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Zénon | Yoga e Qi Gong

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tai chi chuan

“Yoga” e i cani neri di Carrère

17 Gennaio 2022 Francesco Vignotto

“È possibile meditare quando senti un groppo d’ansia sotto il plesso solare, hai nei polmoni due pacchetti di sigarette fumati smaniosamente ogni giorno e la coscienza attraversata da un flusso ininterrotto di pensieri tossici: rimpianto, rimorsi, rancore, ansia da abbandono? Quando non trovi rifugio da nessuna parte e sei in balìa di quel che di peggio c’è dentro di te?” Alcune riflessioni sull’ultimo libro di Emmanuel Carrère, che da outsider depone una pietra tombale sul mito del benessere New Age, in cambio di un salutare bagno di realtà.

Confesso che ho esitato qualche mese a leggere Yoga di Carrère perché tendo a diffidare dell’hype, un po’ per spocchia, un po’ per un crescente bisogno di argomenti ‘inattuali’, visto che abbiamo imparato quanto l’attualità può essere tossica, volgare e lontana dal cuore della realtà (un po’ come l’inevitabile rumore attorno alle battaglie legali tra Carrère e la ex moglie, che ha fatto purgare dal romanzo tutte le parti che la riguardano).

Confesso anche che non avevo mai letto nulla di Carrère fino a qualche settimana fa, sebbene da tempo fossi attratto già da alcuni suoi titoli precedenti. Preferivo però non cominciare dall’ultimo proprio perché riguarda un tema in cui sono fin troppo implicato, conoscendone le beghe, per godermi appieno la lettura.

Così, quando ho ricevuto in regalo Io sono vivo, voi siete morti, la biografia di Philip K. Dick che proprio Emmanuel Carrère scrisse negli anni Novanta, e avendola letta con molto piacere (sono un appassionato di Dick), non avevo più scuse per evitare la lettura del suo lavoro più recente. Con sorpresa, ma neppure troppa, ho constatato che tra i due libri vi è più di un punto in contatto: entrambi formulano importanti questioni sulla vita, sulla natura ultima del reale e sulla possibilità di conoscerla, e in entrambi questi stessi temi costeggiano l’abisso del disturbo psichico.

Dal canto suo, Yoga racconta come non ci sia nulla che preservi dalla buia notte dell’anima, nemmeno quando, come all’inizio del libro, sembra che per l’autore la vita si sia stabilizzata una volta per tutte sul versante più comodo. È proprio in quel momento che nasce l’idea di scrivere “un libretto arguto e accattivante” sullo yoga che avrebbe trovato posto nei già affollati scaffali delle librerie dedicati all’auto-aiuto e alla crescita personale. Tuttavia Carrère conosceva già fin dai tempi di Io sono vivo la saggezza dell’I Ching basata sull’alternanza degli opposti, e le sue stesse parole di allora suonano come un ambiguo avvertimento che

ogni momento è un passaggio, che l’apogeo è l’inizio del declino e la sconfitta preannuncia la vittoria futura. A chi brancola nelle tenebre [l’I Ching] insegna che presto tornerà la luce, a chi esulta sotto il sole di mezzogiorno che sta già cominciando il crepuscolo, al saggio l’abile arte di lasciarsi portare dal corso delle cose come una barca vuota si abbandona alla corrente del fiume.

Per Carrère la notte cala con la fine del matrimonio, e la barca vuota che si era convinto di essere si rivela piena di demoni. La crisi sfocia in un ricovero in psichiatria durante il quale sarà sottoposto a terapia elettroconvulsivante. La diagnosi è sindrome bipolare.

La situazione sembrerebbe essere sfuggita molto lontano dallo yoga, qualcuno potrebbe obiettare (ma poi: perché?). Eppure tra le tante definizioni provvisorie di meditazione che costellano il libro, la più assoluta arriva non nella prima parte, che precede il disastro, seduto sullo zafu durante il purgatoriale seminario di Vipassana, ma nella seconda parte, di fronte a tutto l’orrore per sé stessi che non si può spiegare, per bocca di un anziano psicanalista, ex gesuita ed ex lacaniano, trasformatosi suo malgrado in maestro Zen:

Quello che sta vivendo e orribile: bene. Lo viva. Vi aderisca. Sia quell’orrore. Se deve morirne, ne morirà. Non cerchi né ragioni né mezzi per uscirne. Non faccia niente, lasci perdere: solo cosi può verificarsi un cambiamento.

Non funzionerà, si affretta a precisare Carrère. Ma nessuno aveva detto che doveva funzionare. O meglio: sperare che funzioni è ancora parte del problema.

La mosca al naso

Yoga non segue il copione consolidato della celebrità che ha sconfitto la depressione o ha smesso di picchiare la moglie grazie alla meditazione; lo yoga non è qui una spugna magica, né Carrère ha la pretesa di essere qualcosa più di un meditante della domenica, ma proprio per questo ne guadagna in credibilità oltre che tensione drammatica: abbiamo già troppi scrittori-attori-cantanti che si riciclano nel settore benessere come maestri di vita, la cui placida anima non è mai increspata nemmeno da un peto. (Sperando di non essere contraddetti in futuro dai fatti, almeno in questo libro Carrére rimane lo scrittore che un po’ si pente di non essersi portato, trasgredendo le regole, il taccuino al seminario intensivo di Vipassana: nonostante tutti gli sforzi per convincersi del contrario, è lì per un reportage).

Emmanuel Carrère

Yoga ha fatto saltare la mosca al naso a parecchi praticanti attirati dal titolo, e quello appena esposto potrebbe essere un motivo: non è una storia esemplare. Non è il “libretto arguto e accattivante” che lo stesso autore si era inizialmente proposto di scrivere e che chi pratica yoga vorrebbe leggere. Che alla fine si sia comunque intitolato Yoga lo rende quasi un koan, tanto che la vera motivazione che spinge a terminare il libro è proprio scoprire perché Yoga sia stato scritto lo stesso; che è forse, meravigliosamente, lo stesso motivo per cui si pratica yoga nonostante la vita si guardi bene da somigliare alle agiografie dei santi.

Un altro elemento di disappunto per gli appassionati è la disinvoltura con cui Carrère utilizza la parola Yoga come macro-contenitore per riferirsi non solo alla pratica corporea – di cui parla in realtà poco – ma soprattutto alla meditazione e al Tai Chi. Il nostro autore non va nemmeno troppo per il sottile coi riferimenti letterari, che, va bene, sono abbastanza prevedibili per chi mastichi appena un po’ della materia: con tutte le mattine trascorse al Cafè dell’Église a leggere Patanjali (“Quanto me la tiravo”), Carrère non spreme molto più di un sunto da quarta di copertina; il Bardo va sempre bene, sia che si viaggi con l’LSD, sia che si tenti il suicidio, sia che si partecipi a un seminario intensivo in cui ai partecipanti è vietato parlare e a condurre è una voce preregistrata; la mania per yin e yang e per le infinite elencazioni di opposti sembra a volte più un fuoco d’artificio per impressionare l’altro sesso e i giornalisti inesperti, non fosse che l’alternanza di opposti è tragicamente connessa proprio al suo disturbo mentale. Ma sebbene Carrère non sia Calasso, il suo essere e rimanere scrittore di mondo lo tiene quasi sempre lontano da fole New Age, e anche quando le sfiora (lo yoga molecolare) le elabora poeticamente.

Con quelle due-tre nozioni che potrebbero essere già logore da un pezzo, anzi, Carrère si mette a scavare, in un corpo a corpo con i vortici della mente, sondando gli animi e le motivazioni profonde senza sconti (William Hurt che vuole essere una persona migliore per essere un attore migliore, i volontari sull’isola di Leros che affogano i loro cuori infranti nell’altruismo) e portando alla luce intuizioni notevoli proprio quando disinvolte.

Tra il dottor Yang, da un lato, che invita ad andare cauti con la meditazione, per non svegliare le potentissime energie che può mettere in moto (“Ci metteva in guardia contro questi rischi che non mi pare di avere mai corso, o se è successo non me ne sono reso conto, o ancora, più probabilmente, non ho mai raggiunto né mai raggiungerò il livello a partire dal quale cominciano a presentarsi”); e il maestro di Iyengar yoga secondo il quale occorrono dieci anni di preparazione ortopedica, di allineamento di bandha e chakra prima di poter essere degni di sedere sul cuscino; di fronte insomma a tutta questa erudizione che getterebbe nello sconforto il proverbiale millepiedi senza sapere più quale zampa muovere per prima, Carrére conclude, di testa sua e con invidiabile concretezza popolana, che meditazione è tutto ciò che succede quando ti siedi in silenzio, compresa la noia, i dolori, i pensieri parassiti. Compresa l’impressione che stai perdendo tempo con una cazzata pseudo-spirituale.

