• Passa alla navigazione primaria
  • Passa al contenuto principale
Zénon Yoga Novara

Zénon Yoga Novara

  • Home
  • Corsi
    • Tutti i corsi e gli orari
    • Yoga
      • Yoga (lezioni collettive)
      • Respirazione – Pranayama
      • Tandava
    • Yoga in gravidanza
    • Attività Post Parto: yoga e allenamento funzionale
    • Qi Gong e Taijiquan
    • Functional Training
    • Meditazione
  • Eventi
  • Chi siamo
  • Blog
  • Contatti

Marco Invernizzi

Info Marco Invernizzi

Marco Invernizzi, medico e dottore di ricerca in Riabilitazione, lavora come ricercatore nel reparto universitario di Riabilitazione dell’Ospedale Maggiore della Carità di Novara. I suoi ambiti di ricerca riguardano principalmente la neuroriabilitazione, in particolare post-ictus e mielolesione e le modificazioni muscolo-scheletriche nelle patologie neurologiche croniche. Da 15 anni si interessa di medicine alternative ed è insegnante di agopuntura presso la scuola ALMA di Milano.

Tai Chi Chuan: esercizio fisico o pratica terapeutica?

20 Ottobre 2021 Marco Invernizzi

Il Tai Chi Chuan (o Tai ji Quan usando la traduzione degli ideogrammi cinesi con lo standard “pinyin”) è una pratica che nasce in Cina dall’incontro tra arti marziali e pratiche tradizionali per la salute e la longevità.

Non vi è chiarezza sulle sue origini che pare siano contenute nelle antichissime radici stesse della cultura cinese. Alcune leggende infatti fanno risalire la nascita di questa pratica al V° secolo e a Bodhidarma, il monaco buddista che dall’India si recò in Cina portando con sé l’insegnamento Buddista e fondando il monastero di Shaolin. Altre leggende lo fanno risalire al X° secolo ad opera dell’eremita taoista Zhang San Feng che viveva sul monte Wudan. Testimonianze invece concrete riguardo la sua codifica negli stili moderni risalgono al XVIII° secolo con lo stile della famiglia Chen, tra i principali stili presente a tutt’oggi e praticato.1Carlo Moiraghi, Tai Ji Quan, la forma breve e la forma lunga, Edizioni XX

Monaci sul Monte Huashan, una delle cinque montagne sacre taoiste, fotografati nel 1935.

Il Tai Ji Quan è un’antica disciplina che permette di armonizzare e di ottimizzare il proprio stato vitale ed il proprio flusso energetico attraverso l’uso combinato di movimenti lenti e armonici e un uso consapevole del respiro. Per questo motivo è parte fondamentale delle pratiche tradizionali cinesi della prevenzione e della longevità e, a buon titolo, fa parte in maniera integrante del corpus medico tradizionale cinese.

Oltre all’aspetto salutistico-preventivo, il Tai Ji Quan contiene anche un aspetto marziale e in esso sono contenute e fuse insieme le complesse e multiformi radici culturali da cui nasce la cultura cinese e il suo corpus medico, cioè Buddhismo, Confucianesimo e Taoismo. Le sue più evidenti diversità rispetto ad altre arti marziali sono costituite dal ruolo centrale assegnato ad azioni difensive basate sulla cedevolezza, e dall’impiego nei confronti dell’avversario della elasticità del corpo invece che della forza.2Carlo Moiraghi, Tai Ji Quan, la forma breve e la forma lunga, Edizioni XX

Da alcuni anni è andato crescendo l’interesse della medicina occidentale verso questa pratica, intuendone il potenziale benefico in numerose patologie. Infatti diversi studi hanno evidenziato come il Tai Chi Chuan possa portare a significativi miglioramenti o comunque a dei benefici nelle patologie più disparate, dall’osteoporosi, ad alcune malattie neurologiche, fino a patologie cardiovascolari e polmonari croniche.3Leung RW, McKeough ZJ, Alison JA. Tai Chi as a form of exercise training in people with chronic obstructive pulmonary disease. Expert Rev Respir Med. 2013 Dec;7(6):587-92

Questo perché? Il mondo scientifico occidentale, e in particolare l’OMS, nel tentativo di catalogare tutto ciò che è considerabile come tecnica terapeutica ma “alternativa” alla medicina occidentale basata sulle evidenze, ha introdotto una complessa categorizzazione di cui fa parte anche la medicina tradizionale cinese e quindi il Tai Chi, definito come tecnica “psico-corporea”.4NCCAM, National Center for Complementary and Alternative Medicine
World Health Organization 2000: General guidelines for methodologies on research and evaluation of traditional medicine, Geneva, WHO, 2000.

Il Tai Chi Chuan appartiente a tale categoria proprio perché a differenza di una attività fisica generica non si focalizza soltanto sull’attività muscolare finalizzata al movimento, ma anche su altri aspetti come la respirazione, il mantenimento di una postura corretta, l’equilibrio, l’eliminazione di rigidità fisiche e di tensioni mentali, il tutto finalizzato a generare un’armonia tra corpo e mente, giustificando quindi appunto la definizione di tecnica psico-corporea.

Pratica del Tai Chi Chuan con pazienti affetti dal morbo di Parkinson

Recentemente è stata pubblicata una ricerca sulla rivista New England Journal of Medicine,5Li F, Fisher KJ, Harmer P, Irbe D, Tearse RG, Weimer C. Tai Chi and self-rated quality of sleep and daytime sleepiness in older adults: a randomized controlled trial. J Am Geriatr Soc 2004;52:892-900 una delle più autorevoli dal punto di vista scientifico per quanto riguarda la medicina occidentale basata sulle evidenze.

Questo studio randomizzato controllato, svolto dall’Oregon Reasearch Institute e finanziato dal fondo di ricerca nazionale statunitense (NIH), aveva come obiettivo il determinare se un programma di Tai Chi potesse migliorare il controllo posturale in pazienti affetti da Morbo di Parkinson.

Il razionale di questo studio si basa sul fatto che alcuni lavori in passato hanno già dimostrato come l’esercizio fisico possa rallentare il deterioramento delle funzioni motorie e prolungare il periodo di indipendenza nei parkinsoniani.6Li F, Harmer P, Glasgow R, et al. Translation of an effective Tai Chi inter- vention into a community-based falls- prevention program. Am J Public Health 2008;98:1195-8 Tuttavia la ricerca è sempre più focalizzata a cercare approcci a metodiche di esercizio alternativo che possano apportare benefici anche in ambito non unicamente motorio.
Per questo i 195 pazienti arruolati in questo studio sono stati suddivisi in maniera casuale in tre gruppi: uno in cui veniva praticato solamente il Tai chi, un secondo in cui veniva svolto un classico programma di esercizi contro resistenza come da linee guida e un terzo gruppo in cui si praticava unicamente stretching. I pazienti di ciascun gruppo eseguivano quindi 2 sessioni di allenamento settimanali della durata di un ora per un totale di 24 settimane.

I risultati di questo studio sono stati sicuramente interessanti, in quanto il gruppo di pazienti trattati con Tai Chi ha dimostrato un miglioramento rispetto agli altri due gruppi statisticamente significativo dell’equilibrio accompagnato da un aumento dell’ampiezza del passo, della velocità del cammino, e conseguentemente una riduzione significativa del numero di cadute.

Quindi il Tai Chi sarebbe in grado di sovvertire i meccanismi che determinano i deficit di movimento e di coordinazione nei pazienti Parkinsoniani producendo contemporaneamente un aumento dell’equilibrio e da ultimo un miglioramento netto nell’espletare le attività del vivere quotidiano.

Secondo gli autori tutto ciò sarebbe ascrivibile a diverse caratteristiche della pratica del Tai Chi ed in particolare alla forma specificamente utilizzata in questo studio che è descritta nell’appendice all’articolo.7Li F, Fisher KJ, Harmer P, Irbe D, Tearse RG, Weimer C. Tai Chi and self-rated quality of sleep and daytime sleepiness in older adults: a randomized controlled trial. J Am Geriatr Soc 2004;52:892-900

Infatti in generale i movimenti del Tai Chi stressano lo spostamento del peso e il movimento delle caviglie mantenendo il centro di gravità dell’individuo ai limiti della stabilità, alternando tra posizioni con i piedi a distanze molto diverse per cambiare continuamente la base di supporto.

Inoltre anche a livello muscolare gli arti inferiori sono molto sollecitati (e quindi allenati) sia per il tempo in cui devono mantenere la posizione, sia in quello in cui devono muoversi. Inoltre un ruolo importante è svolto anche dal controllo del tronco che viene sottoposto a numerose rotazioni con contemporaneo mantenimento della corretta postura della parte superiore del corpo. Tutti questi meccanismi insieme sicuramente concorrono ai miglioramenti ottenuti da questi pazienti per quanto riguarda l’equilibrio e la velocità del cammino.

Un altro dato molto interessante riguarda la diminuzione del numero di cadute statisticamente significativa nei pazienti trattati con Tai Chi rispetto agli altri due gruppi. Questo dato sicuramente è una conseguenza diretta dei miglioramenti ottenuti da questi pazienti relativamente a cammino ed equilibrio.

Tuttavia un altro dato su cui gli autori di questo studio non si sono soffermati – ma che sicuramente ha una rilevanza notevole – è che il rischio di caduta, nella popolazione anziana in genere, ma soprattutto nei parkinsoniani,8Invernizzi M, Carda S, Viscontini GS, Cisari C. Osteoporosis in Parkinson’s disease. Parkinsonism Relat Disord. 2009 Jun;15(5):339-46 è direttamente correlata con il rischio di frattura di femore da “fragilità”.9Rosen C. Primer on on the Metabolic Bone Diseases and Disorders of Mineral Metabolism, Eighth Edition 2013
Stalenhoef PA, Diederiks JMP, Knottnerus JA, Crebolder HFJM. A risk model for the prediction of recurrent falls in community-dwelling elderly: a prospective cohort study. J Clin Epidemiol 2002;55:1088–94
Dargent-Molina P, Favier F, Grandjean H, Baudoin C, Schott AM, Hausherr E, et al. Fall-related factors and risk of hip fracture: the EPIDOS prospective study. Lancet 1996;348(9021):145–9
Fink HA, Kuskowski MA, Orwoll ES, Cauley JA, Ensrud KE. Osteoporotic frac- tures in men (MrOS) study group. Association between Parkinson’s disease and low bone density and falls in older men: the osteoporotic fractures in men study. J Am Geriatr Soc 2005;53:1559–64
Taylor BC, Schreiner PJ, Stone KL, Fink HA, Cummings SR, Nevitt MC, et al. Long-term prediction of incident hip fracture risk in elderly white women: study of osteoporotic fractures. J Am Geriatr Soc 2004;52:1479–86
Kanis JA, Odén A, McCloskey EV, Johansson H, Wahl DA, Cooper C; IOF Working Group on Epidemiology and Quality of Life. A systematic review of hip fracture incidence and probability of fracture worldwide. Osteoporos Int. 2012 Sep;23(9):2239-56
Hernlund E, Svedbom A, Ivergard M, Compston J, Cooper C, Stenmark J, McCloskey EV, Jonsson B, Kanis JA. Osteoporosis in the European Union: medical management, epidemiology and economic burden. A report prepared in collaboration with the International Osteoporosis Foundation (IOF) and the European Federation of Pharmaceutical Industry Associations (EFPIA). Arch Osteoporos. 2013 Dec;8(1-2):136
Tale evento si differenzia dalle fratture traumatiche di femore perché avviene in condizioni in cui normalmente non dovrebbe verificarsi come ad esempio una caduta dalla propria altezza.

Breve animazione di alcuni movimenti di Tai Chi

I meccanismi alla base di tale “fragilità” sono da ascriversi a modificazioni quantitativo-qualitative dell’osso e della muscolatura prossimale dell’anca in grado di mantenere la stazione eretta e prevenire appunto le cadute.Tale infausto evento infatti ha dei risvolti devastanti in termini sia di mortalità (il 20% dei pazienti fratturati di femore muore ad un anno indipendentemente dall’età), che di recupero, infatti meno della metà dei pazienti ritorna a valori di indipendenza sovrapponibili al pre-frattura.10Kanis JA, Odén A, McCloskey EV, Johansson H, Wahl DA, Cooper C; IOF Working Group on Epidemiology and Quality of Life. A systematic review of hip fracture incidence and probability of fracture worldwide. Osteoporos Int. 2012 Sep;23(9):2239-56

Inoltre i costi sia sanitari che sociali, diretti e indiretti, sono altissimi: basti pensare che in Italia ogni anno si registrano circa 100mila fratture di femore da fragilità all’anno; infine, considerando il progressivo invecchiamento della popolazione, si stima che entro il 2050 tale problematica sarà un vero cataclisma per i sistemi socio-sanitari dei paesi occidentali.11Reginster JY. Bone 2006;38:S4-S9
WHO Scientific Group. WHO Technical Report Series: 921,2003:1
Wen CP, Wai JP, Tsai MK, et al. Minimum amount of physical activity for reduced mortality and extended life expectancy: a prospective cohort study. Lancet 2011; 378:1244

In conclusione quindi ormai da anni è assodato che l’esercizio fisico, eseguito anche soltanto per pochi minuti al giorno, è capace di determinare effetti positivi su svariati aspetti della salute in soggetti di qualunque età, persino over 80 anni.12Liu T, Lao L. Tai Chi for Patients with Parkinson’s Disease. COrrespondence. New Eng J Med 2012 3 May 366;18 Partendo da questo assunto, i risultati di questo studio pongono sicuramente una pietra miliare per quanto riguarda l’utilizzo a fini terapeutici del Tai Chi.

Tuttavia, nonostante gli autori vedano e sottolineino le potenzialità per un utilizzo non solo limitato al Parkinson ma in ambito più ampio alla Neuroriabilitazione, non si sbilanciano sugli effetti terapeutici del Tai Chi e dichiarano la necessità di investigare più in dettaglio i meccanismi alla base di tali risultati, non ancora del tutto compresi.

In realtà una considerazione che nasce spontanea leggendo questo articolo e i suoi risultati, anche in un non addetto ai lavori, è come il Tai Chi esprima un qualcosa “di più” in termini di efficacia rispetto al classico esercizio fisico. Tuttavia che cosa determini questo valore aggiunto non emerge in maniera così immediata e le spiegazioni meccanicistiche fornite dagli autori, per loro stessa ammissione, sono incomplete e non esaustive.

Tuttavia a mio parere questo valore aggiunto è da ricercare nelle radici stesse di questa pratica. Infatti già l’essere stata definita tecnica psico-corporea la rende sta a significare che ne è stata intuita una natura più profonda e complessa rispetto ad una qualunque tecnica di esercizio fisico. Tuttavia per comprendere meglio questa problematica è interessante citare un commento che è stato pubblicato a seguito di questo articolo:

Tai chi is definitely more than a mere set of body movements. At the core of tai chi is a unique theory based on ancient Chinese culture about the value of moving vital energy, or qi, throughout the body. Tai chi can hardly be practiced in the absence of its cultural underpinnings.
(In definitiva il Tai Chi è molto di più di una mera serie di movimenti corporei. Alla base del Tai Chi vi è una unica teoria, basata sull’antica cultura Cinese, riguardo l’importanza di muovere l’energia vitale, altrimenti detta qi, attraverso il corpo. Difficilmente si potrà praticare il Tai Chi in assenza delle sue radici culturali.)

Quindi per comprendere, o almeno cercare in parte di farlo, questa disciplina è necessario considerare le profonde radici filosofico-culturali su cui essa poggia, pena una svalutazione di tale pratica e una conseguente riduzione della sua efficacia.

Come abbiamo già accennato esse si rifanno ad una visione dell’essere umano complessa, che attinge a più tradizioni, in cui tuttavia convivono dei principi basilari e condivisi. Tra questi vi è la visione tripartita dell’uomo come un’unità indissolubile di corpo mente e spirito, che la pratica del Tai Chi cerca appunto di armonizzare.

L’identità e il conseguente dialogo tra microcosmo umano e macrocosmo e il principio della non polarità Wu Ji (vuoto) da cui origina la suprema polarità (pieno) Tai Ji che si esprime nella realtà attraverso il ricorrersi di due momenti opposti, yin e yang.

