo:

A survey in more than 1300 mainly North American yoga teachers and therapists found that respondents considered injuries of the spine, shoulders, or joints the most common; many respondents regarded yoga as generally safe and associated adverse events with excessive effort, inadequate teacher training, and unknown medical preconditions. 3Penman S, Cohen M, Stevens P, Jackson S (2012) Yoga in Australia: Results of a national survey. Int J Yoga 5: 92–101

Una indagine in più di 1300 insegnanti di Yoga Nordamericani hanno considerato gli infortuni alla schiena, spalle e articolazioni in genere come le più comuni; molti intervistati hanno definito lo Yoga come una pratica generalmente sicura associando l’insorgenza di effetti collaterali a sforzi eccessivi, inadeguata preparazione dell’insegnante e scarsa considerazione di patologie mediche preesistenti.

Ora, per quanto sia poco simpatico scherzare su un argomento serio come un decesso, tuttavia mi sembra doveroso specificare (come fatto peraltro dagli autori stessi) che l’unica “casualità” yogica parrebbe essere riconducibile ad una non meglio specificata pratica descritta come “voluntary mouth-to-mouth Yoga breathing exercises” (letteralmente esercizi di respirazione Yoga volontaria bocca a bocca), peraltro non documentato come effettiva pratica yogica. Inoltre, un esame tossicologico post-mortem aveva rivelato un quantitativo notevole di barbiturici nel sangue, che sicuramente hanno concorso se non addirittura causato, il decesso dello sfortunato soggetto (caso peraltro occorso nella fine degli anni ’60, in piena epoca hippy).4Corrigan GE (1969) Fatal air embolism after Yoga breathing exercises. JAMA 210: 1923

Non così grave ma comunque significativo è un altro caso di neuropatia indotta da addormentamento indotto da oppiacei e antidepressivi in posizione a gambe incrociate5Walker M, Meekins G, Hu SC (2005) Yoga neuropathy. A snoozer. Neurologist 11: 176–178. Anche qui, come sottolineano gli autori, siccome lo yoga necessita di consapevolezza e concentrazione, è altamente sconsigliato di praticare sotto effetto di alcool o droghe ricreative.

Visto quindi che gli infortuni più gravi sono riconducibili ad altre cause più che allo Yoga in sé, risulta invece molto più interessante a mio parere la parte riguardante gli infortuni più “comuni” e anche “reversibili”. Ne emergono degli elementi che dovrebbero far riflettere sia i praticanti ma soprattutto gli istruttori di Yoga.

Infatti uno dei primi dati è come la maggior parte degli infortuni sia stata riportata a livello aneddottico negli insegnanti. Ciò pare un controsenso in quanto l’esperienza dovrebbe portarli ad evitare di infortunarsi o comunque a farlo meno rispetto ai loro allievi, anche se rispetto a quest’ultimi – almeno è auspicabile – praticano più a lungo.

Secondo, le posture più associate agli eventi avversi sono tutte posizioni considerate già “avanzate” e non praticabili da principianti o persone con problematiche mediche specifiche, come la posizione sulla testa, il loto e alcune posizioni capovolte.

So-called inversions like headstand and shoulder stand are often regarded as a special category of yoga postures that should be practiced only by experienced practitioners, with extreme care. 6Cramer H, Krucoff C, Dobos G (2013) Adverse Events Associated with Yoga: A Systematic Review of Published Case Reports and Case Series. PLoS ONE 8(10): e75515. doi:10.1371/journal.pone.0075515

Le cosiddette inversioni, come la posizione sulla testa sono spesso considerate come una categoria a parte di posizioni yoga che dovrebbero essere praticate solo da praticanti esperti e con estrema cura

Ad esempio, la posizione sulla testa può portare ad un aumento della pressione intraoculare, che comunque ritorna immediatamente a valori di normalità dopo l’uscita dalla posizione e non sono stati registrati casi di patologie croniche a carico dell’occhio date dalla pratica prolungata di tale posizione. Quindi non si vuole scoraggiare la pratica di tali posizioni, ma sensibilizzare sul fatto che bisogna approcciarvisi con una certa consapevolezza, dopo l’aver maturato una discreta esperienza di pratica e soprattutto sotto la guida esperta di un insegnante che sappia bene riconoscere quali sono i limiti dell’allievo.