La prova della bellezza

Ram Dass

Ma c’è un altro motivo per voler bene a Carrère, ed è una piccola corazzata Potëmkim che ci ricollega (e non è l’unico caso per chi vuole leggere tra le righe) al tema dell’articolo precedente. Pur rifiutandosi di gettare via il bambino con l’acqua sporca (altro tema dickiano), il nostro non può mancare di rilevare che gran parte della sotto-cultura spirituale sia irrimediabilmente brutta. Da scrittore, è più che sfiorato dal dubbio che questa desertificazione della bellezza vorrà pur dire qualcosa. Imperdonabili – nel senso di Cristina Campo, ovvero perfette – sono le sue considerazioni di fronte ai partecipanti del seminario di Vipassana, che tra una sessione e l’altra, come da cliché, non riescono a resistere ad abbracciare gli alberi (la scena, con il balletto delle esitazioni che lo precede, è invero molto più comica di come la potrei descrivere). La visione genera un cortocircuito tra la lettura di alcuni saggi di Orwell e la visione di un documentario su Ram Dass; il confronto è impietoso:

Guardando il documentario, mi immaginavo quanto sarcasmo e perfino disgusto avrebbe suscitato in Orwell […] questo vecchio saccente, Ram Dass, tipico esemplare della tribù degli yogi-barbuti-vegetariani-indossatori di sandali che lui considerava non innocui babbei, ma imbecilli decisamente pericolosi. Ebbene, guardando questi ragazzi con le cuffie peruviane che abbraciano gli alberi, mi chiedo anche: come mai gli accenti di verità, il peso dell’esperienza e persino il godimento estetico sono con tanta evidenza dalla parte di Orwell e non da quella di Ram Dass né di nessuna delle autoproclamatesi guide spirituali che recitano i loro sempiterni discorsi sull’espansione della coscienza, sul potere del qui e ora e sulla pace interiore? Perché i loro pensieri mancano a tal punto di gravitas? Perché nessuno di loro supera la prova della bellezza? Perché i loro libri dalle copertine rosa o azzurre, che in ogni libreria new age balzano agli occhi come l’incenso alle narici, sono cosi brutti, cosi stupidi?

“Penso per esempio che ci sia un grado di verità maggiore in Dostoevskij che nel Dalai Lama” concluderà più tardi, altrettanto imperdonabilmente, quando abbandonerà il seminario, con uno strappo alla regola, a causa degli attentati a Charlie Hebdo, dove il suo amico Bernard perse la vita. Tra il cervello di quest’ultimo sparso sul linoleum della redazione e il “conclave di meditanti impegnati a frequentare ognuno le proprie narici e a masticare in silenzio bulgur con gomasio”, Carrère conclude che “una delle due esperienze sia, molto semplicemente, più vera dell’altra”.

Ma questo non è che uno dei tanti momenti dialettici di Yoga, tra le incurisioni del e nel mondo e l’aspirazione ad elevarsi al di sopra della sofferenza del mondo, che nella spiritualità di massa rischia spesso di trasformarsi in elusione solipsistica, clausura a gettone senza sacrificio, come gli ayurvedici svizzeri isolati in un’ala di un albergo dello Sri Lanka, in accappatoio bianco e cuffietta di plastica, che non interrompono nemmeno per un istante il loro seminario, mentre il resto della struttura si è trasformata in un centro di accoglienza per gli sfollati di uno tsunami.

Se lasciate che affiori in voi stessi

È confortante che il cielo non si apra solo ai santi, ai saggi, ai frequentatori abituali di zafu, ma anche a noialtri membri della famiglia splendida e miserevole dei nervosi, a noialtri aggrediti dai cani neri.

Nella foto più sopra, il sorriso descritto a pagina 269 della giovane Martha Argerich che, dopo essere quasi sparita a sinistra dell’inquadratura, riprende il tema principale della polacca Eroica di Chopin; è il sorriso che “viene al tempo stesso dall’infanzia e dalla musica” di chi ha visto il paradiso, anche solo per 5 secondi. Dalla biografia curata dalla figlia, emerge quanto Martha fosse stata una madre madre tossica e dispotica.

A giudicare dalla pila di copie disponibili in libreria, senza paragone con qualsiasi altro volume Adelphi, Yoga sta vendendo ancora molto a più di sei mesi dall’uscita (“Questo qui ci sta uscendo dalle orecchie” si lascia sfuggire la commessa mentre lo acquisto). Ne sono, in fondo, contento, perché è un libro che sa confluire nelle vene del mainstream senza rinunciare a incidere in profondità, ma soprattutto sa lasciare aperti gli orli di una ferita (come dovrebbe fare un romanzo), non utilizza lo yoga come tappeto per nascondere la polvere e proprio per questo, a modo suo, contribuisce a una riflessione più matura sul senso ultimo della pratica; e soprattutto è consapevole che il senso ultimo non sarà probabilmente annunciato mentre siamo seduti a meditare.

Certo è uno yoga, anche quello, mainstream, sui generis, o Iyengar o Ashtanga, uno yoga piramidale di grandi, inarrivabili maestri da piedistallo, e di milioni di pedoni che probabilmente perderanno sempre terreno nel cercare invano di bandire l’ombra dalla propria vita.

Il valore di Yoga è di avere la sincerità di guardare in faccia l’oscurità, ma anche la notevole intuizione – notevole proprio perché vi arriva a braccio, fosse anche strisciando, senza essere imboccato da alcuno – che quell’oscurità non può e non deve essere essere espunta: “A sinistra c’è l’Ombra ma c’è anche la gioia pura, e forse non può esserci gioia pura senza Ombra, e allora vale la pena di vivere con l’Ombra”.

Nel riprendere in mano il libro per scrivere questo articolo, mi accorgo della citazione del Vangelo di Tomaso in epigrafe di cui mi ero completamente dimenticato, ma che mi sembra essere il sigillo perfetto a queste riflessioni:

Se lasciate che affiori in voi stessi, ciò che avete vi salverà. Se in voi stessi non lo avete, ciò che in voi stessi non avete vi ucciderà.

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Tai Chi Chuan: esercizio fisico o pratica terapeutica?

20 Ottobre 2021 Marco Invernizzi

Il Tai Chi Chuan (o Tai ji Quan usando la traduzione degli ideogrammi cinesi con lo standard “pinyin”) è una pratica che nasce in Cina dall’incontro tra arti marziali e pratiche tradizionali per la salute e la longevità.

Non vi è chiarezza sulle sue origini che pare siano contenute nelle antichissime radici stesse della cultura cinese. Alcune leggende infatti fanno risalire la nascita di questa pratica al V° secolo e a Bodhidarma, il monaco buddista che dall’India si recò in Cina portando con sé l’insegnamento Buddista e fondando il monastero di Shaolin. Altre leggende lo fanno risalire al X° secolo ad opera dell’eremita taoista Zhang San Feng che viveva sul monte Wudan. Testimonianze invece concrete riguardo la sua codifica negli stili moderni risalgono al XVIII° secolo con lo stile della famiglia Chen, tra i principali stili presente a tutt’oggi e praticato.1Carlo Moiraghi, Tai Ji Quan, la forma breve e la forma lunga, Edizioni XX

Monaci sul Monte Huashan, una delle cinque montagne sacre taoiste, fotografati nel 1935.

Il Tai Ji Quan è un’antica disciplina che permette di armonizzare e di ottimizzare il proprio stato vitale ed il proprio flusso energetico attraverso l’uso combinato di movimenti lenti e armonici e un uso consapevole del respiro. Per questo motivo è parte fondamentale delle pratiche tradizionali cinesi della prevenzione e della longevità e, a buon titolo, fa parte in maniera integrante del corpus medico tradizionale cinese.

Oltre all’aspetto salutistico-preventivo, il Tai Ji Quan contiene anche un aspetto marziale e in esso sono contenute e fuse insieme le complesse e multiformi radici culturali da cui nasce la cultura cinese e il suo corpus medico, cioè Buddhismo, Confucianesimo e Taoismo. Le sue più evidenti diversità rispetto ad altre arti marziali sono costituite dal ruolo centrale assegnato ad azioni difensive basate sulla cedevolezza, e dall’impiego nei confronti dell’avversario della elasticità del corpo invece che della forza.2Carlo Moiraghi, Tai Ji Quan, la forma breve e la forma lunga, Edizioni XX

Da alcuni anni è andato crescendo l’interesse della medicina occidentale verso questa pratica, intuendone il potenziale benefico in numerose patologie. Infatti diversi studi hanno evidenziato come il Tai Chi Chuan possa portare a significativi miglioramenti o comunque a dei benefici nelle patologie più disparate, dall’osteoporosi, ad alcune malattie neurologiche, fino a patologie cardiovascolari e polmonari croniche.3Leung RW, McKeough ZJ, Alison JA. Tai Chi as a form of exercise training in people with chronic obstructive pulmonary disease. Expert Rev Respir Med. 2013 Dec;7(6):587-92

Questo perché? Il mondo scientifico occidentale, e in particolare l’OMS, nel tentativo di catalogare tutto ciò che è considerabile come tecnica terapeutica ma “alternativa” alla medicina occidentale basata sulle evidenze, ha introdotto una complessa categorizzazione di cui fa parte anche la medicina tradizionale cinese e quindi il Tai Chi, definito come tecnica “psico-corporea”.4NCCAM, National Center for Complementary and Alternative Medicine
World Health Organization 2000: General guidelines for methodologies on research and evaluation of traditional medicine, Geneva, WHO, 2000.