Tuttavia si cercano tanto negli ultimi anni risposte all’interno delle filosofie orientali, ma le nostre “radici”, ovvero le filosofie occidentali sostengono concetti tanto diversi?

La risposta a questo quesito, o comunque un tentativo, nella prossima puntata.

Il novantenne Kang Youzhen durante la sua pratica giornaliera di Tai Chi Chuan 

Note[+]

Note
↑1, ↑2Carlo Moiraghi, Tai Ji Quan, la forma breve e la forma lunga, Edizioni XX
↑3Leung RW, McKeough ZJ, Alison JA. Tai Chi as a form of exercise training in people with chronic obstructive pulmonary disease. Expert Rev Respir Med. 2013 Dec;7(6):587-92
↑4 NCCAM, National Center for Complementary and Alternative Medicine
World Health Organization 2000: General guidelines for methodologies on research and evaluation of traditional medicine, Geneva, WHO, 2000.
↑5, ↑7Li F, Fisher KJ, Harmer P, Irbe D, Tearse RG, Weimer C. Tai Chi and self-rated quality of sleep and daytime sleepiness in older adults: a randomized controlled trial. J Am Geriatr Soc 2004;52:892-900
↑6Li F, Harmer P, Glasgow R, et al. Translation of an effective Tai Chi inter- vention into a community-based falls- prevention program. Am J Public Health 2008;98:1195-8
↑8Invernizzi M, Carda S, Viscontini GS, Cisari C. Osteoporosis in Parkinson’s disease. Parkinsonism Relat Disord. 2009 Jun;15(5):339-46
↑9Rosen C. Primer on on the Metabolic Bone Diseases and Disorders of Mineral Metabolism, Eighth Edition 2013
Stalenhoef PA, Diederiks JMP, Knottnerus JA, Crebolder HFJM. A risk model for the prediction of recurrent falls in community-dwelling elderly: a prospective cohort study. J Clin Epidemiol 2002;55:1088–94
Dargent-Molina P, Favier F, Grandjean H, Baudoin C, Schott AM, Hausherr E, et al. Fall-related factors and risk of hip fracture: the EPIDOS prospective study. Lancet 1996;348(9021):145–9
Fink HA, Kuskowski MA, Orwoll ES, Cauley JA, Ensrud KE. Osteoporotic frac- tures in men (MrOS) study group. Association between Parkinson’s disease and low bone density and falls in older men: the osteoporotic fractures in men study. J Am Geriatr Soc 2005;53:1559–64
Taylor BC, Schreiner PJ, Stone KL, Fink HA, Cummings SR, Nevitt MC, et al. Long-term prediction of incident hip fracture risk in elderly white women: study of osteoporotic fractures. J Am Geriatr Soc 2004;52:1479–86
Kanis JA, Odén A, McCloskey EV, Johansson H, Wahl DA, Cooper C; IOF Working Group on Epidemiology and Quality of Life. A systematic review of hip fracture incidence and probability of fracture worldwide. Osteoporos Int. 2012 Sep;23(9):2239-56
Hernlund E, Svedbom A, Ivergard M, Compston J, Cooper C, Stenmark J, McCloskey EV, Jonsson B, Kanis JA. Osteoporosis in the European Union: medical management, epidemiology and economic burden. A report prepared in collaboration with the International Osteoporosis Foundation (IOF) and the European Federation of Pharmaceutical Industry Associations (EFPIA). Arch Osteoporos. 2013 Dec;8(1-2):136
↑10Kanis JA, Odén A, McCloskey EV, Johansson H, Wahl DA, Cooper C; IOF Working Group on Epidemiology and Quality of Life. A systematic review of hip fracture incidence and probability of fracture worldwide. Osteoporos Int. 2012 Sep;23(9):2239-56
↑11Reginster JY. Bone 2006;38:S4-S9
WHO Scientific Group. WHO Technical Report Series: 921,2003:1
Wen CP, Wai JP, Tsai MK, et al. Minimum amount of physical activity for reduced mortality and extended life expectancy: a prospective cohort study. Lancet 2011; 378:1244
↑12Liu T, Lao L. Tai Chi for Patients with Parkinson’s Disease. COrrespondence. New Eng J Med 2012 3 May 366;18
Leggi

Archiviato in:Articoli, qi gong, Tai Chi Chuan, Taoismo Contrassegnato con: qi gong, tai chi chuan, taijiquan Novara, taoismo

Lo Zen e le Neuroscienze: il Sé e l’Altro

7 Febbraio 2017 Marco Invernizzi


Da molti anni lo studioso e neuroscienziato J.H. Austin  si interessa di processi cognitivi, neuroanatomia e neurofisiologia della meditazione. Oltre a decine di suoi articoli in ambito neuroscientifico, sicuramente il libro intitolato Zen and the Brain, di cui è autore, ha segnato un punto cruciale nella ricerca in questo ambito.

Un recente articolo, pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology, cerca di riassumere brevemente, per quanto possibile, alcune delle scoperte di Austin in oltre 30 anni di ricerca sulla meditazione in ambito neurofisiologico. [1]

Come inizio del suo approccio a questa problematica, Austin fa emergere chiaramente come due mondi apparentemente inconciliabili quali la neurofisiologia e lo Zen in realtà abbiano molti più punti in comune di quello che si possa immaginare, e come i neuroscienziati possano intuire molto delle dinamiche e dei processi cognitivi dallo studio di questa tradizione, e viceversa.

Cenni Storici

Come già tracciato da Francesco Vignotto su questo blog, lo Zen è una corrente buddhista giapponese che a sua volta deriva dalle scuole Chan cinesi, a loro volta fondate secondo la tradizione dal leggendario monaco indiano Bodhidharma nel V secolo dopo Cristo.

Il termine Zen sarebbe proprio l’adattamento in Giapponese del termine Chan, che a sua volta traduceva il termine sanscrito dhyāna che nell’insegnamento originale del Buddha è il termine utilizzato per descrivere, per quanto possibile a parole, lo stato di meditazione.

Sarebbe tuttavia riduttivo ricondurre lo Zen/Chan al solo alveo del buddhismo (alle cui scritture riserva peraltro un’attenzione limitata), perché reca altrettanto evidente l’influsso del taoismo, da cui ha ereditato l’approccio essenziale e immediato.

220px-Dogen
Eihei Dōgen (永平道元禅師, Eihei Dōgen zenji; Kyoto, 2 gennaio 1200 – Kyoto, 28 agosto 1253)

Ciò è particolarmente evidente proprio nella pratica meditativa più conosciuta, lo Zazen, definita in una serie di trattati dal fondatore della scuola Zen Soto Dogen Zenji (1200-1253).

Attraverso il controllo di corpo (la postura), respiro e mente (i cui soffi e i cui pensieri vengono osservati senza interferire, come nuvole che passano nel cielo) nello Zazen la meditazione è concepita non come un mezzo di progressiva verso l’illuminazione, ma spesso come l’esperienza stessa del risveglio.

Risveglio, illuminazione, ovvero satori, che spesso viene descritto come evento fulminante e al tempo stesso come “niente di speciale”, affermazione apparentemente sul filo del paradosso (lo Zen ama i paradossi, anche quando si fa gioco di sé stesso) che allude alla caduta di quel diaframma tra il sé e l’altro di cui parleremo tra breve.

 

I quattro capisaldi Zen

Austin, prima di entrare nel vivo del discorso, accenna brevemente a quattro capisaldi dello Zen che aiutano a comprendere meglio alcuni aspetti di questa Tradizione e i fini che si prefigge:

  1. il consapevole allenamento dell’attenzione e della percezione durante le attività del vivere quotidiano;
  2. l’eliminazione delle abitudini negative esageratamente centrate su sé stessi (egoisitiche) e i comportamenti che portano a uno spreco di tempo e di energia;
  3. l’aumento delle capacità personali intuitive di introspezione;
  4. l’applicazione di queste capacità interiori in maniera continuativa e costante con aumentata compassione sia verso gli altri esseri che verso sé stessi. [1]

Sé e altro da sé (self and other)

Esiste un lungo sentiero di allenamento mentale che può condurre ad adattamenti importanti del carattere e sono due i domini cruciali che intervengono nell’influenzarlo: il sé e ciò che è diverso da sé, meglio definito di seguito come altro.

Il primo rappresenta la coscienza distintiva interiore di noi stessi come individualità. Il secondo si riferisce alla consapevolezza dell’esistenza dell’ambiente fuori dalla nostra pelle. Questa distinzione e la trasformazione che viene prodotta nel soggetto che riesce a superarla e trascenderla, è descritta col termine “illuminazione”: uno stato di aumentata consapevolezza che ha trovato una testimonianza importante ad esempio proprio nella figura di Siddharta Gautama, il Buddha storico, chiamato anche appunto “l’illuminato”.

Tuttavia, nonostante questo sia sostanzialmente il punto di arrivo, o comunque un traguardo già molto avanzato, in tutte le tradizioni è importante l’iniziale riconoscimento e consapevolezza dell’esistenza di questi due domini con l’obbiettivo finale però di trascenderli. [1]

Neuroscienze e Meditazione

1. I due network attentivi

La ricerca neuroscientifica ha identificato due fondamentali network attentivi operanti a livello corticale che vengono comunemente identificati in questo ambito con i termini “dorsale” e “ventrale” rifacendosi a grandi linee alla loro localizzazione anatomica all’interno del sistema nervoso centrale. Quello dorsale quindi risulterebbe localizzato in posizione posteriore, mentre quello ventrale in posizione più anteriore. [2-4]

Negli studi di Austin è emerso come nei praticanti meditazione i sistemi attentivi dorsali si attivino maggiormente durante le pratiche meditative di focalizzazione e concentrazione. Al contrario, i sistemi attentivi ventrali sembrano attivarsi di riflesso durante le più sottili forme di attenzione e negli stati di consapevolezza definita più “generalizzata”. Importante ricordare che quest’ultima via viene coltivata più gradualmente durante le pratiche meditative che sono più apertamente centrati sulla ricettività.

2. La percezione sé-altro

Oltre ai due sistemi evidenziati nel paragrafo precedente la ricerca nell’ambito delle neuroscienze ha anche prodotto notevoli contributi sui correlati legati alla problematica della percezione sé-altro da sé. Anche a questo livello sono stati identificati due circuiti principali di processazione di queste due percezioni che, curiosamente, sono anch’essi a localizzazione dorsale e ventrale all’interno del sistema nervoso centrale.

dorsal-ventral
Figura 1 – circuito dorsale e ventrale secondo  Austin.

Secondo Austin, questi network producono consapevolezza attraverso due percezioni anatomicamente separate  della realtà che vengono poi rapidamente fuse senza cuciture e sintetizzate in un’unica percezione. [1-3]  La consapevolezza di noi stessi (o del sé o autoconsapevolezza o Egocentrica) è localizzata a livello dorsale ed è anche la prima ad essere abitualmente processata. La Figura 1 illustra come il circuito dorsale può interagire con il senso del tatto e con la propriocettività, due funzioni localizzate a livello del lobo parietale. Questa sovrapposizione  è conveniente perché il tatto e la propriocezione ci aiutano a manipolare oggetti tangibili all’interno dello spazio localizzato vicino al nostro corpo, aiutandoci a definire quello che Austin definisce come una sorta di “spazio vitale” a spazio “a portata di mano”.

Questo circuito neurale di processazione superiore, localizzato, come si vede in Figura 1, a livello occipito-parietale  segue una traiettoria che a tratti si sovrappone a quelle regioni laterali e superiori corticali che rappresentano lo schema somatico del nostro sé fisico secondo lo schema dell’Homunculus sensitivo e motorio schematizzato in Figura 2.

Figura 2 – Le aree della corteccia motoria e sensitiva primaria con a destra la rappresentazione schematica delle aree corporee di riferimento (Homunculus sensitivo e motorio).

Tuttavia è riduttivo sintetizzare il senso di questo circuito al semplice “Dove?” al fine di permetterci di capire se possiamo o meno afferrare e/o interagire con un oggetto. In realtà, secondo Austin, la domanda è strutturata in maniera più complessa, in modo da coinvolgere le tre dimensioni del nostro spazio personale: “Dov’è l’oggetto in relazione a Me e al mio corpo?”. [1-3]

Il secondo circuito, denominato ventrale, è invece associato ad altre capacità percettive come la vista e l’udito. Oltre ad avere una localizzazione anatomica molto diversa rispetto al circuito dorsale (parti inferiori del lobo occipito-temporale e frontale), tale circuito processa informazioni legate non tanto alla percezione del sé come il circuito dorsale ma più legate ad una modalità percettiva “allocentrica” (Allo, dal greco, significa semplicemente “altro”). [1-3]

Questo circuito tuttavia secondo Austin, lavorerebbe come in secondo piano rispetto al circuito dorsale egocentrico, in maniera quasi silenziosa, sotterranea e semi-nascosta, restando autonomo e poco controllato dalla nostra coscienza.

Perché ci risulta così poco familiare l’esistenza di questo altro percorso (pathway), che si riferisce a ciò che è “altro” dal nostro sé? Secondo Austin, perché questo  inizia ad operare in maniera anonima, rispondendo alla domanda “cos’è quell’oggetto?” e, istantaneamente, abilità subconscie e circuiti corticali di riconoscimento identificano tale oggetto e per concludere simultaneamente altre abilità ne decodificano il significato. [1-3]

3. L’Interazione

Sulla base delle due vie precedentemente descritte, secondo Austin, i nostri processi coscienziali ordinari sono inconsapevolmente determinati dalla fusione e sovrapposizione senza interruzioni di continuità delle percezioni e informazioni veicolate da questi due circuiti. [1-3]

Queste dinamiche svaniscono quando l’intera via Egocentrica Dorsale (cioè il sé) viene rilasciata, o meglio controllata, raggiungendo quegli stati di super-consapevolezza definiti “illuminazione” o satori nello Zen. Lo Zen (e in generale il Buddhismo) appunto usa come metafora di questo stato di vacuità senza identità ottenuta dopo l’abbandono da tutti i precedenti attaccamenti: “Il fondo fuoriesce e rilascia il suo contenuto pieno d’acqua”. [1-3]

A questo punto, soppressa la processazione “egocentrica”, la processazione “allocentrica” emerge senza rimanenti veli o limitazioni e le sue innate capacità subconscie, percepite isolatamente, vengono rivelate per la prima volta. Ma prima di approfondire queste dinamiche è utile proseguire nella descrizione di altre strutture cerebrali che intervengono nelle dinamiche cognitive che sottendono a questi stati.

4. Default Network

Oltre alle quattro vie descritte in precedenza (dorsale e ventrale ed egocentrica e allocentrica), le neuroscienze hanno coniato il termine “default network” (letteralmente rete predefinita e/o automatica) per indicare un largo agglomerato di regioni corticali molto eterogenee e anche distanti anatomicamente che però cooperano in modo attivo.

Figura 3 – Principali aree del default network.

Le tre principali e più estese di queste aree occupano la Corteccia Prefrontale (PFC) mediale, la corteccia parietale posteriore mediale e la corteccia laterale del giro angolare, ma ne fanno parte molte altre, come rappresentato in Figura 3 e 4. In questo network e nelle sue diverse estensioni coesistono rappresentazioni contemporanee di funzioni sia  “autobiografiche”, cioè legate al vissuto personale,  che riferimenti spaziali.

Figura 4 – Reti principali del default network.

Sono quindi presenti funzioni legate all’impressione di controllo (sovranità) personale [1-3] e contemporaneamente  ciascuna di queste nozioni mentali riguardanti il nostro sé viene memorizzata come un evento coerente incapsulato nel contesto di un particolare riferimento spaziale o di una particolare situazione. [1]

Secondo Austin, questi dettagli topografici e scenici sono essenziali per permetterci di poter usare questi eventi processati e memorizzati in futuro; infatti soltanto se ciascun episodio è ancorato in un particolare punto del nostro ambiente, e in un particolare momento del nostro personale “time frame” allora ciascuno di questi episodi separati potrà organizzarsi in un dettagliato vissuto personale riutilizzabile anche in futuro, andando probabilmente a costituire le basi di quella che, in maniera molto superficiale e semplicistica, può essere secondo lui definita “Esperienza”. [1-3]

Una piccola osservazione di carattere personale: trovo riduttivo che il concetto di esperienza sia riconducibile soltanto a questa dinamica, anche perché a volte capita che soggetti affetti da amnesia riescano a svolgere delle attività pur senza aver alcuna memoria e/o nessun riferimento spazio-temporale del loro passato.