Da ultimo, molti degli infortuni reversibili riportati in letteratura sono descritti in seguito alla pratica del Bikram Yoga. Per chi non lo conosce, si tratta di uno stile moderno molto fisico che si pratica in stanze riscaldate a 40° e col 40% di umidità. La pratica è molto intensa dal punto di vista fisico e stimola una certa competizione tra i praticanti. Questi elementi, uniti alla temperatura che permette una maggiore facilità di allungamento muscolare oltre alle normali possibilità, può ridurre la capacità di avvertire il proprio limite da parte dell’allievo, aumentando di conseguenza il rischio di infortuni muscolari e/o articolari. Inoltre, sempre legati a questa tecnica, sono stati registrati iponatremia da sudorazione eccessiva che, essendo una prerogativa di soltanto questo stile, non può essere generalizzato allo Yoga.

Concludendo, da questa review emerge che sul numero enorme di praticanti nel mondo l’incidenza di eventi avversi seri è talmente esigua da rendere lo Yoga una pratica sicura. Tuttavia, le certezze sono molto poche a questo mondo e quindi ogni pratica fisica e psicofisica non può dirsi sicura al 100%, anche se i punti emersi in tutto l’articolo dovrebbero far riflettere anche il lettore meno preparato (e forse anche il più prevenuto…) su come alla base degli infortuni vi siano una serie di fattori che esulano dallo Yoga in sé, ma riconducibili a mio parere a quel “buon senso” che dovrebbe essere applicato a prescindere per qualunque attività che si voglia intraprendere.

Infatti la pratica di tecniche avanzate senza adeguata preparazione, l’affidarsi ad istruttori non capaci, l’uso di farmaci o droghe sono, a mio parere, delle bombe a orologeria poste alle fondamenta di qualunque pratica fisica o psicocorporea e non soltanto allo Yoga.

Da ultimo, proprio alla luce di queste considerazioni, sarebbe auspicabile anche un maggiore interesse verso lo Yoga da parte del mondo medico italiano (prendendo esempio dai colleghi americani), visti i numerosi benefici dimostrati in svariate patologie. Magari non limitandosi solo ad una passiva accettazione di efficacia ma cercando di indagare il perché provochi una serie di effetti benefici a diversi livelli (fisico, emotivi e psicologico), da sempre considerati tra loro separati ma forse in realtà più legati di quello che sembra.

In conclusione, una domanda lecita da porsi è: “Sto facendo veramente Yoga?”. Ma la risposta a questa domanda implica considerazioni che esulano dallo scopo di questo articolo e che vorremmo approfondire separatamente. Ad esempio: qual è la vera natura delle posture fisiche nello Yoga? Qual è il loro scopo? Se non siamo in grado di percepire la differenza rispetto alle comuni attività fisiche ‘ludico motorie’, allora forse la risposta alla prima domanda è negativa. E, se siamo davvero interessati a qualcosa che ci faccia entrare in un rapporto differente con il nostro corpo – con notevole beneficio anche per la nostra eventuale attività sportiva e per il nostro benessere complessivo – forse è il caso di cercare oltre.

Note[+]

Note
↑1, ↑6 Cramer H, Krucoff C, Dobos G (2013) Adverse Events Associated with Yoga: A Systematic Review of Published Case Reports and Case Series. PLoS ONE 8(10): e75515. doi:10.1371/journal.pone.0075515
↑2, ↑3 Penman S, Cohen M, Stevens P, Jackson S (2012) Yoga in Australia: Results of a national survey. Int J Yoga 5: 92–101
↑4 Corrigan GE (1969) Fatal air embolism after Yoga breathing exercises. JAMA 210: 1923
↑5 Walker M, Meekins G, Hu SC (2005) Yoga neuropathy. A snoozer. Neurologist 11: 176–178
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