Il Tai Chi Chuan appartiente a tale categoria proprio perché a differenza di una attività fisica generica non si focalizza soltanto sull’attività muscolare finalizzata al movimento, ma anche su altri aspetti come la respirazione, il mantenimento di una postura corretta, l’equilibrio, l’eliminazione di rigidità fisiche e di tensioni mentali, il tutto finalizzato a generare un’armonia tra corpo e mente, giustificando quindi appunto la definizione di tecnica psico-corporea.

Pratica del Tai Chi Chuan con pazienti affetti dal morbo di Parkinson

Recentemente è stata pubblicata una ricerca sulla rivista New England Journal of Medicine,5Li F, Fisher KJ, Harmer P, Irbe D, Tearse RG, Weimer C. Tai Chi and self-rated quality of sleep and daytime sleepiness in older adults: a randomized controlled trial. J Am Geriatr Soc 2004;52:892-900 una delle più autorevoli dal punto di vista scientifico per quanto riguarda la medicina occidentale basata sulle evidenze.

Questo studio randomizzato controllato, svolto dall’Oregon Reasearch Institute e finanziato dal fondo di ricerca nazionale statunitense (NIH), aveva come obiettivo il determinare se un programma di Tai Chi potesse migliorare il controllo posturale in pazienti affetti da Morbo di Parkinson.

Il razionale di questo studio si basa sul fatto che alcuni lavori in passato hanno già dimostrato come l’esercizio fisico possa rallentare il deterioramento delle funzioni motorie e prolungare il periodo di indipendenza nei parkinsoniani.6Li F, Harmer P, Glasgow R, et al. Translation of an effective Tai Chi inter- vention into a community-based falls- prevention program. Am J Public Health 2008;98:1195-8 Tuttavia la ricerca è sempre più focalizzata a cercare approcci a metodiche di esercizio alternativo che possano apportare benefici anche in ambito non unicamente motorio.
Per questo i 195 pazienti arruolati in questo studio sono stati suddivisi in maniera casuale in tre gruppi: uno in cui veniva praticato solamente il Tai chi, un secondo in cui veniva svolto un classico programma di esercizi contro resistenza come da linee guida e un terzo gruppo in cui si praticava unicamente stretching. I pazienti di ciascun gruppo eseguivano quindi 2 sessioni di allenamento settimanali della durata di un ora per un totale di 24 settimane.

I risultati di questo studio sono stati sicuramente interessanti, in quanto il gruppo di pazienti trattati con Tai Chi ha dimostrato un miglioramento rispetto agli altri due gruppi statisticamente significativo dell’equilibrio accompagnato da un aumento dell’ampiezza del passo, della velocità del cammino, e conseguentemente una riduzione significativa del numero di cadute.

Quindi il Tai Chi sarebbe in grado di sovvertire i meccanismi che determinano i deficit di movimento e di coordinazione nei pazienti Parkinsoniani producendo contemporaneamente un aumento dell’equilibrio e da ultimo un miglioramento netto nell’espletare le attività del vivere quotidiano.

Secondo gli autori tutto ciò sarebbe ascrivibile a diverse caratteristiche della pratica del Tai Chi ed in particolare alla forma specificamente utilizzata in questo studio che è descritta nell’appendice all’articolo.7Li F, Fisher KJ, Harmer P, Irbe D, Tearse RG, Weimer C. Tai Chi and self-rated quality of sleep and daytime sleepiness in older adults: a randomized controlled trial. J Am Geriatr Soc 2004;52:892-900

Infatti in generale i movimenti del Tai Chi stressano lo spostamento del peso e il movimento delle caviglie mantenendo il centro di gravità dell’individuo ai limiti della stabilità, alternando tra posizioni con i piedi a distanze molto diverse per cambiare continuamente la base di supporto.

Inoltre anche a livello muscolare gli arti inferiori sono molto sollecitati (e quindi allenati) sia per il tempo in cui devono mantenere la posizione, sia in quello in cui devono muoversi. Inoltre un ruolo importante è svolto anche dal controllo del tronco che viene sottoposto a numerose rotazioni con contemporaneo mantenimento della corretta postura della parte superiore del corpo. Tutti questi meccanismi insieme sicuramente concorrono ai miglioramenti ottenuti da questi pazienti per quanto riguarda l’equilibrio e la velocità del cammino.

Un altro dato molto interessante riguarda la diminuzione del numero di cadute statisticamente significativa nei pazienti trattati con Tai Chi rispetto agli altri due gruppi. Questo dato sicuramente è una conseguenza diretta dei miglioramenti ottenuti da questi pazienti relativamente a cammino ed equilibrio.

Tuttavia un altro dato su cui gli autori di questo studio non si sono soffermati – ma che sicuramente ha una rilevanza notevole – è che il rischio di caduta, nella popolazione anziana in genere, ma soprattutto nei parkinsoniani,8Invernizzi M, Carda S, Viscontini GS, Cisari C. Osteoporosis in Parkinson’s disease. Parkinsonism Relat Disord. 2009 Jun;15(5):339-46 è direttamente correlata con il rischio di frattura di femore da “fragilità”.9Rosen C. Primer on on the Metabolic Bone Diseases and Disorders of Mineral Metabolism, Eighth Edition 2013
Stalenhoef PA, Diederiks JMP, Knottnerus JA, Crebolder HFJM. A risk model for the prediction of recurrent falls in community-dwelling elderly: a prospective cohort study. J Clin Epidemiol 2002;55:1088–94
Dargent-Molina P, Favier F, Grandjean H, Baudoin C, Schott AM, Hausherr E, et al. Fall-related factors and risk of hip fracture: the EPIDOS prospective study. Lancet 1996;348(9021):145–9
Fink HA, Kuskowski MA, Orwoll ES, Cauley JA, Ensrud KE. Osteoporotic frac- tures in men (MrOS) study group. Association between Parkinson’s disease and low bone density and falls in older men: the osteoporotic fractures in men study. J Am Geriatr Soc 2005;53:1559–64
Taylor BC, Schreiner PJ, Stone KL, Fink HA, Cummings SR, Nevitt MC, et al. Long-term prediction of incident hip fracture risk in elderly white women: study of osteoporotic fractures. J Am Geriatr Soc 2004;52:1479–86
Kanis JA, Odén A, McCloskey EV, Johansson H, Wahl DA, Cooper C; IOF Working Group on Epidemiology and Quality of Life. A systematic review of hip fracture incidence and probability of fracture worldwide. Osteoporos Int. 2012 Sep;23(9):2239-56
Hernlund E, Svedbom A, Ivergard M, Compston J, Cooper C, Stenmark J, McCloskey EV, Jonsson B, Kanis JA. Osteoporosis in the European Union: medical management, epidemiology and economic burden. A report prepared in collaboration with the International Osteoporosis Foundation (IOF) and the European Federation of Pharmaceutical Industry Associations (EFPIA). Arch Osteoporos. 2013 Dec;8(1-2):136
Tale evento si differenzia dalle fratture traumatiche di femore perché avviene in condizioni in cui normalmente non dovrebbe verificarsi come ad esempio una caduta dalla propria altezza.

Breve animazione di alcuni movimenti di Tai Chi

I meccanismi alla base di tale “fragilità” sono da ascriversi a modificazioni quantitativo-qualitative dell’osso e della muscolatura prossimale dell’anca in grado di mantenere la stazione eretta e prevenire appunto le cadute.Tale infausto evento infatti ha dei risvolti devastanti in termini sia di mortalità (il 20% dei pazienti fratturati di femore muore ad un anno indipendentemente dall’età), che di recupero, infatti meno della metà dei pazienti ritorna a valori di indipendenza sovrapponibili al pre-frattura.10Kanis JA, Odén A, McCloskey EV, Johansson H, Wahl DA, Cooper C; IOF Working Group on Epidemiology and Quality of Life. A systematic review of hip fracture incidence and probability of fracture worldwide. Osteoporos Int. 2012 Sep;23(9):2239-56

Inoltre i costi sia sanitari che sociali, diretti e indiretti, sono altissimi: basti pensare che in Italia ogni anno si registrano circa 100mila fratture di femore da fragilità all’anno; infine, considerando il progressivo invecchiamento della popolazione, si stima che entro il 2050 tale problematica sarà un vero cataclisma per i sistemi socio-sanitari dei paesi occidentali.11Reginster JY. Bone 2006;38:S4-S9
WHO Scientific Group. WHO Technical Report Series: 921,2003:1
Wen CP, Wai JP, Tsai MK, et al. Minimum amount of physical activity for reduced mortality and extended life expectancy: a prospective cohort study. Lancet 2011; 378:1244

In conclusione quindi ormai da anni è assodato che l’esercizio fisico, eseguito anche soltanto per pochi minuti al giorno, è capace di determinare effetti positivi su svariati aspetti della salute in soggetti di qualunque età, persino over 80 anni.12Liu T, Lao L. Tai Chi for Patients with Parkinson’s Disease. COrrespondence. New Eng J Med 2012 3 May 366;18 Partendo da questo assunto, i risultati di questo studio pongono sicuramente una pietra miliare per quanto riguarda l’utilizzo a fini terapeutici del Tai Chi.