5. Ritmi e Metabolismo Cerebrale

Da quanto emerso finora il cervello quindi oltre a tutte le normali funzioni deve sostenere una notevole quantità di funzioni e processi legati al proprio vissuto personale e alla percezione del sé. Ma quanto impattano sul metabolismo generale cerebrale tali funzioni e il sostentamento delle aree deputate alla loro processazione?

A questo punto Austin fa un breve riassunto dei principali studi eseguiti con tecniche di imaging dinamiche per valutare il metabolismo cerebrale di tali aree. I primi studi con Tomografia ad emissione di positroni (PET) mostrarono che le vaste aree eterogenee descritte in precedenza riguardanti tutto ciò che è referente al sé richiedevano un metabolismo continuo ed attivissimo anche durante condizioni di apparente riposo. [1,2,5]

Stesse dinamiche erano state rilevate anche tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI) che aveva evidenziato come i segnali provenienti da tali aree diventavano addirittura più attivi (sopra ad arbitrari livelli di base) quando i ricercatori assegnavano ai soggetti in studio degli specifici task (azioni codificate) referenti alla percezione di sé, [1,2,5] mentre si riducevano drasticamente sotto i livelli basali nell’istante in cui uno stimolo esterno catturava l’attenzione del soggetto.

Ulteriori studi di fMRI rivelarono un altro importante fatto: l’attività di queste aree corticali localizzate in posizione mediale e referenti al sé avevano un’attività inversa rispetto a quelle a localizzazione laterale, deputate ai processi attentivi. [1,3]

Secondo Austin, queste due macro-aree cerebrali separate legate una al sé (mediale) e l’altra all’attenzione (laterale) cooperano, ma in direzioni opposte, in maniera sinusoidale creando un lento e spontaneo ritmo endogeno. Questi ritmi reciproci non richiedono per attivarsi di stimoli esterni e ricorrono lentamente, circa tre volte al minuto, in un largo ciclo indipendente. [6]

Lo psicologo svizzero Walter Hess, che vinse il premio Nobel nel 1949, documentò le capacità dinamiche nascoste nelle regioni diencefaliche profonde. [1]

La prosecuzione ad oggi di questi studi rende plausibile l’ipotesi che alcune regioni cerebrali (dentro e attorno al talamo) possano essere l’origine di questi ritmi inversi spontanei documentati nei precedenti studi di fMRI. Dopo tutto questi sono dei cambiamenti a ritmo lento o veloce paragonabili all’ON/OFF di un interruttore che reclutano, ciclicamente, regioni corticali differenti che svolgono attività cruciali sia per i processi attentivi che per la rappresentazione del sé.

6. Ruolo del talamo

Il Talamo è una delle stazioni fondamentali di processazione a livello cerebrale di qualunque tipo di percezione ed esistono intricati circuiti interattivi che collegano e fondono le funzioni talamiche con quelle corticali. [5]

Tutte le nostre sensazioni salgono verso la corteccia attraversando i suoi nuclei (tranne l’olfatto) e quindi, secondo Austin, il talamo funziona come un importante pacemaker per tutto il cervello. In particolare, secondo Austin, risultano fondamentali tre nuclei limbici localizzati anteriormente al talamo che fanno da staffetta per i messaggi ad elevato carico emotivo veicolandoli dal sistema limbico fino alle aree legate al sé della corteccia, ricevendo infine risposte da veicolare in direzione opposta provenienti appunto da queste aree corticali.

Quindi questi tre nuclei limbici interagiscono con la maggior parte di quelle regioni associative corticali evidenziante in precedenza (mediali, egocentriche) organizzate in maniera da rappresentare i principali aspetti autobiografici del nostro sé correlati con le sue memorie topografiche. [1-3] Austin ha dimostrato come questi nuclei e le corrispettive regioni corticali si coattivino non solo durante un acuto emergere di sovraccarico emotivo, ma anche durante il conseguente processo rimuginativo. [1,2,3,5,7]

Tuttavia, nonostante queste connessioni bidirezionali talamo-corteccia semplificate all’estremo da Austin, esse ci forniscono soltanto una piccola e incompleta spiegazione di come tutto il nostro vissuto (percezioni, emozioni etc.) venga registrato e sedimentato nella memoria a lungo termine. Rimangono quindi le seguenti domande:

Come può il cervello liberarsi delle stratificazioni profonde legate alla percezione del sé? Come agiscono le tecniche di meditazione a tal proposito? E nello specifico riguardo allo Zen cosa accade negli stati di aumentata consapevolezza e risveglio come Kensho (uno stato di profonda consapevolezza che precede l’illuminazione) e Satori?

Prima di rispondere a queste domande è necessario introdurre un’ultima struttura encefalica coinvolta in questi processi.

7. Sostanza Reticolare

Il nucleo reticolare è un sottile strato di neuroni che avvolge i contorni del talamo e anche se ad oggi i dati di fMRI non lo contemplano, tuttavia esiste e i suoi neuroni rilasciano GABA, uno dei più potenti neurotrasmettitori inibitori. [5,7]

Potrebbe il GABA secreto da questo nucleo produrre un effetto “auto-annichilente”, cioè di soppressione della percezione del sé ? la risposta secondo Austin è si. E come avverrebbe questo processo? in virtù delle sue capacità selettive di calibrare la sincronizzazione delle nostre normali oscillazioni talamo-corticali. [6,8] Oltre a questa selettività vi sono le capacità di dissociare le funzioni visive dai due grandi circuiti descritti in precedenza, il ventrale e il dorsale. [9]

Il nucleo reticolare non agisce da solo, infatti ha due alleati inibitori, la zona incerta e il nucleo pretettale. La zona incerta rilascia GABA verso i nuclei talamici (incluso quello mediale dorsale) e il nucleo pretettale anteriore proietta sia al nucleo mediale dorsale che al laterale dorsale del talamo.

8. Neurofisiologia degli Stati Meditativi Profondi

Da quanto emerso in precedenza, esistono sostanzialmente dei circuiti con azione opposta, un default network e delle aree legate al talamo e alla sostanza reticolare che, agendo sui sistemi GABAergici sono in grado di sopprimere le vie legate alla percezione del sé.

Le parole anatta, no-self, e “non io” sono tra i termini standard usati per descrivere gli attributi di assenza del sé che si riscontrano in stati avanzati meditativi in cui è possibile manifestare questa soppressione della percezione del sé.

Essa è molto importante non solo, come vedremo, per lasciare emergere altri aspetti che normalmente sono silenziati dalla percezione del sé, ma anche per spiegare ad esempio come  mai le radici profonde delle paure primitive vengano abbandonate nel processo di risveglio della coscienza durante stati meditativi profondi come il Kensho, esattamente come anche la sensazione personale del passare del tempo o acronia, ossia uno stato di coscienza caratterizzato dalla perdita della percezione del passare del tempo. [2,5]

Austin a questo punto si pone alcune domande: “Quali altri network cerebrali potrebbero rimanere attivi durante tali stati coscienziali? Quali evidenze ci offrono una potenziale spiegazione per la genuina impressione di Unità che pervade tutto il nuovo campo di esplorazione coscienziale indotta da questi stati?”

Da quanto emerso finora tra circuiti, strutture e processi cognitivi, secondo Austin, scorrendo la lista dei candidati, i più probabili sembrerebbero i circuiti “allocentrici”. Il loro coinvolgimento nella struttura di riferimento di ciò che è “altro” dal nostro sé non è una nuova esperienza.

Questa prospettiva “anonima” (senza la percezione del sé) è sempre stata lì, svolgendo tuttavia un ruolo nascosto e subordinato al circuito egocentrico del sé. Tuttavia queste risorse legate all’altro da sé, rese libere dalla dominanza del circuito egocentrico del sé, possono essere espresse in una maniera completa e senza inibizioni.

In empty anonymity, this now-unveiled other-referential mode is liberated into the foreground of consciousness, reifying the perfection of the whole mental field with a meaningful global objectivity beyond reach of mere words.

Nel vuoto anonimo, questa modalità svelata legata all’”altro” (o non-sé) è libera di agire sul piano coscienziale, perfezionando tutto il campo mentale con una nuovo significato globale e oggettivo che va oltre la portata delle parole.

E sorprendente quanto questa definizione di Austin[5] sia simile a quella di Dhyana fornita in altre tradizioni di cui abbiamo parlato qui. E ancora più interessanti alcune definizioni del concetto di “illuminazione”, ovvero il coronamento di tutti questi processi meditativi: [10,11]

An astonishingly fresh impression of immanent reality prevails throughout this non-dual state of “Oneness”: all things, seen selflessly in the total absence of fear, are comprehended “as they really are.”
A state of being empty of ego, but full of what can come through [i.e., allo-perception] when that ego has been let go of.

Una sconvolgente nuova impressione di realtà immanente prevale attraverso questo stato di non dualità, di Unità: tutte le cose, viste senza il sé, nella totale assenza di paura sono comprese per “come veramente sono”.
Uno stato di vuota assenza di ego, ma colmo di quel qualcosa che può fluire quando l’ego è stato abbandonato.

Quindi secondo Austin, con il progredire del percorso meditativo la comparsa di una “nuova prospettiva” è preceduta dallo svanire della precedente percezione intrusiva del sé e il suo senso di sovranità.

Quando non esiste più il precedente sé egocentrico il “possessore” di queste percezioni inizia a “sentire” ciò che è intorno a lui con una particolare oggettività sconosciuta in precedenza. [1,2,5-7]

Tuttavia non bisogna concludere che la graduale diminuzione dell’ego durante decenni di pratica Zen rimuova quel pragmatico senso del sé che permette di risolvere le problematiche del vivere quotidiano adattandosi ad esse in un processo di aumentata maturità realistica.

In questo consiste l’allenamento orientato alla dissoluzione di queste distorsioni negative e neurotiche dell’ego che si difende attraverso i suoi condizionamenti e gli attaccamenti legati ad una scorretta percezione del sé. [7]

Precedente allo stato di Kensho viene descritto nella tradizione Zen uno stato denominato di “assorbimento interno”. [1,2] Modelli diversi sono stati proposti per spiegare questo stato alterno di coscienza chiamato “assorbimento interno” [7], che è descritto ad esempio nello Yoga come stadio di pratyahara, ossia appunto di ritrazione dei sensi verso l’interno.

Esso rappresenta uno stato preliminare, non raro durante i primi anni di pratica meditativa regolare. Fenomeni paradossi si possono manifestare in questo stato come visioni su sfondo nero, udire suoni particolari e una diversa percezione “non fisica” di sé dalla testa fino ai piedi.

Una spiegazione plausibile di questi fenomeni, secondo Austin, sono gli iniziali effetti dati dal blocco GABAergico  sul network egocentrico che determina la percezione del sé. [1,2,5-7] Questa inibizione può essere applicata a livello talamico previene la risalita degli impulsi alla corteccia, portando ad una iniziale soppressione delle sensazioni e della percezione del sé.

Conclusione

Da un punto di vista medico, le implicazioni sono molte e molte le domande. Tutto è semplicemente riconducibile ai due circuiti e alle loro interazioni? E i ricordi? E l’elaborazione e sovrapposizione di questi ultimi con ciò che accade ad ogni istante come avviene? E “l’esperienza”?

Sicuramente siamo lontani dal raggiungere risposte esaustive a queste domande, tuttavia ciò che emerge a livello embrionale come ipotesi è la consapevolezza che il cervello non abbia una conformazione strettamente topografica legata alle sue funzioni ma che piuttosto operi per aree che a seconda della situazione e dell’azione necessaria si attivano simultaneamente come un mosaico, creando quindi infinite conformazioni e possibilità di attivazione e quindi infiniti utilizzi e potenziali funzioni del cervello stesso.

Ciò apre ad una visione non più solo bidimensionale del cervello, ma tridimensionale e forse anche quadrimensionale, sempre ammettendo che la nostra mente (non solo la) e la nostra coscienza siano localizzate solo ed esclusivamente lì.

E qui torniamo alla tradizione Zen, che, come abbiamo visto (sempre in Meditazioni per non uscire dal mondo), appartiene a quella molto più vasta corrente secondo la quale la Coscienza è anteriore al senso dell’io stesso con cui si identifica.

Il lavoro di Austin ha il merito di aver fornito una chiave in più, in ambito scientifico, per comprendere come la meditazione, sia essa ottenuta tramite un processo o per immediato riconoscimento, sposti l’accento dall’io alla Coscienza stessa.

Uno slittamento appena impercettibile quanto il passaggio dalla veglia al sonno, “niente di speciale”, che nulla cambia formalmente ma che proprio per questo è l’essenza di un vero ri-conoscimento: ovvero prendere atto della Realtà così com’è, spoglia dalla pretesa di deformarla secondo la propria egocentrica immagine e somiglianza.

Una Realtà che non è soppressione del sé in favore dell’altro, bensì una terza condizione estranea all’esperienza ordinaria ma che non nega l’ordinaria esperienza. Ancora una volta, “niente di speciale”.

 

Bibliografia

[1] Austin JH. Zen and the brain: mutually illuminating topics. Front Psychol. 2013 Oct 24;4:784. doi: 10.3389/fpsyg.2013.00784. Review

[2] Austin JH. Selfless Insight. Zen and the Meditative Transformations of Consciousness. Cambridge, MA: MIT Press, 2009

[3] Corbetta M, Shulman GL. Spatial neglect and attention networks. Annu. Rev. Neurosci. 2011. 34, 569–599. doi: 10.1146/annurev- neuro-061010-113731

[4] Kubit B, Jack A. Rethinking the role of the rTPJ in attention and social cognition in light of the opposing domains hypothesis: findings from an ALE-based 73metaanalysis and resting-state functional connectivity. Front. Hum. Neurosci, 2013, 7:323. doi: 10.3389/fnhum.2013.00323

[5] Austin JH. Zen-Brain Reflections. Reviewing Recent Developments in Meditation and States of Consciousness. Cambridge, MA: MIT Press, 2006

[6] Austin JH. Meditating Selflessly. Practical Neural Zen. Cambridge, MA: MIT Press, 2011

[7] Austin JH. Zen and the Brain. Toward an Understanding of Meditation and Consciousness. Cambridge, MA: MIT Press, 1998

[8] Minn B. A thalamic reticular networking model of consciousness. Theor. Biol. Med. Model, 2010, 7, 10. doi: 10.1186/1742-4682-7-10

[9] Austin J. H. Zen-Brain Horizons. Living Zen With Fresh Perspectives. Cambridge, MA: MIT Press, 2014

[10] Boyle R. What is Awakening? (Appendix 2 is a Personal Summary). New York, NY: Columbia University Press, 2013

[11] Shodo Harada Roshi. “The Path to Bodhidharma,” in The Path to Bodhidharma. The Teachings of Shodo Harada Roshi, eds J. Lago (Transl.) and P. D. Storandt (Boston, MA: Tuttle), 2000, 162

Leggi

Archiviato in:Giappone, highlights, meditazione Contrassegnato con: buddhismo, meditazione, meditazione Novara, neuroscienze, zen

Il Coraggio di Distruggere

10 Novembre 2016 Marco Invernizzi


Può sembrare strano che in molte religioni, non solo orientali, il divino si presenti spesso in veste terrifica e distruttrice.

Di Dio siamo abituati a considerare l’aspetto creativo. A lui ci rivolgiamo per chiedergli di preservare ciò che esiste e con lui ce la prendiamo per i terremoti o se un bambino muore. Tuttavia, siamo riluttanti a prendere seriamente in considerazione il divino come forma radicale di libertà da ogni cristallizzazione, perché la libertà implica conseguenze non prevedibili e non negoziabili per l’esistente.

Questa riluttanza affligge a maggior ragione chi si considera su di un percorso cosiddetto “spirituale” o di “ricerca interiore”, termini che in realtà ci imprigionano in strutture mentali rassicuranti e ben più dure da intaccare di tante convinzioni dell’uomo comune.

Le scuole di Yoga e i centri olistici si trasformano troppo spesso in dormitori dove ci si reca con la propria copertina (in senso lato ma anche letterale) per schiacciare il pisolino e poi tornare a casa. Il fatto è che se realmente le pratiche che vi si svolgono fungessero a qualcosa, anche solo per l’eco lontana che ne portano, la copertina dovrebbe prendere fuoco e la casa crollare.

Prima o poi la vita provvede da sola, e spesso senza molti riguardi, a ripristinare il senso di realtà. Ma se vogliamo avere l’occasione di prendere atto di questa evidenza, allora è necessario avere molto coraggio.

Il Coraggio come Attitudine

fondo-android-mujer-nadando

Coraggio: forza d’animo nel sopportare con serenità e rassegnazione dolori fisici o morali, nell’affrontare con decisione un pericolo, nel dire o fare cosa che importi rischio o sacrificio.

Dizionario Treccani

Non veniamo mai, se non in rarissimi casi, spronati a mostrare coraggio nella nostra vita né ad abituarci a considerarlo un requisito imprescindibile della nostra personalità. Il coraggio infatti rimane spesso una dote da mostrare in occasioni eccezionali, mentre come attitudine di vita può destare non pochi sospetti di sconsideratezza.

Invece, tutta una vasta gamma di altri sentimenti sono giudicati molto più politically correct e compatibili con la visione di vita “tranquilla”, intesa come assenza di perturbazioni e cambiamenti, che viene esaltata nella nostra società in ogni suo aspetto: pensare al futuro, essere previdenti, consolidare la propria posizione. Peccato che il futuro, così inteso, sia la condanna a vivere sotto l’anestesia del passato.

Ma perché bisogna essere per forza “tranquilli”? Cosa c’è di sbagliato nel provare ogni tanto un sentimento che ci porta a compiere delle azioni che normalmente non compiremmo? E quindi, da un punto di vista più profondo, a mettere in discussione aspetti della nostra vita che altrimenti, assonnati e anestetizzati come solitamente siamo, difficilmente decideremmo di mettere in discussione?

Penso che tutto parta da una mancaza di educazione al coraggio, che forse è più corretto definire “attitudine”  che sentimento. Penso inoltre che spesso il coraggio venga confuso con il compiere azioni esagerate e pericolose incuranti della paura che esse generano.

Un po’ come gli stunt man o i cultori di sport estremi che, per il gusto dell’adrenalina che esso genera, compiono le azioni più pericolose ed estreme, mettendo in luce la parte più spettacolare del coraggio, tralasciando tuttavia forse quella più profonda.

Ma il coraggio di cui stiamo parlando non si abbina necessariamente ad azioni mirabolanti o inconsulte. Il coraggio che intendiamo è la capacità di compiere un’azione, anche la più semplice e banale, nonostante la consapevolezza che la sua messa in atto provocherà in noi (e a volte non solo in noi) dei cambiamenti e delle sofferenze necessarie a sovvertire un determinato status quo.

E, cosa più importante, senza essere mai esattamente sicuri di tutte le conseguenze e possibilità che tali azioni determineranno, lasciando quindi un certo margine di indeterminazione su cosa verrà dopo.

courage

Non mi stupisce che non si pensi neanche lontanamente ad educare un bambino ad un simile modo di porsi nei confronti della vita. Se così fosse infatti difficilmente crescerebbe mansueto e controllabile e soprattutto una vita pre-impostata da efficiente “generatore di tranquillità” gli suonerebbe da subito profondamente stonata.

Che scenari divertenti si prospetterebbero all’orizzonte se  non solo singoli individui ma addirittura una massa critica fosse educata ad agire consapevolmente trovandosi a proprio agio con l’attitudine al cambiamento e il conseguente adattamento che esso impone alle singole esistenze. Ma, ahimè, questo avviene solo in casi molto rari.

Coraggio e Cambiamento

butterfly-metamorphosis


Ma quindi il coraggio da solo basta a cambiare il nostro approccio alla vita? Secondo me no. Diciamo che è paragonabile alla scintilla che mette in moto tutto il meccanismo legato al cambiamento.

È la molla che ci spinge a porci nei confronti della vita e della realtà nel modo più oggettivo, adattabile e fluido possibile, senza cercare in maniera utopistica e arrogante di interpretarla e adattarla alla piccolezza dei nostri paradigmi autocostruiti, ma appunto lasciandosi attraversare da essa, senza opporre resistenza, quasi come a lasciarsi trasportare dalla corrente di un fiume senza alcun bisogno di nuotare.

L’essere umano ha una spiccata propensione a generare delle safe-zones rassicuranti e statiche in cui ingabbiarsi nell’illusione di una vita tranquilla e felice. Al contrario, come un fiume in piena, la realtà, per essere almeno intuita, impone di abbandonare qualunque filtro, pre-concetto o dogma, arrivando quasi  a “spalmarsi” su di essa, dissolvendosi nel suo fiume in piena. Che ciò avvenga per progressione o istantaneamente è solo una questione di prospettiva.

Penso che soltanto quando si è pronti a mettere in discussione ciò in cui si crede fermamente e attorno a cui riteniamo erroneamente che ruotino le nostre vite e solo quando si è confidenti con la propensione interiore al cambiamento, ebbene solo in quel momento si inizia ad acquisire la capacità di modificare profondamente qualcosa nella nostra vita. Vita intesa nella sua interezza, senza distinzioni tra Interiore ed Esteriore, che trovo al contrario sterili e fuorvianti.

Cambiare… Distruggere

slide_339810_3487676_free

Penso che vivere in questo modo richieda un grande coraggio, è non è un semplice gioco di parole. Continuare a mettere in discussione le idee preconcette e gli schemi di comportamento che abbiamo creato (o che ci sono stati imposti) fin dall’infanzia per interpretare a modo nostro la realtà è un qualcosa che provoca necessariamente anche dolore e sofferenza.

Ma, parafrasando le parole di Krishna nel Mahabharata (su cui torneremo più avanti), la scelta potrebbe non essere tra guerra e pace, ma tra la guerra e una guerra ancora più catastrofica. Per questo già solo iniziare a porsi nei confronti delle sicurezze in maniera critica implica a mio parere un coraggio fuori dalla norma.[irp posts=”1168″ name=”Il mondo è un recipiente sacro e non si può governare, ma anche sì”]

Il paradosso, è che proprio queste sicurezze sono artifici creati per proteggerci dalla sofferenza e da quell’ignoto a cui il cambiamento ci espone.  Col tempo, la fitta rete di sicurezze crea una distorsione a tratti incolmabile tra la realtà percepita attraverso di loro e la realtà cosiddetta “reale”: evitiamo la sofferenza accettando un’altra sofferenza, più  sorda, più mansueta, ma di cui prima o poi la vita ci renderà il conto.

E qui penso sia doveroso fare un’altra precisazione. A mio parere infatti, il cambiamento e l’abitudine alla sensazione di impermanenza che accompagna questa dinamica sono senza dubbio un ottimo punto d’inizio. La differenza però penso la si faccia davvero solo quando si comincia a passare dal concetto di cambiare a quello di distruggere. Ma perché proprio distruggere?

0000695_nestor-avalos-shiva-the-destroyer-of-worlds
“Shiva the destroyer of worlds” Nestor Avalos

Oltre al differente livello di impegno attivo e consapevolezza che le due azioni sottendono, indubbiamente il concetto di distruzione genera una forte impronta emotiva nel nostro interiore.

Infatti ho notato come si tenda spesso ad associarlo esclusivamente ai suoi aspetti più negativi, devastanti e irreversibili e a concetti poco amati dai più come la morte e la sofferenza.

In realtà, anche nelle culture più antiche, si trova sempre la presenza di un principio divino distruttore, pari grado se non a volte anche comprendente l’aspetto creativo, proprio perché, in maniera estremamente semplicistica, per creare il “nuovo” è necessario prima distruggere il “vecchio”.

Quello che manca nella visione odierna forse è proprio questo aspetto della distruzione. Cioè il fatto che la distruzione non implica esclusivamente la fine irreversibile di qualcosa, nonostante possa essere tremenda e devastante, ma che contempla anche un contemporaneo aspetto creativo dinamico.

Ne risulta quindi un concetto apparentemente contraddittorio, una sorta di distruzione creativa in cui non necessariamente tutto è proprio da buttare nel termovalorizzatore, ma in realtà serve, dopo una elaborazione, una sgrezzatura e una sublimazione a produrre quel “nuovo” che sicuramente è diverso dal “vecchio” ma al contempo conserva qualche caratteristica anche di quest’ultimo.

Proprio perché niente è a priori esclusivamente positivo o negativo. Per capirci meglio è un meccanismo riconducibile alla trasmutazione alchemica, presente in numerose Tradizioni sia Orientali che Occidentali e di cui abbiamo parlato già qui e qui.

E appunto coraggio, cambiamento e distruzione si fondono in un legame indissolubile dove, partendo dalla scintilla che genera il movimento (coraggio), si giunge alla dinamicità (cambiamento) che inevitabilmente porterà alla distruzione, indispensabile per la creazione del “nuovo”.

E nella pratica?

pallet-bonfire6

Quanto detto finora potrebbe sembrare il solito discorso sui massimi sistemi, più o meno condivisibile a seconda del vissuto e degli interessi del singolo lettore, ma poi facilmente accantonabile tra le tante teorie sull’approcciarsi alla vita.

Teorie che spesso ad una prima lettura risultano accattivanti e capaci di rispondere con semplicità alla maggior parte dei nostri quesiti ma che in seguito si rivelano totalmente inapplicabili alla quotidianità. O peggio ancora essere completamente fraintese, confuse cioè con il concetto profondamente fuorviante che la distruzione indiscriminata di tutto ciò che capita sottomano sia una scorciatoia per raggiungere chissà quali traguardi esistenziali.

D’altro canto, quanto detto finora non riguarda solamente scelte eccezionali che un normale individuo compie poche volte nella propria vita, in occasione di importanti passaggi evolutivi legati alla propria storia esistenziale. Niente di più sbagliato. Come detto prima riguardo al coraggio e alla sua “non eccezionalità”, così quanto esposto in precedenza sul cambiamento e sulla distruzione può essere applicato a qualunque momento della nostra vita.[irp posts=”4053″ name=”Marpa, Milarepa, la grandine e le ortiche: viaggio in un Tibet dimenticato”]

Anzi, occorre dare lo stesso peso a cambiamenti con impatti sulla vita quotidiana enormemente diversi, per rendere l’attitudine al cambiamento (e alla distruzione) intrinseca al proprio modo di approcciarsi alla vita.

Come se tutta la vita in fondo, dal gesto più semplice a quello più profondo, fosse un unico susseguirsi di distruzioni e di creazioni in cui il prodotto che via via viene elaborato e raffinato siamo proprio noi stessi. Quindi mettere ogni scelta e il cambiamento conseguente sullo stesso piano significa a mio parere smussare fino ad eliminare completamente l’eccezionalità che aleggia intorno a tutto il processo.

Un altro errore a mio parere molto comune è ritenere che solo chi segue determinati percorsi o pratichi determinate discipline abbia un lasciapassare privilegiato verso determinati modi di approcciarsi alla vita come quanto descritto in precedenza.

Tuttavia, come già affrontato in diversi articoli, questi percorsi non sono del tutto scevri da trappole e ostacoli di percorso che nel lungo possono non solo vanificare tutto il lavoro fatto, ma anche essere controproducenti.

Ritengo inoltre che un altro ingrediente indispensabile sia coltivare quello stato di centratura, attenzione e “ascolto”, indispensabile a cogliere la continua mutevolezza della realtà e gestire il nostro rapportarsi con essa.

In caso contrario, risulta impossibile applicare quanto descritto finora e anzi, il tutto si traduce in un meccanico, vuoto e superficiale tentativo di utilizzo di questi processi, risultando nel lungo più controproducenti che altro.

Da due anni, su questo sito, vengono proposte opinioni, spunti e articoli riguardo allo studio di Vie, Pratiche e Tradizioni volte proprio a coltivare questo stato di attenzione e di “presenza”, anche e soprattutto cercando di demolire i luoghi comuni, i quali non sono altro che cristallizzazioni di attitudini in origini vive e genuine, ma che si sono trasformate in altrettanti dogmi.

Abbiamo quindi tutti gli ingredienti? Purtroppo ancora no. L’ultimo ingrediente infatti, e sicuramente più importante, penso sia la motivazione profonda che muove tutti i processi descritti finora.

universo-immagine

Non necessariamente deve essere chiara da subito. Ma sicuramente senza di quella, e la volontà che da essa scaturisce, difficilmente si riuscirà a mettere in moto seriamente qualunque dinamica descritta in precedenza.

Occorre la volontà di trascendere la realtà come la percepiamo per raggiungere qualcosa che sta al di là non solo della nostra capacità percettiva ma anche della nostra consapevolezza.

Ma più che capire, occorre sentire.

E ciò che eventualmente si “sente” appartiene ad una sfera talmente intima e profonda da essere una modalità unica e irripetibile per ogni singolo individuo, a conferma appunto dell’unicità di ogni singolo essere.

Di più non vorrei aggiungere se non che questa capacità di sentire non può a mio parere essere regolamentata, istituzionalizzata né tantomeno mediata. O c’è o non c è. E se non c’è, molto probabilmente sta semplicemente aspettando il momento più opportuno per farlo.

Non necessariamente questo capacità di sentire sarà propiziata attraverso pratiche psicocorporee estrose, vite ascetiche himalayane o rituali folkloristici. Tuttavia, senza di essa, quanto detto finora perde gran parte della sua forza e applicabilità. Come un motore che va su di giri ma non viene mai inserita una marcia (anche soltanto la prima) che permetta effettivamente di iniziare a muoversi.

Perché Distruggere?

mandala-destroy
Già, perché realizzare un elaboratissimo mandala per poi distruggerlo?

Ma non si può vivere una vita “tranquilla”? Sì, certamente, è possibile. Sono fermamente convinto che il libero arbitrio e la libertà che ne consegue siano la massima espressione di amore concepibile.

Tuttavia, se stiamo cercando risposte a quesiti profondi o se stiamo facendo un “lavoro su noi stessi”, ritengo che non possa mancare una altrettanto sincera e assoluta attitudine alla messa in discussione di se stessi, delle proprie idee e convinzioni e soprattutto una propensione al cambiamento e alla distruzione. Ma c’è dell’altro. Esiste a mio parere una sottile affinità tra cambiamento e il concetto generale di “agire”. E più in particolare, di “agire consapevolmente”.

Niente rimane mai fermo, anche se si è convinti secondo i propri riferimenti sensoriali e spazio temporali di essere fermi: e spesso, in realtà, ci stiamo muovendo molto più velocemente di quanto pensiamo. Pertanto l’immobilità, l’inazione e la conservazione dello status quo sono caratteristiche aliene dalla vera natura della realtà che ci contiene, siccome essa stessa è un continuo susseguirsi di creazioni e distruzioni.

L’idea quindi che sia possibile “fermare” una qualunque situazione o “non agire” è solo frutto dell’illusione e dei “filtri” che la alimentano illudendoci appunto di poter stare fermi indipendentemente da ciò che invece si muove e muta continuamente intorno a noi.

A questo proposito, penso possa aiutare un bellissimo estratto dalla versione del Mahabharata di Peter Brook, su cui si è svolta recentemente a Zénon una conferenza con Carola Benedetto e Luciana Ciliento. In quell’occasione non poteva mancare un approfondimento della scena in cui l’eroe Arjuna sta per soffiare nella conchiglia e dare il via alla terribile battaglia che lo vedrà scontrarsi con i suoi stessi parenti, ovvero l’episodio che rappresenta la Bhagavad Gita, cuore del Mahabharata stesso e testo sapienziale di enorme importanza.

Quando Arjuna vede schierati davanti a sé lo zio, i suoi cugini e il suo amato maestro d’armi, si sente annientato e abbandonando arco e frecce si rifiuta di combattere. Si rivolge al suo auriga Krishna (che è in realtà il dio Vishnu in forma umana) e gli chiede: perché dobbiamo combattere? Perché dobbiamo agire, pur sapendo di non poter evitare terribili conseguenze? Non è meglio allora rinunciare all’azione?