Tuttavia, nonostante gli autori vedano e sottolineino le potenzialità per un utilizzo non solo limitato al Parkinson ma in ambito più ampio alla Neuroriabilitazione, non si sbilanciano sugli effetti terapeutici del Tai Chi e dichiarano la necessità di investigare più in dettaglio i meccanismi alla base di tali risultati, non ancora del tutto compresi.

In realtà una considerazione che nasce spontanea leggendo questo articolo e i suoi risultati, anche in un non addetto ai lavori, è come il Tai Chi esprima un qualcosa “di più” in termini di efficacia rispetto al classico esercizio fisico. Tuttavia che cosa determini questo valore aggiunto non emerge in maniera così immediata e le spiegazioni meccanicistiche fornite dagli autori, per loro stessa ammissione, sono incomplete e non esaustive.

Tuttavia a mio parere questo valore aggiunto è da ricercare nelle radici stesse di questa pratica. Infatti già l’essere stata definita tecnica psico-corporea la rende sta a significare che ne è stata intuita una natura più profonda e complessa rispetto ad una qualunque tecnica di esercizio fisico. Tuttavia per comprendere meglio questa problematica è interessante citare un commento che è stato pubblicato a seguito di questo articolo:

Tai chi is definitely more than a mere set of body movements. At the core of tai chi is a unique theory based on ancient Chinese culture about the value of moving vital energy, or qi, throughout the body. Tai chi can hardly be practiced in the absence of its cultural underpinnings.
(In definitiva il Tai Chi è molto di più di una mera serie di movimenti corporei. Alla base del Tai Chi vi è una unica teoria, basata sull’antica cultura Cinese, riguardo l’importanza di muovere l’energia vitale, altrimenti detta qi, attraverso il corpo. Difficilmente si potrà praticare il Tai Chi in assenza delle sue radici culturali.)

Quindi per comprendere, o almeno cercare in parte di farlo, questa disciplina è necessario considerare le profonde radici filosofico-culturali su cui essa poggia, pena una svalutazione di tale pratica e una conseguente riduzione della sua efficacia.

Come abbiamo già accennato esse si rifanno ad una visione dell’essere umano complessa, che attinge a più tradizioni, in cui tuttavia convivono dei principi basilari e condivisi. Tra questi vi è la visione tripartita dell’uomo come un’unità indissolubile di corpo mente e spirito, che la pratica del Tai Chi cerca appunto di armonizzare.

L’identità e il conseguente dialogo tra microcosmo umano e macrocosmo e il principio della non polarità Wu Ji (vuoto) da cui origina la suprema polarità (pieno) Tai Ji che si esprime nella realtà attraverso il ricorrersi di due momenti opposti, yin e yang.

Tuttavia si cercano tanto negli ultimi anni risposte all’interno delle filosofie orientali, ma le nostre “radici”, ovvero le filosofie occidentali sostengono concetti tanto diversi?

La risposta a questo quesito, o comunque un tentativo, nella prossima puntata.

Il novantenne Kang Youzhen durante la sua pratica giornaliera di Tai Chi Chuan 

Note[+]

Note
↑1, ↑2 Carlo Moiraghi, Tai Ji Quan, la forma breve e la forma lunga, Edizioni XX
↑3 Leung RW, McKeough ZJ, Alison JA. Tai Chi as a form of exercise training in people with chronic obstructive pulmonary disease. Expert Rev Respir Med. 2013 Dec;7(6):587-92
↑4 NCCAM, National Center for Complementary and Alternative Medicine
World Health Organization 2000: General guidelines for methodologies on research and evaluation of traditional medicine, Geneva, WHO, 2000.
↑5, ↑7 Li F, Fisher KJ, Harmer P, Irbe D, Tearse RG, Weimer C. Tai Chi and self-rated quality of sleep and daytime sleepiness in older adults: a randomized controlled trial. J Am Geriatr Soc 2004;52:892-900
↑6 Li F, Harmer P, Glasgow R, et al. Translation of an effective Tai Chi inter- vention into a community-based falls- prevention program. Am J Public Health 2008;98:1195-8
↑8 Invernizzi M, Carda S, Viscontini GS, Cisari C. Osteoporosis in Parkinson’s disease. Parkinsonism Relat Disord. 2009 Jun;15(5):339-46
↑9 Rosen C. Primer on on the Metabolic Bone Diseases and Disorders of Mineral Metabolism, Eighth Edition 2013
Stalenhoef PA, Diederiks JMP, Knottnerus JA, Crebolder HFJM. A risk model for the prediction of recurrent falls in community-dwelling elderly: a prospective cohort study. J Clin Epidemiol 2002;55:1088–94
Dargent-Molina P, Favier F, Grandjean H, Baudoin C, Schott AM, Hausherr E, et al. Fall-related factors and risk of hip fracture: the EPIDOS prospective study. Lancet 1996;348(9021):145–9
Fink HA, Kuskowski MA, Orwoll ES, Cauley JA, Ensrud KE. Osteoporotic frac- tures in men (MrOS) study group. Association between Parkinson’s disease and low bone density and falls in older men: the osteoporotic fractures in men study. J Am Geriatr Soc 2005;53:1559–64
Taylor BC, Schreiner PJ, Stone KL, Fink HA, Cummings SR, Nevitt MC, et al. Long-term prediction of incident hip fracture risk in elderly white women: study of osteoporotic fractures. J Am Geriatr Soc 2004;52:1479–86
Kanis JA, Odén A, McCloskey EV, Johansson H, Wahl DA, Cooper C; IOF Working Group on Epidemiology and Quality of Life. A systematic review of hip fracture incidence and probability of fracture worldwide. Osteoporos Int. 2012 Sep;23(9):2239-56
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Il mondo è un recipiente sacro e non si può governare

30 Ottobre 2014 Marco Invernizzi


Con un ringraziamento a Francesco Vignotto per il lavoro editoriale svolto su questo articolo.

Che sapore ha l’aceto?

Tre uomini sono riuniti attorno a un barile di aceto. Ognuno ne ha appena assaggiato il contenuto ed esprime le proprie impressioni. Il primo ha un’espressione di disappunto, il secondo di amarezza, e il terzo infine sorride.

I tre saggi sono, nell’ordine, Confucio, Buddha e Laozi, ovvero i rappresentanti delle tre correnti principali della Tradizione Cinese, nella quale l’episodio è un tema molto ricorrente e che è qui molto bene esplicitato da questa vignetta:

confucio-buddha-laozi-ita

L’aceto simboleggia la vita e i tre saggi sembrano avere atteggiamenti contrastanti: per Confucio occorre correggerne il degrado dalla corretta via del passato; per Buddha è caratterizzata inevitabilmente dal dolore e l’unica via di scampo è abbandonare ogni attaccamento; per Laozi, infine, anche attraverso il sapore al tempo stesso acido e amaro dell’aceto è possibile esperire l’armonia celeste.

L’episodio è in apparenza “di parte” e decisamente a favore del Taoismo (cioè la tradizione rappresentata da Laozi) a discapito delle altre due tradizioni, soprattutto perché, come vedremo, le altre due tradizioni, qui forse eccessivamente stilizzate, in realtà non sono così in disaccordo con Laozi.

Laozi, Confucio e Buddha

Tuttavia, secondo una delle interpretazioni del celebre dipinto, siccome i tre Maestri sono riuniti attorno allo stesso barile, i Tre Insegnamenti sono in realtà uno solo, un contenuto unico ma al contempo dinamico che ha animato e anima discipline come il Tai Chi Chuan, il Qi gong, la Medicina Tradizionale Cinese e il Buddhismo C’han (che in Giappone diventerà Zen).

L’affermazione, la negazione e la sintesi; l’esperienza dell’azione rituale, l’esperienza del Vuoto e quella delle Presenze (necessaria per percepire il vuoto): l’unione di questi tre aspetti ha reso e rende tuttora, anche se molto meno “visibile”, la Tradizione Cinese una delle più ricche e dinamiche vie all’interno delle varie Tradizioni su questo pianeta.1C. Moiraghi, Qi Gong, Fabbri editori 2002. ISBN 88-451-8009-3 Moiraghi. la via della Forza Interiore, trattato di energetica esperienziale cinese. Casa Editrice Meb 1995. ISBN 88-7669-490-0

Un particolare in apparenza curioso è che l’Alchimia, ovvero la via della Trasmutazione, in Cina si sviluppò proprio in seno al Taoismo, il quale sembrerebbe invitare ad accettare il mondo così com’è:

Vorresti afferrare il mondo e cambiarlo?
Io vedo che non è possibile.
Il mondo è un recipiente sacro: non si può cambiare.
Coloro che lo cambiano lo rovinano,
coloro che lo afferrano lo perdono

Laozi2Daodejing, XXIX, Feltrinelli,

Questo paradosso – anch’esso apparente – racchiude un insegnamento molto profondo e ci invita a varcare il confine tra il livello letterale e quello nascosto di questa tradizione. Se esiste un ordine celeste che respira attraverso i pori di tutta la realtà sensibile, quest’ordine – visto da qui – assomiglia molto al caos e non può che essere espresso per paradossi e con un forte senso dello humor: tale appare il sapore aspro dell’aceto, se lo si considera quale corruzione del vino.