Krishna gli risponde che è impossibile evitare di agire. E di seguito le sue parole penso illuminino con estrema chiarezza il senso di quanto detto finora…

Da notare che Vishnu/Krishna non è legato tradizionalmente all’aspetto distruttivo, che è proprio di Shiva, ma alla conservazione (la trimurti è completata da Bhrama, il creatore). Questo è un particolare molto interessante, che nella versione di Peter Brook emerge in tutto il suo apparente paradosso: Vishnu ‘discende’ in forma umana ogni qual volta l’ordine cosmico (il dharma) sia a repentaglio, durante i tumulti che accompagnano ogni passaggio epocale come quello raccontato nel Mahabharata.

Ci si potrebbe quindi aspettare che Krishna agisca da pacificatore, e invece è proprio lui che appicca il fuoco, portando all’esasperazione i conflitti tra i cugini Kaurava e Pandava: a volte è necessario distruggere per conservare, mentre cercare di conservare gli equilibri formali è la forma più nichilista di distruzione.

Vivere Distruggendo

domino

Ovviamente vivere in questo modo non è affatto semplice e non permette di “sedersi”. Il continuo processo di distruzione e di creazione ci sottopone a una progressione non  lineare ma spiraliforme, una sorta di raffinazione continua di un minerale per ottenere un metallo sempre più puro.

Mettere in pratica veramente questi principi implica una scelta consapevole che spesso può avere degli effetti esplosivi (sia in positivo che in negativo) sulla vita anche ordinaria di un individuo. Vivere senza alcuna certezza o appiglio, travolti da questo continuo dinamismo, alla lunga può logorare se si conserva una resistenza profonda a questo meccanismo, come se venisse accettato soltanto in superficie ma negli abissi dell’interiore venisse al contrario ostacolato.

In realtà il segreto per non “bruciarsi col fuoco” non è tanto accettare la resistenza in maniera passiva o fingere che non esista. Né ricrearsi delle piccole valvole di sfogo per quei momenti in cui proprio non ce la si fa più.

Farsi attraversare dalla realtà e “spalmarsi” su di essa vuol dire arrivare ad un certo punto a dissolvere la propria forma. Tuttavia la dissoluzione non implica un annullamento, ma la capacità di assecondare la mutevolezza della situazione senza tuttavia perdere la propria natura originaria. Ancora una volta, distruzione e conservazione: la fedeltà a sé stessi implica apparenti incoerenze esterne verso le forme cristallizzate.

[irp posts=”4572″ name=”Meditazioni per non uscire dal mondo”]Solo in questo modo è possibile generare la minima resistenza al cambiamento e non venirne sopraffatti e infine annientati.

Sicuramente un effetto collaterale insormontabile (o almeno credo) è il senso di una profonda solitudine, che tuttavia è tale solo se si conserva una visione ancora parziale.

E c’è anche, certo, il rischio di essere considerati folli. Ma non esiste forse in tutte le Tradizioni la stretta vicinanza tra il concetto di follia e quello di divino, proprio a dimostrare come uno stato di fusione completa con ciò che ci circonda sia percepibile dall’esterno come appunto follia? E di personaggi che hanno sperimentato questi stati non ne troviamo descritti in ogni Tradizione e luogo della Terra? E forse, per arrivare anche solo a sfiorare per un istante la Verità, non bisogna essere dei folli?

Tantra

skull-tantrik

Coraggio, cambiamento, distruzione, trasmutazione: è inevitabile cogliere come comune denominatore di questi aspetti un termine a me molto caro, che in sé racchiude un mondo, ovvero il Tantra. Raramente riguardo a un singolo termine sono esistite così tante imprecisioni e fraintendimenti. Soprattutto nel mondo Occidentale.

Lasciamo pure perdere l’abnorme e sintomatica identificazione con gli aspetti legati alla sessualità, che hanno generato interpretazioni che rivelano tutte le problematiche profonde nell’affrontare l’argomento: da un lato il sogno della disinibizione assoluta di una pulsione con cui non si riesce a interfacciarsi serenamente; dall’altro il tentativo di commercializzare il tantra come forma di counseling per coppie afflitte da calo di desiderio.

Ma anche mettendo da parte questo, il tantra spesso si risolve in tentativi vani di concettualizzare e categorizzare qualcosa che appunto per sua natura è pura esperienza e quindi non concettualizzabile né tantomeno trasmissibile a parole.

Religione, Filosofia, Via, stile di vita. Nessuna di queste definizioni mi ha mai convinto pienamente. Impossibile da inquadrare cronologicamente, unico nelle sue modalità, se obbligato e controvoglia dovessi provare a definirlo, lo intenderei come una Scienza Interiore, altamente evoluta, capace di permettere il completo controllo della mente e dei suoi processi. Ma ancora risulterei estremamente impreciso e carente… Il Tantra va vissuto. Anzi, forse è l’unica strada secondo il mio modesto parere, per Vivere veramente, nel senso più profondo e completo la nostra esistenza.

Anche se questo ovviamente richiede un grande coraggio.

Ringrazio Francesco Vignotto per la scelta iconografica e per la revisione del testo

Leggi

Archiviato in:Uncategorized Contrassegnato con: bhagavadgita, tantra

Marpa, Milarepa, la grandine e le ortiche: viaggio in un Tibet dimenticato

2 Marzo 2016 Marco Invernizzi


Milarepa fu mago, poeta ed eremita. Lo fu successivamente ed in modo così completo che i Tibetani fanno fatica a non separare questi tre personaggi e, a seconda del loro punto di vista di maghi, di laici o di religiosi, Milarepa è il loro più grande mago, poeta o santo. Questo essere singolare visse nell’undicesimo secolo della nostra era e la sua memoria è ancora viva nel Tibet come fosse di una personalità da poco scomparsa.

Jacques Bacot – Vita di Milarepa

Introduzione

Il Tibet da sempre mi ha affascinato. Sarà per la sua inaccessibilità, sarà per le montagne,  il “tetto” del mondo, o sarà per l’alone di misticismo che lo avvolge. Forse, più probabilmente, ciò che mi ha sempre attratto è l’unicità della sua tradizione e di ciò che si è venuto a creare in questo luogo: un crogiolo di culture, tradizioni, religioni e misticismo che ha dato vita ad un qualcosa che viene etichettato sotto il nome di Buddhismo Tibetano ma che in realtà comprende appunto aspetti e tradizioni molto diverse, riorganizzate, metabolizzate ed integrate in un corpus originale che difficilmente trova pari al mondo, e di cui appunto non è facile cogliere le radici profonde in cui affonda.

Citipati
I Citipati sono divinità protettrici del Dharma (termine sanscrito che indica la dottrina, intesa come dovere/destino sia individuale che collettivo, ma anche come il corpus degli insegnamenti del Buddha) raffigurate come due scheletri – di uomo e di donna – danzanti in un cimitero. La loro danza ha il compito di ricordare l’impermanenza dei fenomeni sensibili, l’incessante danza della morte e la presa di consapevolezza su tutto ciò. Esistono diverse leggende riguardo alla loro origine, tutte tipicamente tibetane. Secondo una di esse,i Citipati erano in origine una coppia di monaci talmente assorti nella propria danza estatica in profonda meditazione, che non si accorsero di essere stati uccisi da due ladri che li avevano sorpresi, ma continuarono a danzare.

Un qualcosa di unico che poteva probabilmente svilupparsi solo e soltanto in un luogo così estremo; una terra, come ho già evidenziato in questo altro articolo, dove i contrasti più aspri e gli assoluti sono di casa e dove la spiritualità e la ricerca interiore sono stati per tempo immemore la massima aspirazione a cui dedicare la propria esistenza. Tuttavia, più volte mi è sembrato di percepire che in Occidente ne sia stata tramandata e idealizzata una versione edulcorata, mentre questa tradizione al contrario poggia anche su aspetti tutt’altro che docili e amorevoli. E la storia di Milarepa ne è un esempio a mio parere lampante.

Marpa e Milarepa

Milarepa3
Marpa, discepolo di Naropa,  dedicò molti anni alla traduzione delle copie manoscritte dagli insegnamenti tantrici che aveva ricevuto in India.  Fu un maestro particolarmente difficile, noto sia per i suoi scatti d’ira che per la sua generosità e il suo buon umore. Dopo aver posto saldamente le basi per lo sviluppo della tradizione Kagyu in Tibet, egli lasciò il suo corpo nel 1097, all’età di 85 anni.

Come emerge dal breve estratto nell’incipit di questo articolo, Milarepa è il personaggio più singolare e poliedrico della tradizione tibetana. La “Vita di Milarepa” è un resoconto dettagliato non solo del cammino di redenzione di Milarepa, ma anche del percorso interiore e del rapporto intenso col suo maestro Marpa, che lo hanno condotto alla Bodhi, cioè alla realizzazione spirituale, in una sola vita.

Al di là degli aspetti più pittoreschi e a tratti divertenti riguardo la cultura Tibetana che traspaiono in ogni pagina, a “Vita di Milarepa” va riconosciuta una grande qualità. Infatti riesce a mio parere a trasmettere un qualcosa di unico e complesso e cioè quella tensione, costante e a tratti estrema, che produce la volontà focalizzata, indispensabile anche solo per avvicinarsi ad un qualunque serio percorso di Ricerca.

A maggior ragione, questa qualità  doveva essere espressa ancora maggiormente in un personaggio come Milarepa che, dovendo liberarsi dal fardello karmico enorme legato alle azioni deplorevoli e criminali commesse in giovane età, si ritrovava a percorrere un cammino ancora più arduo e in salita di quanto già non sia in condizioni normali. E sarebbe stato impossibile appunto percorrerlo senza avere dalla propria una volontà assoluta, disposto a sacrificare qualunque cosa, inclusa la propria vita, per il raggiungimento del proprio fine, cioè la Bodhi.

In questo risulta molto istruttivo e illuminante, come abbiamo detto, il rapporto tra Milarepa e il suo Maestro Marpa, capostipite del lingnaggio Kagyupa – ancora oggi esistente – e detentore della dottrina dei Quattro Supremi Tantra che a sua volta aveva ottenuto dal suo maestro Naropa (Naro) durante i suoi viaggi in India.

“Per purificarti dalle tenebre del peccato, ti ho caricato del lavoro via via più terribile delle torri. Tuttavia ogni volta che ti scacciavo crudelmente dal numero degli ascoltatori e che ti colmavo di dolore, tu non avevi pensieri cattivi contro di me.”

Bhutanese_painted_thanka_of_Milarepa_(1052-1135),_Late_19th-early_20th_Century,_Dhodeydrag_Gonpa,_Thimphu,_Bhutan
Milarepa (1051 – 1135) esponente del lignaggio Kagyu Tibetano che discende da Tilopa, Naropa e Marpa, il suo maestro appunto.

Così dice Marpa infine, prima di concedere a Milarepa i tanto agognati insegnamenti, dopo averlo sottoposto a qualunque tipo di prova e di angheria (tra cui la costruzione di una torre più volte fatta edificare e quindi demolire), portandolo all’estremo esaurimento fisico e mentale, fino a fargli sfiorare la disperazione più buia e addirittura l’idea del suicidio.

Durante tutto questo calvario, l’unico aiuto che Milarepa riceve viene dalla moglie del suo Maestro Marpa che, oltre a sostentarlo fisicamente, lo rincuora e lo sostiene, dopo ogni episodio in cui Marpa ha deciso di mettere alla prova la sua reale dedizione e motivazione. E difficilmente Milarepa avrebbe resistito senza questo prezioso sostegno, a tratti materno, a tratti a sua volta iniziatico, in quanto anche la “padrona” (così è chiamata spesso nel libro oltre che “madre”) elargisce insegnamenti preziosi a Milarepa, a volte iniziandolo lei stessa a pratiche legate in particolar modo alle divinità tibetane tantriche femminili. E in questo tradisce il suo ruolo non solo di consorte fisica di Marpa ma anche di consorte tantrica, esprimente una qualità complementare a quella veicolata dal marito.

Le prove terribili a cui Marpa sottopone Milarepa hanno quindi un duplice senso: da una parte esaurire tutte le conseguenze dalle terribili azioni commesse in gioventù e dall’altra testarne e accrescerne in potenza quella volontà e risoluzione indispensabili a procedere sul sentiero verso la realizzazione. E Milarepa stesso esprime perfettamente in questo dialogo con sua sorella quanto appunto debba essere “terribile” e “assoluta” tale risoluzione :

Il lama Marpa della Roccia del Sud mi ha dato questo precetto: 

“Tu rinuncerai al rumore e all’agitazione che governano il mondo. Povero, rinuncerai al cibo, alle vesti e alla parola. Ti ritirerai in qualche luogo solitario e prima di ogni altra cosa porterai a compimento la terribile risoluzione di meditare per tutta la vita.”

È quest’ordine che io adempio… e volendo io ottenere la Bodhi in questa vita, con ardore io mi sono consacrato alla meditazione.

lo strumento più importante, oltre agli insegnamenti orali segreti che Marpa dona a Milarepa è la tecnica del fuoco interiore (Tummo) che gli permette, oltre a penetrare stati meditativi profondissimi, di vivere nelle grotte himalayane coperto solo da qualche povera e stracciata veste di cotone.

Marpa pensò: “Bisogna che dia ad ognuno dei miei discepoli la sua legge particolare e il suo dovere da compiere”. A me diede la legge eminente del calore mistico (Tummo), simile ad un fuoco di legna ben ordinata”

Ydam, Grandine e ortiche

Un commento completo sulla “Vita di Milarepa” richiederebbe non un articolo ma un trattato di una tale lunghezza e complessità che è ben al di là della mia portata e sulla cui reale utilità ci sarebbe da discutere.

Trulkhor tummo
il Fuoco Interiore (Tummo)

Preferisco invece considerare questo libro come uno di quei testi da “rileggere” ogni tanto, proprio perché, come altri, racchiude in se diversi livelli di significato che possono essere penetrati soltanto a seconda di quanto noi stessi mutiamo nel tempo e la “rilettura” appunto ci permette di cogliere aspetti e insegnamenti che  in un altro momento della nostra vita non ci erano completamente accessibili. O semplicemente non volevamo o potevamo coglierli.

Tutta la vita di Milarepa è caratterizzata da eccessi, un tema tra l’altro molto caro al tantrismo. Milarepa nella sua vita passa da un eccesso all’altro: prima una vita votata alla magia nera, alla vendetta e ai crimini, successivamente un cammino di ‘recupero’ durissimo ed estenuante, seguito da un periodo di ascetismo e rinuncia totale a qualunque cosa, persino il proprio corpo.

E in questo ultimo periodo si colloca l’evento che è riportato anche nel titolo di questo articolo, in cui Milarepa, dopo lungo tempo passato a meditare in una grotta nutrendosi soltanto di ortiche, esasperatamente magro, assume il colore verde nella pelle e nei peli del corpo. La sua figura risultava talmente orribile e agghiacciante che alcuni viandanti lo scambiarono per uno spettro. Da qui l’abitudine a rappresentare Milarepa nudo, a volte di colore verde, coperto soltanto di una piccola misera veste di cotone.

Heruka_2009B
Heruka Chakrasamvara – Ydam che compare più volte nel testo, considerato la radice del Tantra

E gli eccessi caratterizzano anche i luoghi  e la cultura del Tibet in cui si svolge la narrazione. Ci troviamo in un mondo, decida il lettore se crederci o meno, in cui esistono delle forze terribili, in parte evocabili dall’uomo, che possono influire sugli eventi sia in maniera positiva che estremamente negativa. Gli Ydam, o protettori del Dharma, possono essere ad un tempo feroci custodi delle dottrine dalle insidie che le possono minacciare, oppure tremendi dispensatori di catastrofi. E la variabile che decide la loro polarità è sempre l’uomo, a testimonianza, come già descritto qui, che non può esistere un qualcosa che è sempre benefico a prescindere, a meno che il suo reale beneficio sia illusorio.

Hayagriva
Hayagriva – un altro Ydam che compare nel testo

Gli Ydam appunto ricorrono in tutto il racconto, sia quando Milarepa ottiene dal suo mentore di magia nera le formule per lanciare la grandine sui raccolti a piacimento e portare distruzione nel suo villaggio natale, sia quando Marpa officia rituali e dispensa ai discepoli le iniziazioni tantriche agli Ydam  che sono appunto i custodi di particolari dottrine e rivelazioni divine.