Ma per poter agire senza spezzare il “recipiente sacro” del mondo (o più probabilmente esserne spezzati), occorre innanzitutto  assecondare quest’ordine non opponendo resistenza. Allora la propria volontà perde ogni connotato egoico (Il saggio non ha una mente propria […] e fa della turbolenza del mondo la propria mente3Lao Tzu, Daodejing, LXIV, Feltrinelli,) e l’azione è tale quale alla non-azione (wei wu wei). A quel punto, non può incontrare ostacolo alcuno:

Il cielo dura e la terra permane.
La ragione per cui cielo e terra
possono durare e permanere
è che non vivono per sé stessi;
perciò possono vivere a lungo.
Per questo il saggio si tira indietro
e viene a trovarsi davanti,
si esclude, ma rimane presente.
Non è forse perché non ha fini personali
che può realizzare i suoi fini personali?

Laozi, Tao Te Ching (Daodejing), VII

Tuttavia sbaglieremmo – lo ripetiamo – a voler circoscrivere tutto questo al solo Taoismo. Come vedremo in questo articolo,  anche questa esperienza, dev’essere letta alla luce dei Tre Insegnamenti, che rappresentano i tre principi necessari perché la trasformazione non rimanga bella teoria. Per questo vogliamo iniziare un viaggio che sicuramente non riuscirà a toccare tutti i temi e gli intrecci tra Buddhismo, Confucianesimo e Taoismo, ma che speriamo riesca a far emergere il disegno di fondo.

L’aceto è guasto: il Confucianesimo

Kongfuzi (551-479 a.C.), conosciuto anche come “Maestro Kong” o Confucio in Occidente è il fondatore del Confucianesimo. Questa Tradizione si fonda sui principi di un’etica individuale e sociale basata sul senso di rettitudine e giustizia, sull’importanza dell’armonia nelle relazioni sociali e nel vissuto quotidiano.

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Una bizzarra e gigantesca rappresentazione di Confucio dell’artista contemporaneo cinese Zhang Huan.

Il Confucianesimo quindi esplica i suoi fondamenti principalmente in ambito sociale, familiare e statale, fornendo delle norme etiche e rituali ereditate dall’antichità che hanno lo scopo di generare armonia nei rapporti umani che rifletta quella delle dinamiche Universali. Viene data inoltre quindi molta importanza allo studio, alla riflessione e al miglioramento in generale di sé e del prossimo sempre col fine di promuovere Ordine e Armonia.

Nella sua opera principale, I dialoghi, Confucio si presenta come “un messaggero che nulla ha inventato”, impegnato solo a trasmettere la sapienza degli antichi.

Inizialmente il suo pensiero, più che una Tradizione era un invito a riflettere su se stessi (microcosmo) e quindi di riflesso sul mondo inteso nella sua universalità (macrocosmo). Solo in seguito, principalmente ad opera dei suoi discepoli, di cui il principale era suo nipote Zi Si, vi fu la codifica di un vero e proprio corpus filosofico basato principalmente su di un sistema rituale e una dottrina morale e sociale, che si proponevano di rimediare alla decadenza spirituale della Cina, in un’epoca di profonda corruzione e di gravi sconvolgimenti politici.

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Confucio non volle mai, invece, trattare questioni soprannaturali o che trascendessero l’esperienza umana, limitandosi ad aspetti più “concreti” e legati alla vita di tutti i giorni. Per questo motivo il Confucianesimo rapidamente diventò il cuore del sistema educativo cinese, e numerose importanti figure del confucianesimo come Mencio e Xunzi svilupparono questa dottrina nei secoli sul piano etico, sociale e politico.

Il confucianesimo penetrò quindi profondamente nel sistema di pensiero dei cinesi e dei loro statisti, divenendo il pensiero politico dominante, raramente messo in discussione fino agli inizi del XX secolo; tuttavia per le caratteristiche descritte in precedenza, tra cui il relativo disinteresse per il sovrannaturale, risulta difficile inquadrarla come una religione.

Interpretando le basi concettuali di questa Tradizione come il rapporto macro-microcosmo, lo stimolo alla riflessione e la ricerca dell’Armonia all’interno e al di fuori di sé, si notano molti rimandi ed elementi comuni al Taoismo e alla tradizione Induista. Per questo motivo, come vedremo in seguito per le altre due grandi Tradizioni cinesi, l’apporto reale del solo Confucianesimo alla Tradizione Cinese risulta difficilmente quantificabile, e soprattutto sarebbe riduttivo se analizzato come slegato dalle altre due.

L’aceto è amaro: il Buddhismo

Monaci buddhisti a Zhengzhou, foto di Steve McCurry
Monaci buddhisti a Zhengzhou, foto di Steve McCurry

Il Buddhismo è una delle religioni più antiche e più diffuse al mondo, una religione piuttosto originale in quanto non si fonda sulla fede in un Dio, bensì su una via per raggiungere la liberazione, la buddhi, ovvero l’illuminazione, “attraverso la quale si arriva a prendere atto della realtà, quale risultato di un intreccio di elementi che si condizionano reciprocamente”.

Con il termine Buddhismo intendiamo l’insieme di dottrine e di pratiche che originò  dagli insegnamenti di Siddhartha Gautama, il Buddha storico vissuto tra il VI e il V secolo avanti Cristo in India. Di famiglia nobile e molto ricca, all’età di 29 anni Siddharta venne a contatto con la sofferenza umana durante una visita fuori dall’ambiente protetto della reggia paterna.

Decise allora di abbandonare la famiglia (tra cui moglie e figlio) e di rifiutare ogni ricchezza per dedicarsi alla vita meditativa e trovare una soluzione al problema del dolore che accompagna l’esistenza, alla ricerca di una via per la liberazione dal ciclo di cause-effetto che da sofferenza genera inevitabilmente sofferenza.

Siddharta Gautama definì in seguito questo ciclo coproduzione condizionata, ovvero interdipendenza dei fenomeni, “perché esiste quello, esiste questo”.4Gautama Buddha, Nidānasūtra 124, 547b-548a Il Buddha elencò dodici cause, ognuna delle quali genera la successiva quale effetto:

  1. L’ignoranza genera i
  2. coefficienti karmici (ovvero la traccia delle azioni passate), che generano
  3. la coscienza, che genera
  4. nome e forma, che generano
  5. i sei sensi, che generano
  6. il contatto, che genera
  7. la sensazione, che genera
  8. la brama, che genera
  9. l’attaccamento, che genera
  10. l’esistenza, che genera
  11. la nascita, che genera
  12. vecchiaia, morte, tristezza e sofferenza
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Nella sua ricerca, Siddharta Gautama sperimentò molte dottrine e praticò anche forme di ascetismo estremo. Tuttavia a suo parere nessuna di queste vie offrivano una reale liberazione. Con estrema finezza, Siddharta individuava anche nelle vie allora codificate e nella rinuncia alla vita mondana una forma di attaccamento all’io, una brama, un seme che rimetteva in moto la catena delle cause e degli effetti e provocava la ricaduta nel ciclo che genera sofferenza.

Continuando quindi nella sua ricerca di una ‘via di mezzo’, all’età di 35 anni, dopo sette giorni intenso raccoglimento, Siddharta Gautama conseguì l’illuminazione ed entrò nel Nirvana – ovvero la “condizione di incondizionato”.

Alla base del suo insegnamento vi sono le “Quattro Nobili Verità” e l’Ottuplice Sentiero, enunciati nel famoso Discorso della messa in moto della ruota del Dharma, che qui esponiamo molto in sintesi:

  1. La verità del dolore: tutti gli aggregati fisici e mentali sono soggetti a nascita, vecchiaia, malattia, morte, unione con ciò che è spiacevole e distacco da ciò che è piacevole.
  2. La verità dell’origine del dolore: l’origine è l’attaccamento a ciò che è impermanente e che quindi genera inevitabilmente sofferenza.
  3. La verità della cessazione del dolore: è la cessazione (nirodha) della brama, abbandonando l’attaccamento a ciò che è solo provvisorio.
  4. La verità della via che conduce alla cessazione del dolore: è la “via di mezzo” che rifugge “i due estremi”, non indulgendo nei piaceri sensoriali, ma nemmeno abbracciando la “l’automacerazione, dolorosa, ignobile, senza profitto”. La via consiste nell’Ottuplice sentiero: retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retto modo di vivere, retto sforzo, retta consapevolezza, retta concentrazione.

Questa breve esposizione non fa giustizia della sterminata complessità che assunse questa dottrina nei millenni successivi, diffondendosi in tutta l’Asia e anche, a partire dal XIX secolo, in Occidente. Ci aiuta a comprendere meglio l’espressione amara del Buddha nei confronti dell’aceto: la vita, secondo il Buddhismo, è dominata dalla sofferenza.

"Grasso come un Buddha": in realtà il personaggio grasso e ridente che ricorre spesso nell'arte popolare cinese non è il Buddha Siddharta Gautama, ma il Budai
“Grasso come un Buddha”: in realtà il personaggio grasso e ridente che ricorre nell’arte popolare cinese e giapponese non è il Buddha Siddharta Gautama, ma il Budai. Probabilmente in origine il Budai fu una divinità folkloristica, ma successivamente fu inglobato nel Buddhismo, nel Taoismo e nello Shintoismo.

Tuttavia occorre sottolineare che il Buddhismo è tutt’altro che una visione pessimista e – come abbiamo visto – rifugge l’estremismo ascetico: ricordiamo che, al di fuori dell’episodio dei Tre Saggi, il Buddha è generalmente rappresentato sorridente, un’espressione di sereno distacco più che di amara rinuncia. La causa principale della sofferenza, infatti, è l’ignoranza della sua vera natura, ovvero l’attaccamento a ciò che è impermanente.5Impermanenza che comprende anche il concetto di io: “Il Buddhismo, forse anche nella sua primitiva formulazione, aveva sostenuto […] che non esiste un io permanente, un atman, un jiva, un purusa [tutti termini che indicano il sé, universale o individuale, nelle diverse tradizioni indiane, NdR]; ma non per questo sottraeva l’uomo alla responsabilità delle proprie azioni. Ciò che noi compiamo fruttifica; ogni pensiero, primo motore dell’azione, racchiude in sé l’esperienza passata e si proietta, così carico, nel pensiero seguente; la nostra personalità si riduce a un fluire perenne di elementi (dharma) in continuo moto condizionato; questo moto è dolore; la pace è nella cessazione di questo moto, il quale è arrestato dall’eliminazione del carma infetto; l’eliminazione avviene in virtù della disciplina morale e della conoscenza.” (G. Tucci, Storia della filosofia indiana, Laterza, pag. 52)

E qui, come vedremo in seguito, i punti di contatto con il Taoismo sono molteplici, in primo luogo il concetto Vacuità (Sunyata) quale vera realtà che trascende tutti i fenomeni impermanenti, e che proprio per l’affinità con il Tao 6Cfr Laozi, XI: “Trenta raggi convergono in un mozzo:/grazie al suo vuoto abbiamo l’utilità del carro.” trovò un terreno molto ricettivo nella Cina antica, così come la percezione che di un ordine che unisce ciò che in apparenza è dissimile.

Neve copiosa in tazze d’argento,
aironi celati dalla luna splendente;
cose dissimili nell’affine
la confusione è il luogo della conoscenza.

Pao-ching san-mei ko, “Poema del Samadhi dello specchio prezioso”7In L. Arena, Antologia del Buddhismo Ch’an, Mondadori, 180
Bodhidharma
Bodhidharma

Le influenze Buddiste sulla Tradizione Cinese sono fatte risalire alla figura di Bodhidharma (India, 483 circa – Shaolin, 540), un monaco buddhista indiano, 28° patriarca del Buddhismo indiano secondo la tradizione Chan/Zen, appartenente alla corrente Mahayana, ed erede del Dharma, del maestro Prajñātāra.

Bodhidarma raggiunse la Cina e si stabilì nei pressi della capitale dell’epoca che era Luoyang, presso il monastero di Shaolin. Qui si narra che dopo 9 anni di meditazione insegnò ai monaci il sentiero marziale (che nei secoli si trasformò nella leggendaria imbattibilità dei monaci guerrieri buddisti di Shaolin) e un corpus di insegnamenti che rientrano sotto la definizione di Buddhismo Ch’an. Da questa scuola nasceranno poi in Giappone le diverse scuole di Buddhismo Zen.

In realtà molti aspetti propri al buddismo tantrico di origine Himalayana-Tibetana (Vajrayana o veicolo di Diamante) e della sua propaggine mongola sono fortemente presenti anche nel Taoismo, deponendo quindi a favore di un’influenza di queste correnti Buddhiste sulla Tradizione Cinese in toto, anche se mancano le testimonianze e le prove di un reale contatto.8Giovanni Filoramo (a cura di), Mario Piantelli, Ramon N. Prats, Erich Zürcher, Pier Paolo Del
Campana, Heinz Beckert, Martin Baumann, Buddhismo, Bari, Laterza, 2007, ISBN
978-88-420-8363-4

L’aceto è aceto: il Taoismo

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Il Dao di cui si può parlare non è l’eterno Dao.
I nomi che si possono nominare non sono nomi eterni.
Senza nome, l’origine di cielo e terra

Laozi, Daodejing, I

Definire il Taoismo risulta molto complicato, proprio perché il tentativo di catalogarlo come una religione da parte del Mondo Occidentale ha sviato in parte l’interpretazione dei suoi reali contenuti.

Innanzitutto il termine Taoismo (o Daoismo) si rifà appunto al termine Dao (o Tao), che, come detto prima è stato erroneamente paragonato al concetto di Dio come viene inteso nelle religioni monoteiste e in particolare in Occidente.

In realtà Tao esprime un concetto più complesso essendo al contempo il principio che abbraccia e comprende tutto l’Universo, gli esseri viventi, cielo, terra e sole ma è anche l’ente determinante tutti questi aspetti. È quindi il cardine dell’universo, la sorgente da cui scaturisce e a cui ritorna ogni cosa.

una delle cinque montagne sacre taoiste, fotografati nel 1935.
Monaci taoisti sul Monte Huashan una delle cinque montagne sacre taoiste, fotografati nel 1935.

Quindi il Tao, nella sua caratteristica di principio originario e ordinatore, trova molte similitudini con il concetto di Logos presocratico, di Uno Neoplatonico e nel suo significato di Via, intesa come Sentiero per il raggiungimento dell’armonia con il Tutto, anche con il concetto di Dharma proprio del Buddhismo.

La sua origine non è perfettamente riconducibile ad un personaggio, ad una rivelazione o ad un preciso momento storico. Infatti è più il risultato di un processo di evoluzione progressiva dei contenuti, partendo dalle Tradizioni Sciamaniche e Wu di difficile inquadramento cronologico, e di integrazione di messaggi e informazioni successive. E a tal proposito è interessante che sulla reale esistenza del principale autore Taoista – Laozi (o anche Lao Tzu) – tuttora si dibatte.

il Taoismo non ha né data né luogo di nascita

Isabelle Robinet9Storia del Taoismo dalle origini al XIV secolo, Ubaldini, p. 8

E a tal proposito per convenzione si fa risalire appunto a questo autore e al libro Daodejing (400 a.C. circa) “l’inizio” di questa tradizione. Il libro è una raccolta di pensieri di origine più antica, fino a quel momento tramandati soltanto oralmente, integrati da una serie di riflessioni a commento.

Il Tao di cui io parlerò non è l’eterno tao

Laozi

Una delle interpretazioni di questa frase, alla luce di altri passaggi del testo che ritornano su questo argomento, è che vi sia una dimensione dicibile del Tao che però non arriva a sfiorare la vera natura di esso, che per definizione sfugge a qualunque tentativo di “presa” mediante il discorso e il linguaggio.

Laozi
Laozi

Circa il significato del titolo:

  • Dao/Tao letteralmente ha il significato di “via”
  • De/Te traducibile con “virtù”
  • Jīng/Ching viene qui usato nei significati di canone o “grande libro” o “classico”

Nella cultura cinese il termine Taoismo copre tantissimi argomenti diversi, dal cosiddetto aspetto regolamentato, codificato dal Canone Taoista 10 Il Daozang, raccolta di almeno cinquemila testi che costituiscono la summa della letteratura taoista, raccolti tra il V e il VI secolo dopo Cristo. , che lo ha reso interpretabile come una religione, fino a concezioni di vita ascetiche e mistiche, totalmente avulse dal concetto di religione, finalizzate all’armonia con la natura.

Il simbolo principale, universalmente associato al Taosimo è il Taijitu, dove le controparti yin e yang sono rispettivamente di colore nero (o blu) la parte yin e di colore bianco (o rosso) la parte yang.

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L’Armonia e L’ Equilibrio con il Tutto, il Tao appunto, che è sia il Sentiero che la Meta, viene raggiunta tramite una “armonizzazione” esplicata nel concetto di “agire senza agire” (wei wu wei), cioè permettere il ritmo naturale delle cose, non deviare o forzare la spontaneità della natura, non imporre la propria volontà sopra l’organizzazione del mondo ma più che altro agire in armonia con la volontà organizzatrice superiore che è appunto il Tao.

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Da qui traspare un forte messaggio di essenzialità, di eliminazione del superfluo per cogliere l’aspetto più profondo delle cose, l’essenza appunto, attraverso un processo in cui il cardine sono la “naturalezza” e la “spontaneità”. Il tutto però non visto in un’ottica di lassismo o di accettazione passiva delle cose, ma tramite un intento attivo che è ricercabile soltanto nel profondo dell’essere umano, tramite un percorso evolutivo che porta il praticante stesso a eliminare tutto il superfluo.