Non lasciamoci ingannare da quella che solo in superficie è la storia di una “redenzione”, ma è in realtà la presa di coscienza estrema dell’impermanenza del mondo dei sensi, presa di coscienza che al tempo stesso richiede che tale mondo sia attraversato in ogni suo aspetto, oltre il bene e il male. Proprio per questo, nella dimensione tibetana il bianco e il nero sono molto più sfumati di quello che sembra e coesistono in un rapporto di tolleranza, e può sembrare assurdo che siano considerati lama sia i praticanti di magia nera che esseri illuminati e ‘positivi’ come Marpa.

Ma è proprio in questo che si nasconde uno dei messaggi più importanti di questa cultura e di questo libro: la luce e la sua assenza sono semplicemente due aspetti complementari di un qualcosa che è Unico ma necessità della dualità per manifestarsi ed essere percepito. E non a caso una delle vette più alte se non la più alta del buddhismo tantrico tibetano è il raggiungimento della non-dualità. E il passare di Milarepa da un eccesso all’altro è probabilmente il suo modo di realizzare il proprio cammino verso la Bodhi, attraversando la dualità e superandola, in maniera ovviamente assoluta e terribile.

Conclusione

Assoluti, contrasti feroci ed esperienze al confine dell’incredibile e soprattutto improponibili per la nostra cultura e visione del mondo: tutto ciò può sembrare assurdo e a tratti ridicolo, tuttavia è proprio Milarepa, col suo percorso poco “umano”, a mostrarci come la Via sia potenzialmente percorribile da ogni essere umano e la sua storia di miseria, disperazione, crimini terribili a cui seguono, forse proprio grazie ad essi, le più alte vette spirituali, simboleggia anche come, se si è sul sentiero giusto, a prescindere da dove si parta, si abbia sempre la possibilità di raggiungere la realizzazione, anche in una vita.

Non per sé ma per il bene di tutti gli esseri.

Mi sono inflitto la privazione di cibo, di vesti e di parola. Ho fortificato la mia anima. E senza preoccuparmi delle prove imposte al mio corpo andai a meditare nelle montagne deserte. Allora si manifestò la virtù dello stato di spiritualità. Anche voi seguite il mio esempio con tutto il vostro cuore.

Jetsun Milarepa

L’immagine di copertina di questo articolo è di Socrates Geens.

Leggi

Archiviato in:Tibet

Lo Yoga e la Gravidanza: appunti di viaggio

12 Novembre 2015 Marco Invernizzi


Quando sono rimasta incinta praticavo yoga già da alcuni anni in modo costante, e ciò ha provocato numerosi commenti da parte di amici e conoscenti con frasi ricche di ammirazione/curiosità/luoghi comuni che mi hanno fatto render conto di quanta “falsa percezione della realtà” aleggi in merito allo yoga in generale, ma ancor più dello yoga in gravidanza…
…quando si è incinta si ha una capacità di introspezione e predisposizione all’ascolto superiore alla norma. È un’opportunità che permette di cogliere più in fretta l’essenza dello yoga. Una possibilità unica che solo noi donne abbiamo. E che a volte addirittura può trasformarsi in un nuovo modo di vivere la vita. Uno “stato di introspezione da gravidanza” se non proprio costante, almeno frequente. Un dono aggiuntivo che un figlio regala, un’ulteriore possibilità di crescita personale, che inizia prima del rapporto madre/figlio e che può aiutare anche a crearne le basi.

Questi sono due brevi estratti di una testimonianza sullo Yoga in gravidanza che gentilmente Erika, praticante di Yoga da diversi anni, ha deciso di pubblicare e che si trova nella versione completa in fondo a questo articolo.

La gravidanza e il parto sono due temi che non mi hanno mai interessato più di tanto, probabilmente perché mi occupo a livello professionale o di sportivi o di anziani, o perché non ho mai avuto parenti, amici o persone vicine che sono passate attraverso questa esperienza.

Fatto sta che questo evento non mi ha mai toccato più di tanto, non solo dal punto di vista medico ma anche umano. Ovviamente non c è mai nulla come provare di persona una determinata esperienza per assaporarne tutte le sfumature, consapevole tuttavia che il ruolo dell’uomo (inteso come sesso maschile) in questo misterioso e mistico evento rimane, al di là di un fondamentale sostegno, sempre marginale.

Tra le varie attività proposte in gravidanza lo Yoga è ormai abbastanza ben accettato come benefico, non solo per favorire l’elasticità dei tessuti e la mobilità articolare (soprattutto del bacino) ma anche per il controllo della respirazione e il rilassamento.

Tuttavia, come già emerso in altri articoli sullo Yoga pubblicati su questo sito, la percezione  personale è che regni ancora molta confusione a riguardo, sia tra chi non conosce lo Yoga, sia tra chi già lo pratica. E quindi, un po’ per curiosità personale e un po’ per deformazione professionale, sono partito da ciò che mi è più familiare, lasciando lo studio dei testi classici ad un secondo momento e chiedendomi invece cosa la Medicina consigli o ritenga utile come attività durante il periodo della gravidanza e cosa la Scienza abbia studiato e abbia da dire a tal proposito.

Confesso che la curiosità sia stata anche dettata da un volantino dato a mia moglie al primo controllo post-parto riguardo degli esercizi del piano perineale. “Li faccia tutti i giorni, servono e fanno bene”. Ma ad una prima occhiata ricordavano subito qualcosa di molto familiare per chi ha qualche dimestichezza con lo yoga.

moola
Mula bandha è la contrazione della muscolatura pelvica (nell’uomo) o dell’area della cervice (nelle donne). La valenza di questa pratica va molto al di là del piano meramente fisico (lo scopo è di prevenire la dispersione dell’energia dal basso) anche se è uno strumento molto valido per prevenire o risolvere il prolasso delle pelvi. Lo yoga, peraltro, comprende anche almeno altre due forme di contrazione molto specifiche di quest’area: quella dell’ano (ashwini mudra) e quella dell’uretra (vajroli/sahajoli). (L’immagine è tratta da Asana, Pranyama, Mudra Bandha di S. Satyananda)

 

Due dati di epidemiologia…

Ad oggi moltissime linee guida ginecologiche e ostetriche raccomandano che tutte le donne in gravidanza si mantengano attive fisicamente conducendo esercizi di training cardiovascolare e di rinforzo muscolare, preferibilmente con cadenza quotidiana. 1Artal R, O’Toole M. Guidelines of the American College of Obstetricians and Gynecologists for exercise during pregnancy and the postpartum period. Br J Sports Med 2003;37:6–12.
Wolfe LA, Davies GAL. Canadian guidelines for exercise in pregnancy. Clin Obstet Gynecol 2003;46:488–95.
Royal College of Obstetricians and Gynaecologists. Exercise in pregnancy, 2006; Statement 4.
Lauren N Wood, Jennifer T Anger. Urinary incontinence in women. BMJ:2014;349:g4531
Mørkved S, Kari B. Effect of pelvic floor muscle training during pregnancy and after childbirth on prevention and treatment of urinary incontinence: a systematic review. Br J Sports Med 2014;48:299–310. doi:10.1136/bjsports-2012-091758

Tuttavia la prescrizione dell’esercizio è più dettagliata per la componente cardiovascolare mentre per la parte di rinforzo non esistono protocolli precisi.2Kramer MS. Aerobic exercise for women during pregnancy (Review). Cochrane Database Syst Rev 2006 Jul 19;CD000180.
Melzer K, Schutz Y, Boulvain M, et al. Physical activity and pregnancy. Sports Med 2010;40:493–507.

Queste attenzioni e raccomandazioni derivano dal fatto che la gravidanza ed il parto sono fattori di rischio noti per l’indebolimento ed il danno al pavimento pelvico proprio perché in alcuni casi il traumatismo a carico dei nervi periferici, del tessuto connettivo e del compartimento muscolare può causare incontinenza urinaria e fecale, prolasso degli organi pelvici, disfunzioni sessuali e sindromi da dolore cronico pelvico.3Bump R, Norton P. Epidemiology and natural history of pelvic floor dysfunction. Obstet Gynecol Clin North Am 1998;25:723–46.

I dati in letteratura ci dicono che circa il 50% delle donne perde alcune funzioni di supporto del pavimento pelvico a causa del parto,4Swift SE. The distribution of pelvic organ support in a population of female subjects seen for routine gynecologic health care. Am J Obstet Gynecol 2000;183:277–85. e ricerche recenti tramite indagine ecografia e RM riportano la prevalenza di danni maggiori a carico dei muscoli del pavimento pelvico nel 20-26% dei parti per via vaginale.5DeLancey JO, Kearney R, Chou Q, et al. The appearance of levator ani muscle abnormalities in magnetic resonance images after vaginal delivery. Obstet Gynecol 2003;101:46–53.
DeLancey JOL, Low LK, Miller JM, et al. Graphic integration of causal factors of pelvic floor disorders: an integrated life span model. Am J Obstet Gynecol, 2008;199:610.e1–5.
Dietz PH, Lanzarone V. Levator trauma after vaginal delivery. Obstet Gynecol 2005;106:707–12.

Quindi, in termini pratici, la letteratura sottolinea come il parto per via vaginale può essere considerato equivalente ad un danno maggiore da sport, ma tuttavia non viene fornita la stessa attenzione riguardo sia alla prevenzione delle complicanze che tantomeno al loro trattamento.

Tra tutte le sequele negative del post parto l’incontinenza urinaria è sicuramente il sintomo prevalente delle disfunzioni del pavimento pelvico. Ma giusto per dare una misura del problema incontinenza vale la pena di inquadrarlo da un punto di vista più ampio: infatti l’incontinenza urinaria colpisce circa 200 milioni di persone al mondo con una prevalenza nel sesso femminile del 55% (cioè significa che il 50% delle donne sperimenterà almeno una volta nella vita delle problematiche di incontinenza), risultando in dei costi socio-sanitari diretti ed indiretti enormi, contando che il problema spesso è sottostimato per una certa reticenza a rivolgersi al medico per tali problematiche.

Inoltre, nella popolazione femminile generale, l’incontinenza urinaria spesso determina la cessazione dell’esercizio e dell’attività fisica, oltre a essere un limite enorme per la vita di relazione e sociale.6Bø K. Urinary incontinence, pelvic floor dysfunction, exercise and sport. Sports Med 2004;34:451–64. Per quanto riguarda la gravidanza, tra il 40 e l’80% delle donne incinte sperimentano una qualunque forma di incontinenza legata alla gravidanza e la prevalenza di incontinenza post parto si assesta intorno al 20% per il parto vaginale e al 15% per il cesareo, a dimostrazione che non è tanto il traumatismo del parto in sé a determinare tale disabilità ma forse le modificazioni del corpo femminile che avvengono per 9 mesi.

Per fortuna la maggior parte dei casi va incontro ad una sostanziale remissione entro il primo anno post-parto, ma purtroppo alcuni non si risolvono e addirittura peggiorano nel caso di successive gravidanze.

Sorprendentemente gli esercizi di rinforzo del pavimento pelvico non sono ad oggi citati nelle Linee guida dell’American College of Obstetricians and Gynecologists,7Artal R, O’Toole M. Guidelines of the American College of Obstetricians and Gynecologists for exercise during pregnancy and the postpartum period. Br J Sports Med 2003;37:6–12. e sono solo brevemente citati nelle Linee guida Inglesi e Canadesi. Inoltre, nelle linee guida esistenti o non esistono riferimenti ad evidenze provenienti da studi clinici, oppure se esistono sono molto poche.8Wolfe LA, Davies GAL. Canadian guidelines for exercise in pregnancy. Clin Obstet Gynecol 2003;46:488–95.
Royal College of Obstetricians and Gynaecologists. Exercise in pregnancy, 2006; Statement 4.

Domande…

Le domande che emergono dai lavori recenti e che anch’io mi sono posto sono quindi le seguenti:

1- Bisogna consigliare a donne in gravidanza di praticare esercizi per la muscolatura del pavimento pelvico per prevenire o trattare l’incontinenza? e anche nel post-parto?

2- Qual è l’ottimale intensità di esercizio del pavimento pelvico nel periodo pre e post parto per prevenire e trattare in modo efficace le disfunzioni del pavimento pelvico?

3- Esiste un beneficio a lungo termine dell’esercizio muscolare del pavimento pelvico effettuato durante la gravidanza?

e forse la domanda più importante di tutte:

4- L’esercizio in sé è sufficiente o serve anche “ALTRO”?

La letteratura

europalia_india_image_02

Come accennato, ad oggi esistono pochi studi e abbastanza contrastanti riguardo interventi nel periodo pre- e post- parto atti a prevenirne le complicanze più comuni, tra cui l’incontinenza sicuramente è quella più importante, più frequente e quindi più studiata.

Effetti clinicamente rilevanti e statisticamente significativi di tali interventi sono stati documentati in 7 trials clinici, 9Dias A, Assis L, Barbosa A, et al. Effectiveness of perineal exercises in controlling urinary incontinence and improving pelvic floor muscle function during pregnancy (abstract). Neurourol Urodyn 2011;30:968.
Ko PC, Liang CC, Chang SD, et al. A randomized controlled trial of antenatal pelvic floor exercises to prevent and treat urinary incontinence. Int Urogynecol J Pelvic Floor Dysfunct 2011;22:17–22.
Stafne S, Salvesen K, Romundstad P, et al. Does regular exercise including pelvic floor muscle training prevent urinary and anal incontinence during pregnancy? A randomised controlled trial. BJOG 2012;119:1270–80.
Gorbea Chavez V, Velazquez Sanchez MdP. Efecto de los ejercicios del piso pelvico durante el embarazo y el puerperio en la prevencion de la incontinencia urinaria de esfuerzo (Effect of pelvic floor exercise during pregnancy and puerperium on prevention of urinary stress incontinence). Ginecol Obstet Mex 2004;72:628–36.
Mørkved S, Bø K, Schei B, et al. Pelvic floor muscle training during pregnancy to prevent urinary incontinence: a single-blind randomized controlled trial. Obstet Gynecol 2003;101:313–19.
 mostrando una significativa riduzione dei sintomi, degli episodi di incontinenza o una riduzione della percentuale di donne con incontinenza nella fase tardiva della gravidanza o durante i primi tre mesi dal parto.

Uno specifico intervento di prevenzione dell’incontinenza con esercizi di rieducazione del pavimento pelvico è stato mostrato nei seguenti studi, 10Stafne S, Salvesen K, Romundstad P, et al. Does regular exercise including pelvic floor muscle training prevent urinary and anal incontinence during pregnancy? A randomised controlled trial. BJOG 2012;119:1270–80.
Gorbea Chavez V, Velazquez Sanchez MdP. Efecto de los ejercicios del piso pelvico durante el embarazo y el puerperio en la prevencion de la incontinencia urinaria de esfuerzo (Effect of pelvic floor exercise during pregnancy and puerperium on prevention of urinary stress incontinence). Ginecol Obstet Mex 2004;72:628–36.
Mørkved S, Bø K, Schei B, et al. Pelvic floor muscle training during pregnancy to prevent urinary incontinence: a single-blind randomized controlled trial. Obstet Gynecol 2003;101:313–19.
Reilly ET, Freeman RM, Waterfield MR, et al. Prevention of postpartum stress incontinence in primigravidae with increased bladder neck mobility: a randomised controlled trial of antenatal pelvic floor exercises. BJOG 2002;109:68–76.
in cui, tra l’altro, non sono stati riportati eventi avversi durante tali trattamenti. Già qui quindi ho trovato alcune risposte (poche in verità) alle prime due domande che mi ero posto: esistono studi a riguardo e indicazioni precise sulle modalità di trattamento? La risposta ad entrambe le domande è “si”, ma pochi sia in termini numerici che di precisione sull’indicazione terapeutica.