Essere in accordo con il Tao, anzi, è muoversi negli interstizi, penetrando dunque l’esperienza sensoriale e attraverso (per mezzo) di essa passando oltre, in un percorso “positivo” che appare complementare – e opposto – a quello “negativo” Buddhista, ma che è essenzialmente identico. Così il macellaio del principe Wen-Hui, il cui coltello dopo diciannove anni è ancora perfettamente affilato, afferma nel Zuang-zi (Chuang Tzu), altra opera fondamentale del Taoismo:

Amo il Tao e così miglioro nella mia arte. All’inizio della mia carriera non vedevo che il bue. Dopo tre anni di pratica, non vedevo più il bue. Adesso è il mio spirito che opera, più che i miei occhi. I miei sensi non agiscono più, ma soltanto il mio spirito.  Conosco la conformazione naturale del bue e attacco solo gli interstizi. […] In verità, le giunture delle ossa hanno degli interstizi e il taglio del coltello non ha spessore. Colui che sa introdurre il filo della lama in quegli interstizi usa agevolmente il proprio coltello, perché si muove attraverso i vuoti. 11Zhuang-zi, III, Adelphi, pp. 35-36

Le mappe alchemiche

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La principale mappa alchemica di Mawangdui, grazie alla quale è stato possibile ricostruire i diagrammi delle pratiche di Qi Gong ritrovati nella tomba (vedi immagine successiva). Sull’interpretazione di questa mappa pubblicheremo degli approfondimenti molto presto.

Proprio perché si rivolge alla parte più interiore, profonda e spirituale la modalità comunicativa nel Taoismo è peculiare. Infatti non segue dinamiche lineari e i testi contengono molte metafore e poche reali indicazioni pratiche, ma sono orientate a portare il lettore ad uno stato di apertura in cui non è tanto l’intelletto a essere principalmente interessato ma altre modalità percettive più legate all’intuizione.

Il classico esempio di queste modalità sono le cosiddette Mappe Alchemiche, vere e proprie schematizzazioni grafiche intuitive di aspetti cosmogonici legati alla realtà che senza troppe spiegazioni inducono una lettura che trascende i normali processi elaborativi intellettuali.

A tal proposito basti pensare che moltissime informazioni fino a poco tempo fa sconosciute riguardo alle pratiche di lunga vita taoiste come il Tai Chi e il Qi gong sono state rinvenute negli anni settanta del secolo scorso con l’importantissima scoperta archeologica della tomba di Mawangdui del II secolo a. C.

In tale sito era stata sepolta la Marchesa di Dai, iniziata taoista di altissimo livello, e vi erano contenute numerose “mappe” e rappresentazioni riguardanti appunto questi aspetti e per gli studiosi ha segnato un punto di svolta nella possibilità di “riscoprire” il Taoismo sistematizzare le pratiche psicocorporee miranti a lavorare sul Qi (ovvero, come vedremo e approfondiremo nei prossimi articoli, sull’energia).

Sequenza di esercizi psicofisici proveniente dalla tomba di Mawangdui
Sequenza di esercizi psicofisici e respiratori proveniente dalla tomba di Mawangdui

L’alchimia e la ricerca dell’immortalità

Abbiamo nominato le mappe alchemiche taoiste e occorre dunque accennare, almeno per brevi capi, al concetto di Alchimia. L’Alchimia Taoista è una pratica spirituale finalizzata alla ricerca dell’immortalità, intesa non tanto in termini cronologici ma come ricerca di stati esperienziali estatici e mistici.

Il termine immortalità si è prestato a numerose interpretazioni e quello forse più completo è un superamento dei limiti del corpo fisico attraverso un lungo processo di manipolazione del corpo energetico in cui esso viene “trasmutato” in una forma più sottile e spirituale. L’essere umano in questo stato fisico e di coscienza “si eleva” fino a trascendere i limiti della dimensione spazio-temporale della sua incarnazione, che prevede la morte fisica (da qui la confusione con un concetto di immortalità intesa solo in senso letterale sul piano fisico).

Si possono distinguere due diverse tradizioni dell’Alchimia:

  • l’Alchimia Interna (Nei dan o cinabro interiore). Questa riguardava esclusivamente l’interiorità dell’essere umano, focalizzandosi esclusivamente su pratiche meditative e pratiche spirituali finalizzate al raggiungimento di stati di coscienza trascendenziali. L’Alchimia Interna si può considerare complementare al daoismo più liturgico, la sua parte più Esoterica e scevra di aspetti religiosi e dottrinali, una via non finalizzata al raggiungimento di uno scopo materiale ma più vicina ad una tecnica per aggiungere l’illuminazione.
  • l’Alchimia Esterna (Wai dan o cinabro esteriore) invece, poneva l’accento su tecniche più fisiche e materiali (quindi esterne) finalizzate alla trasformazione dei metalli in oro. Nella ricerca sul piano materiale della trasmutazione vi era un riflesso di quello stesso processo interiore ricercato dall’Alchimia Interna in cui l’uomo (metallo grezzo) attraverso processi successivi di purificazione e trasmutazione raggiunge uno stato superiore di purezza e quindi l’immortalità simboleggiato dall’oro.12Leonardo Vittorio Arena, L’innocenza del Tao: storia del pensiero cinese, Milano, Mondadori

Equilibrio e Armonia

I Tre Insegnamenti come uno
I Tre Insegnamenti come uno: Confucio porge Gautama Buddha in fasce a Laozi.

Da questa introduzione, riduttiva ma comunque necessaria per meglio comprendere il discorso che svilupperemo nei prossimi articoli, emerge come le tre principali Tradizioni alla base del pensiero cinese contengano degli elementi comuni e delle complementarietà che tradiscono le diverse influenze che nei millenni hanno esercitato reciprocamente.

Abbiamo già parlato delle apparenti divergenze e le sostanziali affinità tra Taoismo e Buddhismo, la cui naturale ibridazione produsse il Buddhismo Ch’an/Zen.

D’altro canto, in tutta la storia cinese compare una apparente contrapposizione anche tra Confucianesimo e Taoismo, l’uno caratterizzato da una sorta di visione razionale e “terrena” finalizzata all’armonia nella vita sociale, burocratica e statale; l’altro da uno stuolo di mistici, guaritori, sciamani e alchimisti miranti sempre all’armonia ma ad un aspetto più spirituale.

In realtà essi spiegano la vitalità della cultura cinese perché testimoniano il profondo abbraccio che li lega come principio della Terra e del Cielo insieme al Buddhismo, principio trasmutatore dell’Uomo, in un unico sistema dinamico. 13Lao Tzu, Tao Te Ching: il libro della virtù e della via, Moretti & Vitali, ISBN 88-7186-269-4Hua Ching Ni. La Via mistica del Tao. M.I.R. edizioni 1998. ISBN 88-86873-56-5
Giulia Boschi. Medicina Cinese: la radice e i fiori. Corso di sinologia per medici e appassionati Casa Editrice Ambrosiana 2003. ISBN 88-408-1263-6 Georges Charles. Qi Gong ed energia vitale. Pratiche Taoiste di lunga vita. Edizioni Pendragon 2008. ISBN 978-88-8342-573-8

Laozi e Confucio
Laozi e Confucio

Infatti, la chiave interpretativa alchemica rivela come Confucianesimo e Taoismo possano rappresentarsi come il lato essoterico ed esoterico della stessa Tradizione, poggiando entrambi sulla preesistente tradizione sciamanica e della magia Wu di difficile inquadramento cronologico e di cui parleremo prossimamente.

Spesso il Confucianesimo ha rimproverato al Taoismo un certo grado di egoismo in quanto il Taoismo sarebbe distante dall’agire sociale e ricercherebbe per lo più la salvezza individuale, anche se nella ricerca individuale dell’Armonia con il Tutto vi è comunque una ricerca mirata al bene collettivo. Ma ancora, mentre per il Taoista il sovrano doveva raggiungere l’unione mistica con il Tao per ben governare, per il confuciano al sovrano bastava l’approvazione celeste e la appropriazione di virtù etico sociali.

Il confucianesimo dunque, rappresenta il lato pratico, sobrio, sociale della vita e del carattere del popolo cinese, bilanciato, in questo senso, dal taoismo, che rappresenta l’aspetto metafisico, mistico, artistico e allegro.14Invernizzi G., Analisi frattale della HRV e MTC, dall’intuizione alla ricerca, University of Milan, 2009, tesi non pubblicata 

A ben vedere, ci troviamo di fronte all’ennesima divergenza apparente. All’inizio dell’epoca Han, ad esempio, i letterati svilupparono la teoria, estremamente suggestiva anche ai nostri giorni, secondo la quale le semplici irregolarità di ordine etico provocano squilibri a livello cosmico. Il massimo rappresentante di questa corrente confuciana, fortemente influenzata dal taoismo, è Dong Zhongshu (179-104 a.C.), il quale afferma, ad esempio:

L’universo ha lo Yin e lo Yang, anche l’uomo ha lo Yin e lo Yang. Quando il Qi Yin dell’universo cresce, quello dell’uomo, conformemente, cresce anch’esso. Quando il Qi Yin dell’uomo cresce, anche il Qi Yin dell’universo può facilmente accordarsi a ciò e crescere anch’esso. Il loro Dao è unico. 15J. C. Cooper, Yin e Yang. L’armonia taoista degli opposti, Roma, Astrolabio-Ubaldini Editore

La visione alchemica di questo processo rivela quindi il profondo abbraccio che lega le due Tradizioni nell’anima popolare e, con l’integrazione della Tradizione Buddhista, spiega l’estrema vitalità a tuttora della cultura cinese.

Le tre Tradizioni infatti definiscono un sistema dinamico speculare ai tre principi cosmogonici della Terra del Cielo e dell’Uomo simbolizzati nelle antiche monete cinesi, in cui il Confucianesimo rappresenta l’ordine quadrato terrestre, il Taoismo l’ordine circolare celeste e il Buddhismo il principio di trasmutazione che li muove.

moneta-cinese

Il messaggio finale di ciascuna di queste tre tradizioni propone la via dell’Equilibrio come unica modalità per raggiungere uno stato di Armonia, manifestantesi al massimo livello nell’armonia con il Tutto. Tuttavia gli ambiti di consapevolezza sono molto diversi,  per cui nel Confucianesimo l’armonia è intesa in termini sociali e materiali mentre nel Taoismo è in termini più spirituali come Armonia con l’universo.

Alla luce di queste considerazioni è interessante notare come la Medicina Tradizionale Cinese tragga il cardine del suo impianto costitutivo, e cioè il concetto di Equilibrio e di Armonia, proprio da ciascuna delle tre Tradizioni considerate. In particolare la MTC ha ereditato dalle tre Tradizioni il concetto principe che guida tutte le sue modalità guaritive: pensare l’organismo malato come un sistema “squilibrato” che necessita di essere riarmonizzato.

Ma tutto questo, e su come la medicina “ufficiale” stia tentando di integrare questa visione, parleremo nei prossimi articoli.

Note[+]

Note
↑1 C. Moiraghi, Qi Gong, Fabbri editori 2002. ISBN 88-451-8009-3 Moiraghi. la via della Forza Interiore, trattato di energetica esperienziale cinese. Casa Editrice Meb 1995. ISBN 88-7669-490-0
↑2 Daodejing, XXIX, Feltrinelli,
↑3 Lao Tzu, Daodejing, LXIV, Feltrinelli,
↑4 Gautama Buddha, Nidānasūtra 124, 547b-548a
↑5 Impermanenza che comprende anche il concetto di io: “Il Buddhismo, forse anche nella sua primitiva formulazione, aveva sostenuto […] che non esiste un io permanente, un atman, un jiva, un purusa [tutti termini che indicano il sé, universale o individuale, nelle diverse tradizioni indiane, NdR]; ma non per questo sottraeva l’uomo alla responsabilità delle proprie azioni. Ciò che noi compiamo fruttifica; ogni pensiero, primo motore dell’azione, racchiude in sé l’esperienza passata e si proietta, così carico, nel pensiero seguente; la nostra personalità si riduce a un fluire perenne di elementi (dharma) in continuo moto condizionato; questo moto è dolore; la pace è nella cessazione di questo moto, il quale è arrestato dall’eliminazione del carma infetto; l’eliminazione avviene in virtù della disciplina morale e della conoscenza.” (G. Tucci, Storia della filosofia indiana, Laterza, pag. 52)
↑6 Cfr Laozi, XI: “Trenta raggi convergono in un mozzo:/grazie al suo vuoto abbiamo l’utilità del carro.”
↑7 In L. Arena, Antologia del Buddhismo Ch’an, Mondadori, 180
↑8 Giovanni Filoramo (a cura di), Mario Piantelli, Ramon N. Prats, Erich Zürcher, Pier Paolo Del
Campana, Heinz Beckert, Martin Baumann, Buddhismo, Bari, Laterza, 2007, ISBN
978-88-420-8363-4
↑9 Storia del Taoismo dalle origini al XIV secolo, Ubaldini, p. 8
↑10 Il Daozang, raccolta di almeno cinquemila testi che costituiscono la summa della letteratura taoista, raccolti tra il V e il VI secolo dopo Cristo.
↑11 Zhuang-zi, III, Adelphi, pp. 35-36
↑12 Leonardo Vittorio Arena, L’innocenza del Tao: storia del pensiero cinese, Milano, Mondadori
↑13 Lao Tzu, Tao Te Ching: il libro della virtù e della via, Moretti & Vitali, ISBN 88-7186-269-4Hua Ching Ni. La Via mistica del Tao. M.I.R. edizioni 1998. ISBN 88-86873-56-5
Giulia Boschi. Medicina Cinese: la radice e i fiori. Corso di sinologia per medici e appassionati Casa Editrice Ambrosiana 2003. ISBN 88-408-1263-6 Georges Charles. Qi Gong ed energia vitale. Pratiche Taoiste di lunga vita. Edizioni Pendragon 2008. ISBN 978-88-8342-573-8
↑14 Invernizzi G., Analisi frattale della HRV e MTC, dall’intuizione alla ricerca, University of Milan, 2009, tesi non pubblicata 
↑15 J. C. Cooper, Yin e Yang. L’armonia taoista degli opposti, Roma, Astrolabio-Ubaldini Editore
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Danzando sulla carrozzina: il Tai Chi per disabili del dottor Guo

5 Giugno 2014 Marco Invernizzi


Lunedì 26 maggio, Marsiglia, Congresso Europeo di Riabilitazione. Un pomeriggio non particolarmente stimolante; tante relazioni, tante parole, pochi concetti e spesso già sentiti in precedenza.

Ore 19 – la voglia di tornare in albergo e buttarsi sul letto è tanta. Tuttavia l’occhio mi cade sul programma del congresso e in particolare su un Workshop dal titolo “Tai Chi in carrozzina”. La prima domanda che mi balena in mente è “ma come si fa a fare Tai Chi in carrozzina?”. La curiosità cresce… salgo le scale del bellissimo Palais du Pharo dove si sta svolgendo il congresso e arrivo davanti alla sala del Workshop.

La diligente hostess, con aria costernata, mi dice che avrei dovuto iscrivermi al mattino e che mi farà entrare solo se ci sarà posto in sala, altrimenti nes pas. Annuisco fingendo di accettare questa eventualità, promettendo a me stesso che sarei entrato ad ogni costo nella stanza.

Il dottor Zibin Guo
Il dottor Zibin Guo

Intanto, con una rapida occhiata, scorgo in fondo alla sala un ometto cinese sorridente, intento a posizionare delle carrozzine e a preparare la propria relazione. Mi guarda e mi sorride e io dal fondo della sala ricambio. Più tardi scoprirò che si tratta del dottor Zibin Guo, medico cinese all’Università di Nanchino e antropologo con un Ph.D. all’Università del Connecticut (qui il suo profilo). Guo studia da anni il rapporto tra la disabilità, la salute e il benessere e ha messo appunto un metodo, Appliedtaiji, che permette di praticare il Tai Chi Chuan anche a chi ha perso l’uso degli arti inferiori.

Ore 19,05 – con un rapido cenno alla hostess, il dottor Guo decreta l’inizio della lezione. Guardo la hostess con aria da cane bastonato e lei, con aria “vabbè dai per questa volta ti è andata bene” mi lascia entrare nella sala. Uno a zero per me.

La prima parte della lezione riguarda alcuni cenni alla disciplina del Tai Chi, le sue radici storiche e culturali, l’interesse crescente della Medicina Occidentale nei suoi confronti e i benefici sia fisici che psichici dimostrati scientificamente nel trattamento di svariate patologie. Tra l’altro viene anche citato lo stesso studio sull’utilizzo di questa disciplina con i malati di Parkinson, di cui già abbiamo parlato in precedenza.

Tuttavia, dopo dieci minuti di classica lezione “frontale”, veniamo invitati a rimanere seduti ciascuno sulla propria sedia ad una distanza di almeno un metro dal nostro vicino. E poi la “magia” inizia. Infatti, consapevole che alcune cose non possono essere spiegate a parole, né comprese pienamente dal solo intelletto, il relatore cinese decide che la cosa migliore per farci “toccare” con mano il Tai Chi è praticarlo.

Inizia così a insegnarci la prima forma in carrozzina, da lui codificata, dividendola in sei parti. Dopo un’iniziale momento di smarrimento e qualche risatina isterica, come dicevo, la “magia” inizia. Infatti ad ogni ripetizione delle fasi della forma i movimenti diventano più armonici, la “circolarità” e la fluidità del Tai Chi emergono e il gruppetto di congressisti inizia a muovere tronco e braccia in maniera armonica e coordinata alla respirazione.

L’effetto finale sperimentato da tutti i colleghi è di un sostanziale rilassamento con una maggiore percezione della propria fisicità, soprattutto per quanto riguarda il tronco, e questa forse è la cosa più interessante, in quanto di fatto restando seduti, questa parte dovrebbe essere meno coinvolta dagli effetti della pratica rispetto all’esecuzione in piedi.

Sicuramente le tematiche da approfondire sarebbero molte, tra cui la percezione da parte di un disabile della pratica e dell’interazione con la carrozzina; tuttavia mi riservo di studiare più nel dettaglio l’argomento prima di trarre altre conclusioni. Intanto, come detto in precedenza, siccome le parole da sole a volte non bastano, la visione di seguito di alcuni filmati potrà essere sicuramente più illuminante per il lettore.

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