Riguardo alla terza domanda sul follow up e la durata del risultato ottenuto esistono pareri discordanti. Infatti alcuni studi hanno riscontrato l’assenza di mantenimento dell’effetto positivo sia ad un anno di follow-up,11Sampselle CM, Miller JM, Mims BL, et al. Effect of pelvic muscle exercise on transient incontinence during pregnancy and after birth. Obstet Gynecol 1998;91:406–12. che ad 8 anni di follow-up, 12Reilly ET, Freeman RM, Waterfield MR, et al. Prevention of postpartum stress incontinence in primigravidae with increased bladder neck mobility: a randomised controlled trial of antenatal pelvic floor exercises. BJOG 2002;109:68–76.
Agur WI, Steggles P, Waterfield M, et al. The long-term effectiveness of antenatal pelvic floor muscle training: eight-year follow up of a randomised controlled trial. BJOG 2008;115:985–90.
a 6 e 12 mesi.13Woldringh C, van den Wijngaart M, Albers-Heitner P, et al. Pelvic floor muscle training is not effective in women with UI in pregnancy: a randomised controlled trial. Int Urogynecol J Pelvic Floor Dysfunct 2007;18:383–90. Al contrario, altri studi  hanno riportato un mantenimento dell’effetto positivo sulla continenza a 3 mesi 14Sangsawang B, Serisathien Y. Effect of pelvic floor muscle exercise programme on stress urinary incontinence among pregnant women. J Adv Nurs 2012;68:1997–2007
Mørkved S, Rømmen K, Schei B, et al. No difference in urinary incontinence between training and control group six years after cessation of a randomized controlled trial, but improvement in sexual satisfaction in the training group (abstract). Neurourol Urodyn 2007;26:667.
e 6 anni.15Mørkved S, Rømmen K, Schei B, et al. No difference in urinary incontinence between training and control group six years after cessation of a randomized controlled trial, but improvement in sexual satisfaction in the training group (abstract). Neurourol Urodyn 2007;26:667.

La risposta alla mia terza domanda è quindi ancora meno chiara delle due precedenti e, come evidenziato da alcune recenti review,16Mørkved S, Kari B. Effect of pelvic floor muscle training during pregnancy and after childbirth on prevention and treatment of urinary incontinence: a systematic review. Br J Sports Med 2014;48:299–310. doi:10.1136/bjsports-2012-091758. il problema che aleggia su tale argomento è in definitiva la presenza di risultati contrastanti, la scarsità degli studi, e da ultimo la loro eterogeneità riguardo soprattutto alle modalità di intervento che purtroppo limitano il reale peso di tali risultati e la loro conseguente applicabilità alla realtà.

Lo Yoga e la Gravidanza

29_India_Moghol_Birth, lying back, art and pregnancy

E lo Yoga? Da una rapida sbirciata, la letteratura, anche scientifica, ad oggi presenta diversi articoli, editoriali e rapporti aneddottici sull’utilità dello yoga in gravidanza. 17Kinser P, Masho S. “Yoga Was My Saving Grace”: The Experience of Women Who Practice Prenatal Yoga. J Am Psychiatr Nurses Assoc. 2015 Sep;21(5):319-26. doi: 10.1177/1078390315610554.
Kinser P, Masho S. “I just start crying for no reason”: the experience of stress and depression in pregnant, urban, African-American adolescents and their  perception of yoga as a management strategy. Womens Health Issues. 2015 Mar-Apr;25(2):142-8. doi: 10.1016/j.whi.2014.11.007. Epub 2015 Jan 31.
Tung CT, Lee CF, Lin SS, Lin HM. The exercise patterns of pregnant women in Taiwan. J Nurs Res. 2014 Dec;22(4):242-9. doi: 10.1097/jnr.0000000000000056.
Babbar S, Chauhan SP. Exercise and yoga during pregnancy: a survey. J Matern Fetal Neonatal Med. 2015 Mar;28(4):431-5. doi: 10.3109/14767058.2014.918601. Epub 2014 May 27.

I principali si concentrano in particolare su aspetti specifici come la prevenzione della depressione gravidica,18Gong et al. Yoga for prenatal depression: a systematic review and meta-analysis. BMC Psychiatry (2015) 15:14 DOI 10.1186/s12888-015-0393-1 anche se, come sopra, parliamo sempre di un numero molto esiguo di studi. Tuttavia, anche per una crescente spinta mediatica e di proposta al pubblico, nell’immaginario collettivo lo Yoga viene considerato utile e genericamente benefico.

Ma facciamo un passo indietro. Come evidenziato nei paragrafi precedenti, l’interesse della letteratura è principalmente focalizzato su interventi atti a risolvere dei problemi fisici con conseguente disabilità, generati dal parto e della gravidanza.

Ciò sicuramente è interessante e utile, ma a mio parere tradisce una visione limitata della gravidanza e del parto, focalizzandosi soltanto sui problemi che ne possono derivare e non sulla complessità e grande potenzialità di crescita per la donna dell’evento in sé.

Quindi sarebbe auspicabile spostare l’approccio da un parto visto soltanto come generatore di problematiche a un parto e gravidanza affrontati nella loro complessità, e nel loro significato più profondo. Non curandosi quindi solo delle modificazioni fisiche, che ovviamente sono le più tangibili ed evidenti, ma anche di quelle emotive e psicologiche.

E qui arriviamo allo Yoga. A parte l’attenzione alla depressione gravidica, l’impressione è che l’attenzione venga concentrata quasi esclusivamente sull’intervento fisico, migliorando l’elasticità dei tessuti e la mobilità di alcune articolazioni cruciali nelle dinamiche del parto come anca e bacino. Per carità, già solo queste componenti ne fanno uno strumento utilissimo ad una donna in gravidanza, ma allora cosa cambia tra il fare Yoga in gravidanza e fare semplicemente qualche esercizio di stretching o i famosi esercizi di contrazione del perineo, come nelle raccomandazioni del ginecologo a inizio articolo?

Ma soprattutto è giusto limitare ciò che è veramente utile ad una donna in momento così delicato come la gravidanza ad una semplice pratica fisica?

Un po’ per la mia inesperienza a riguardo e vedendomi impossibilitato a sperimentare la gravidanza direttamente se non da spettatore privilegiato, penso che la cosa migliore sia la testimonianza diretta di una persona che pratica Yoga da diversi anni e che, in maniera molto spontanea, ha toccato a mio parere tutti i punti “caldi” di questo argomento e non solo… e magari proprio una testimonianza spontanea e sincera di chi ha vissuto direttamente questa esperienza, potrà essere d’aiuto alle donne molto di più di un asettico articolo, dove, come spesso avviene nella nostra società, alcuni argomenti, e forse quelli più importanti, vengono sistematicamente taciuti…

Quando sono rimasta incinta praticavo yoga già da alcuni anni in modo costante, e ciò ha provocato numerosi commenti da parte di amici e conoscenti con frasi ricche di ammirazione/curiosità/luoghi comuni che mi hanno fatto render conto di quanta “falsa percezione della realtà” aleggi in merito allo yoga in generale, ma ancor più dello yoga in gravidanza.
Ripensando a ciò che mi sono convinta a mettere da parte l’imbarazzo ed accettare l’invito a raccontare la mia modesta esperienza, che per quanto personale spero possa fare un po’ di chiarezza e aiutare le donne a superare imbarazzi e timori e a intraprendere la via dello yoga in un periodo così particolare della loro vita, godendone tutti i benefici diretti e indiretti.
Alcune frasi mi sono rimaste in mente, proprio perché mi sono state dette da numerose persone tra le più disparate. Per questo vorrei basare la mia testimonianza partendo proprio da queste affermazioni e da ciò che a mio parere celano.
Frase-tipo n° 1 che mi sono sentita rivolgere: “Io non potrei mai farlo. Sono già rigida di mio… figuriamoci con la pancia!“.
È vero: sono riuscita a mettermi in posizioni abbastanza complicate nonostante la pancia ingombrante, ma la pratica parte dalla flessibilità personale e dalla propria situazione fisica/di salute,  e non è assolutamente vero il concetto “posizioni più difficili=risultati maggiori” (sempre, non solo in gravidanza).
Anzi, il più delle volte le posizioni più semplici riservano grandi sorprese anche ai più “esperti”. Non si tratta di contorsionismo… ma di yoga. L’importante non è la meta che si raggiunge, ma il percorso che si fa per raggiungerla. E in ogni caso da incinte si è più elastiche e flessibili, perché il corpo è predisposto al cambiamento: quindi in realtà è più semplice di quanto normalmente si immagini.
La gravidanza dura “solo” 9 mesi. Durante i quali si lavora, si è risucchiati in un vortice di visite, preparativi, cose da fare e comprare, tutte cose indispensabili o finte tali. Ci sono le ansie, c’è il corpo che cambia, le chiacchiere delle amiche e i racconti di chi l’ha già vissuto, le aspettative, i sogni, le paure…in tutto questo “trambusto esteriore” a cui ne corrisponde uno altrettanto grande “interiore”, secondo me il vero valore dello yoga sta proprio nel regalarci una pausa. Un momento senza pensieri. Ascolto. Accettazione di questo corpo “alieno” (il nostro e quello dell’Essere che cresce in noi). Rilassamento.
E già sarebbe tanto, viste le premesse. Ma c’è molto di più. E superando il timore di sentirsi ridicole è un passo che dà un vasto numero di vantaggi, anche molto “pratici”: personalmente ad esempio ho avuto difficoltà digestive, soprattutto nel primo e terzo trimestre. E  periodi in cui i risvegli notturni diventavano più frequenti. Ebbene dopo le lezioni yoga potevo in genere permettermi di uscire a mangiare una pizza o altro in compagnia (alle 10 di sera!) dormendo poi come un ghiro.  Alcune āsana aiutano a risolvere problemi digestivi, per cui ogni giorno ne praticavo alcune a casa per trarne beneficio, mentre le tecniche di rilassamento venivano in aiuto nelle nottate difficili.
Frase-tipo n° 2: “…con tutte quelle respirazioni…avrai un parto perfetto!”. Su questo devo disilludere i più: fare yoga (anche da tempo) non porta ad avere  necessariamente un parto differente dalla media. O meglio: la mia esperienza non mi è parsa poi così diversa dalla maggior parte di quelle che ho sentito raccontare. Il che mi ha portato a pormi la seguente domanda:  esiste un “parto perfetto”? Nel pensiero comune è veloce e quasi indolore e devo ammettere di essere cascata anch’io in questo tranello.
Per un periodo di tempo sono stata arrabbiata con me stessa per non essere riuscita, nonostante la “preparazione” ad avere un parto così. Solo recentemente  ho rivissuto (in stile “yogico”) quell’esperienza e mi sono resa conto invece di come si sia  svolto in linea con le mie paure, le mie rigidità, il mio vissuto e le mie caratteristiche personali. Per cui di come fosse perfettamente modellato su di me. “Perfetto” quindi! A ognuno il suo.
Ma a proposito del dolore: imparate a stare comode in posizioni che comode non sono affatto…e vedrete che allo stesso modo buona parte dei dolori del travaglio possono essere sopportati. Notavo differenze enormi tra i momenti in cui potevo stare nella “posizione del sonno” e/o effettuare respirazioni ujjay e quando ciò non mi era consentito. Lo yoga offre degli strumenti, non delle soluzioni. Durante l’esecuzione delle āsana siamo invitati a prestare attenzione al respiro, all’ascolto di sé, ai segnali che il corpo manda, paure, emozioni, pensieri che ci attraversano. E a lasciarli andare.
Durante il parto si possono sfruttare tutti questi strumenti che lo yoga ci offre, ma il livello in cui li sfrutteremo dipenderà solo da noi.  Dal mio punto di vista il travaglio ed il parto sono stati come una lezione di yoga: una serie di āsana difficili, dolorose, complesse. In alcune sono entrata facilmente e sono stata bene, favorendo i passaggi successivi. In altre mi sono irrigidita ed ho perso la concentrazione, rallentando i tempi e provando più dolore.
Nulla di diverso quindi da chi yoga non lo pratica. Quello che cambia è l’ascolto di se stessi, la percezione di questi differenti stati emotivi e fisici. Ho tratto dai ricordi di questo ascolto una maggiore conoscenza di me stessa ed un accrescimento personale notevole. Per cui la “preparazione” mi ha aiutata sia durante il parto che per la rielaborazione del ricordo stesso.
Non tutte le donne hanno gli strumenti per rielaborare il “trauma” del dolore e dell’esperienza, e questo a mio avviso può restare un insoluto di notevole peso da portarsi appresso negli anni. Almeno questo colgo nei discorsi di alcune donne passate attraverso questa esperienza, con le quali mi è capitato di parlare in modo intimo dell’argomento.
Frase-tipo n° 3 “certo che poi con la bimba…non avrai più tempo per fare yoga come prima!”. Certo. Non ho di certo tempo per mettermi a testa in giù o praticare un’ora al giorno, ma ho scoperto cosa significa “vivere lo yoga” in modo molto più profondo. Utilizzare ciò che lo yoga mi ha insegnato applicandolo nella vita di tutti i giorni. Rilassamento e respirazioni per recuperare almeno un poco di energie in fretta, quando di notte si dorme poco, oppure per calmarsi quando il pianto sembra non finire mai: se la mamma si rilassa…il bimbo si rilassa. È risaputo. Provare per credere. Ovviamente bisogna “entrare” davvero nel respiro e non sbuffare ripetutamente, illudendosi di praticare.
Ho elencato una serie di situazioni per cui prevedo già la frase-tipo n° 4 “eh ma…chi non pratica prima della gravidanza mica può imparare tutto ciò in così poco tempo!”. Vero. Chi pratica già è avvantaggiato. E sicuramente è assolutamente consigliabile iniziare già dal primo trimestre. Però quando si è incinta si ha una capacità di introspezione e predisposizione all’ascolto superiore alla norma. È un’opportunità che permette di cogliere più in fretta l’essenza dello yoga. Una possibilità unica che solo noi donne abbiamo. E che a volte addirittura può trasformarsi in un nuovo modo di vivere la vita.
Uno “stato di introspezione da gravidanza” se non proprio costante, almeno frequente. Un  dono aggiuntivo che un figlio regala, un’ulteriore possibilità di crescita personale, che inizia prima del rapporto madre/figlio e che può aiutare anche a crearne le basi. Per questo non posso fare a meno di ringraziare l’Essere che scegliendomi come mamma mi ha dato tutte queste opportunità di crescita.”

Erika Pizzo

Note[+]

Note
↑1Artal R, O’Toole M. Guidelines of the American College of Obstetricians and Gynecologists for exercise during pregnancy and the postpartum period. Br J Sports Med 2003;37:6–12.
Wolfe LA, Davies GAL. Canadian guidelines for exercise in pregnancy. Clin Obstet Gynecol 2003;46:488–95.
Royal College of Obstetricians and Gynaecologists. Exercise in pregnancy, 2006; Statement 4.
Lauren N Wood, Jennifer T Anger. Urinary incontinence in women. BMJ:2014;349:g4531
Mørkved S, Kari B. Effect of pelvic floor muscle training during pregnancy and after childbirth on prevention and treatment of urinary incontinence: a systematic review. Br J Sports Med 2014;48:299–310. doi:10.1136/bjsports-2012-091758
↑2Kramer MS. Aerobic exercise for women during pregnancy (Review). Cochrane Database Syst Rev 2006 Jul 19;CD000180.
Melzer K, Schutz Y, Boulvain M, et al. Physical activity and pregnancy. Sports Med 2010;40:493–507.
↑3Bump R, Norton P. Epidemiology and natural history of pelvic floor dysfunction. Obstet Gynecol Clin North Am 1998;25:723–46.
↑4Swift SE. The distribution of pelvic organ support in a population of female subjects seen for routine gynecologic health care. Am J Obstet Gynecol 2000;183:277–85.
↑5DeLancey JO, Kearney R, Chou Q, et al. The appearance of levator ani muscle abnormalities in magnetic resonance images after vaginal delivery. Obstet Gynecol 2003;101:46–53.
DeLancey JOL, Low LK, Miller JM, et al. Graphic integration of causal factors of pelvic floor disorders: an integrated life span model. Am J Obstet Gynecol, 2008;199:610.e1–5.
Dietz PH, Lanzarone V. Levator trauma after vaginal delivery. Obstet Gynecol 2005;106:707–12.
↑6Bø K. Urinary incontinence, pelvic floor dysfunction, exercise and sport. Sports Med 2004;34:451–64.
↑7Artal R, O’Toole M. Guidelines of the American College of Obstetricians and Gynecologists for exercise during pregnancy and the postpartum period. Br J Sports Med 2003;37:6–12.
↑8Wolfe LA, Davies GAL. Canadian guidelines for exercise in pregnancy. Clin Obstet Gynecol 2003;46:488–95.
Royal College of Obstetricians and Gynaecologists. Exercise in pregnancy, 2006; Statement 4.
↑9Dias A, Assis L, Barbosa A, et al. Effectiveness of perineal exercises in controlling urinary incontinence and improving pelvic floor muscle function during pregnancy (abstract). Neurourol Urodyn 2011;30:968.
Ko PC, Liang CC, Chang SD, et al. A randomized controlled trial of antenatal pelvic floor exercises to prevent and treat urinary incontinence. Int Urogynecol J Pelvic Floor Dysfunct 2011;22:17–22.
Stafne S, Salvesen K, Romundstad P, et al. Does regular exercise including pelvic floor muscle training prevent urinary and anal incontinence during pregnancy? A randomised controlled trial. BJOG 2012;119:1270–80.
Gorbea Chavez V, Velazquez Sanchez MdP. Efecto de los ejercicios del piso pelvico durante el embarazo y el puerperio en la prevencion de la incontinencia urinaria de esfuerzo (Effect of pelvic floor exercise during pregnancy and puerperium on prevention of urinary stress incontinence). Ginecol Obstet Mex 2004;72:628–36.
Mørkved S, Bø K, Schei B, et al. Pelvic floor muscle training during pregnancy to prevent urinary incontinence: a single-blind randomized controlled trial. Obstet Gynecol 2003;101:313–19.
↑10Stafne S, Salvesen K, Romundstad P, et al. Does regular exercise including pelvic floor muscle training prevent urinary and anal incontinence during pregnancy? A randomised controlled trial. BJOG 2012;119:1270–80.
Gorbea Chavez V, Velazquez Sanchez MdP. Efecto de los ejercicios del piso pelvico durante el embarazo y el puerperio en la prevencion de la incontinencia urinaria de esfuerzo (Effect of pelvic floor exercise during pregnancy and puerperium on prevention of urinary stress incontinence). Ginecol Obstet Mex 2004;72:628–36.
Mørkved S, Bø K, Schei B, et al. Pelvic floor muscle training during pregnancy to prevent urinary incontinence: a single-blind randomized controlled trial. Obstet Gynecol 2003;101:313–19.
Reilly ET, Freeman RM, Waterfield MR, et al. Prevention of postpartum stress incontinence in primigravidae with increased bladder neck mobility: a randomised controlled trial of antenatal pelvic floor exercises. BJOG 2002;109:68–76.
↑11Sampselle CM, Miller JM, Mims BL, et al. Effect of pelvic muscle exercise on transient incontinence during pregnancy and after birth. Obstet Gynecol 1998;91:406–12.
↑12Reilly ET, Freeman RM, Waterfield MR, et al. Prevention of postpartum stress incontinence in primigravidae with increased bladder neck mobility: a randomised controlled trial of antenatal pelvic floor exercises. BJOG 2002;109:68–76.
Agur WI, Steggles P, Waterfield M, et al. The long-term effectiveness of antenatal pelvic floor muscle training: eight-year follow up of a randomised controlled trial. BJOG 2008;115:985–90.
↑13Woldringh C, van den Wijngaart M, Albers-Heitner P, et al. Pelvic floor muscle training is not effective in women with UI in pregnancy: a randomised controlled trial. Int Urogynecol J Pelvic Floor Dysfunct 2007;18:383–90.
↑14Sangsawang B, Serisathien Y. Effect of pelvic floor muscle exercise programme on stress urinary incontinence among pregnant women. J Adv Nurs 2012;68:1997–2007
Mørkved S, Rømmen K, Schei B, et al. No difference in urinary incontinence between training and control group six years after cessation of a randomized controlled trial, but improvement in sexual satisfaction in the training group (abstract). Neurourol Urodyn 2007;26:667.
↑15Mørkved S, Rømmen K, Schei B, et al. No difference in urinary incontinence between training and control group six years after cessation of a randomized controlled trial, but improvement in sexual satisfaction in the training group (abstract). Neurourol Urodyn 2007;26:667.
↑16Mørkved S, Kari B. Effect of pelvic floor muscle training during pregnancy and after childbirth on prevention and treatment of urinary incontinence: a systematic review. Br J Sports Med 2014;48:299–310. doi:10.1136/bjsports-2012-091758.
↑17Kinser P, Masho S. “Yoga Was My Saving Grace”: The Experience of Women Who Practice Prenatal Yoga. J Am Psychiatr Nurses Assoc. 2015 Sep;21(5):319-26. doi: 10.1177/1078390315610554.
Kinser P, Masho S. “I just start crying for no reason”: the experience of stress and depression in pregnant, urban, African-American adolescents and their  perception of yoga as a management strategy. Womens Health Issues. 2015 Mar-Apr;25(2):142-8. doi: 10.1016/j.whi.2014.11.007. Epub 2015 Jan 31.
Tung CT, Lee CF, Lin SS, Lin HM. The exercise patterns of pregnant women in Taiwan. J Nurs Res. 2014 Dec;22(4):242-9. doi: 10.1097/jnr.0000000000000056.
Babbar S, Chauhan SP. Exercise and yoga during pregnancy: a survey. J Matern Fetal Neonatal Med. 2015 Mar;28(4):431-5. doi: 10.3109/14767058.2014.918601. Epub 2014 May 27.
↑18Gong et al. Yoga for prenatal depression: a systematic review and meta-analysis. BMC Psychiatry (2015) 15:14 DOI 10.1186/s12888-015-0393-1
Leggi

Archiviato in:Yoga, Yoga in gravidanza Contrassegnato con: gravidanza, hathayoga, yoga in gravidanza, yoga Novara

Tolkien, il Suono e la Dissonanza: la Musica degli Ainur

19 Ottobre 2015 Marco Invernizzi


Esisteva Eru, l’Uno, ed egli creò per primi gli Ainur, i Santi, rampolli del suo pensiero, ed essi erano con lui prima che ogni altro fosse creato. Ed egli parlò loro proponendo temi musicali ed essi cantarono al suo cospetto ed egli ne fu lieto. A lungo cantarono soltanto uno alla volta o solo pochi insieme mentre gli altri stavano ad ascoltare poiché ciascuno di essi penetrava soltanto quell’aspetto della Mente dell’Uno da cui proveniva e crescevano lentamente nella comprensione dei loro fratelli. Ma già solo ascoltando pervenivano a una comprensione più profonda e si accrescevano l’unisono e l’armonia.

Questo breve estratto è la prima parte dell’Ainulindalë o “la Musica degli Ainur”, breve racconto che apre il Silmarilllion di J.R.R. Tolkien.

Silmarillion
la copertina originale della prima edizione del Silmarillion (1977)

Quando si parla di J.R.R. Tolkien il pensiero comune non può che andare al Signore degli Anelli o allo Hobbit, sia per l’enorme successo editoriale che per quello cinematografico. Meno persone invece conoscono il Silmarillion, un’opera che tuttavia, secondo il mio modesto parere, è di gran lunga la migliore, non solo da un punto di vista strettamente letterario ma anche per la profondità dei temi trattati che esulano, per chi voglia leggere tra le righe, da un semplice romanzo fantasy.

Il Silmarillion viene pubblicato quattro anni dopo la morte di Tolkien e contiene i racconti delle Ere precedenti in termini cronologici a quanto narrato nello Hobbit e nel Signore degli Anelli. La “Musica degli Ainur” che apre il libro tratta della creazione del mondo in cui si svolgeranno tutte le vicende successive: una sorta di cosmogonia Tolkieniana che attinge più o meno consapevolmente da numerosi altri impianti cosmogonici appartenenti a religioni e tradizioni tra le più disparate. E in cui guardacaso, il Suono ha un ruolo centrale e molto particolare.

La Storia

L’Ainulindalë inizia con l’estratto che apre questo articolo. L’Uno crea, pensandoli, gli Ainur, entità che potremmo definire angeliche, e attraverso il Suono e il canto, gli Ainur crescono in consapevolezza non solo di sé ma anche degli altri loro fratelli e di ciò che li circonda secondo una logica di armonizzazione.

Dopo un certo periodo di “armonizzazione” tra loro, L’Uno decide di proporre agli Ainur un grande progetto musicale come descritto qui di seguito:

Ed accadde che l’Uno convocò tutti gli Ainur ed espose loro un possente tema, svelando cose più grandi e più magnifiche di quante ne avesse fino a quel momento rivelate; e la gloria dell’inizio e lo splendore della conclusione lasciarono stupiti gli Ainur sì che si inchinarono davanti all’Uno e stettero in silenzio.
Allora l’Uno disse: del tema che vi ho esposto io voglio che voi adesso facciate in congiunta armonia una Grande Musica. E poiché vi ho accesi della Fiamma Imperitura voi esibirete i vostri poteri nell’adornare il tema stesso, ciascuno con i propri pensieri ed artifici, dove lo desideri. Io invece siederò in ascolto, contento del fatto che tramite vostro una grande bellezza sia ridesta in canto.

ac867b2e135eafc15a275f50ff368765-d8jvolk
Melkor, il più grande degli Ainur a cui L’Uno ha concesso i poteri di tutti i suoi fratelli, conosciuto anche come Morgoth “L’oscuro nemico del mondo”

Gli Ainur quindi si apprestano a cantare questa melodia e tutto procede secondo il Tema predefinito e in Armonia fino a quando Melkor, il più grande degli Ainur in potenza e conoscenza a cui l’Uno aveva concesso i doni di tutti i suoi fratelli, decide di modificare la parte assegnatagli secondo la sua volontà per accrescerla in potenza e gloria col fine di soddisfare il proprio Ego.

Melkor infatti già prima del grande canto aveva cercato da solo il modo di acquisire lui stesso la capacità dell’Uno di creare dal nulla attraverso la Fiamma Imperitura, senza mai tuttavia riuscire a trovarla. Questo assolo determina una dissonanza che si propaga e, a causa del potere di Melkor, influenza il canto di tutti gli altri Ainur.

Quando il canto assume la qualità di un insieme di suoni dissonanti simile a una tempesta l’Uno, che fino a quel momento era stato in silenzio e in ascolto, si alza e interviene nel canto e lo farà per ben tre volte perché a seguito di ogni suo intervento Melkor cercherà ancora di più di opporsi influenzando a suo piacimento il canto e provocando modificazioni sempre più terribili e angoscianti. La prima volta sarà solo un intervento pacato con la mano sinistra, la seconda volta sarà un intervento più severo alzando la mano destra e la terza sarà assoluta tremenda e definitiva come descritto di seguito:

Nel bel mezzo di questa contesa, mentre le aule oscillavano l’Uno si alzò una terza volta e il suo volto era terribile a vedersi. Egli levò entrambe le mani e con un unico accordo, più profondo dell’Abisso, più alto del Firmamento, penetrante come i suoi occhi, la Musica cessò.

Poi disse: Potenti sono gli Ainur e potentissimo tra loro è Melkor, ma questo egli deve sapere, che io sono l’Uno e le cose che avete cantato io le esibirò che voi vediate ciò che avete fatto e tu Melkor t’avvedrai che nessun tema può essere eseguito che non abbia la sua più remota fonte in me… poiché colui che vi si provi non farà che comprovare di essere mio strumento nell’immaginare cose più meravigliose di quante egli abbia potuto immaginare.

E portò gli Ainur dalle sale atemporali dove era la dimora dell’Uno al Vuoto e qui permise loro di avere una visione di ciò che avevano creato col loro canto, ovvero un mondo, chiamato Arda, che sarebbe poi diventato il luogo dove si sarebbero svolte tutte le vicende trattate nel seguito del Silmarillion e negli altri libri successivi. E qui l’Uno disse:

Conosco il desiderio delle vostre menti che ciò che avete visto sia in effetti e non solo nel vostro pensiero, ma proprio come voi siete e tuttavia diverso. Perciò io dico: Eä! Che queste cose siano! E io invierò nel Vuoto la Fiamma Imperitura ed essa sarà nel cuore del Mondo e il Mondo sarà; e quelli tra voi che lo vogliono possono andarvi.

Molti Ainur quindi si recano nel nuovo Mondo creato dal Vuoto attraverso la Fiamma Imperitura e in questo contesto si susseguono tutte le vicende trattate fino al Signore degli Anelli, in cui Melkor, come durante il grande canto, avrà sempre un ruolo di opposizione al volere dell’Uno e degli Ainur a lui fedeli, cercando sempre con la violenza e la tirannide di sottomettere e regnare su tutta Arda.

Il Suono e il Canto Armonico

Come letto nel breve estratto che apre questo articolo, il Suono per Tolkien riveste un ruolo cruciale in tutto il suo impianto cosmogonico. È infatti sia uno strumento di comunicazione tra l’Essere Supremo, l’Uno, e le entità create dal suo pensiero, sia un mezzo per questi ultimi di espandere la propria consapevolezza oltre la loro natura e di entrare in “ascolto” dei propri “fratelli”, permettendogli di “armonizzarsi” tra loro e col Tutto.

Tuttavia gli elementi presenti in questo breve racconto mi portano a fare tutta una serie di riflessioni sulla mia conoscenza cosmogonica ma anche sulla mia recente tuttavia intensa esperienza con il canto Armonico. Roberto Cerri ha già descritto in maniera attenta ed esaustiva in diversi articoli molti concetti basilari come Suono, Silenzio, Armonia e la mia breve esperienza con lui in questo mondo eccezionale mi ha portato a fare un parallelo tra il racconto di Tolkien e i principi alla base del canto Armonico.

La mia personale sensazione durante la pratica del Canto Armonico è di entrare in uno stato molto simile a quello meditativo in cui il Suono emesso in realtà è più simile ad una vibrazione che, al progredire dello stato di rilassamento e interiorizzazione, si propaga a tutto il nostro corpo, trasformandolo in una sorta di cassa di risonanza simile a quella degli strumenti ad arco.

La vibrazione quindi genera i cosiddetti “Armonici” di cui Roberto ha ampiamente parlato in altra sede. Al pari di questo fenomeno si sperimenta, in parallelo all’interiorizzazione crescente, una profonda dimensione di ascolto, sia del proprio suono/vibrazione che di quello altrui.

Questo punto se vogliamo è uno di quelli in cui ho trovato più analogie con l’Ainulindalë. Infatti L’Uno mostra il tema agli Ainur per poi ritirarsi in una dimensione di ascolto durante il canto. Melkor invece, incurante di ciò che lo circonda, non ascoltando altro se non la propria voce, “impone” il suo canto senza armonizzarsi a quello dei suoi fratelli e il risultato è “apparentemente” disastroso.

Perché ho scritto “apparentemente”? Non nego che nel poco della mia pratica di canto armonico mi sia capitato di trovarmi inconsapevolmente a svolgere la parte del Melkor della situazione e anche Roberto, nel suo insegnamento, pone una forte attenzione sul concetto di ascoltare non solo la propria voce ma soprattutto cosa succede e si muove intorno a noi a livello sonoro, con una modalità che prescinde in parte anche dal senso dell’udito attingendo da una sensibilità diversa e più profonda.

I cambi di intensità, i diversi armonici e le diverse melodie che il canto può assumere sono il risultato dell’apporto di ciascuno con la propria qualità, al tema comune e i tentativi di “prevaricazione” alla Melkor inevitabilmente producono degli effetti. Ma sono proprio totalmente negativi?

In realtà gli insegnamenti di Roberto fanno notare come le persone, soprattutto agli inizi, quando cantano cercano di uniformarsi il più possibile su di una nota, seguendo tendenzialmente la voce più “potente” (che non necessariamente è una voce “vera”).

Questo rimanere all’interno di un recinto sicuro ha molti rimandi con dinamiche che chi pratica discipline psico-corporee sicuramente ha già notato o sperimentato personalmente. Il cambiamento e l’ignoto verso cui una pratica inevitabilmente ci conduce infatti spesso spaventa e l’apparente sicurezza del nostro spazio recintato è un qualcosa che difficilmente ci va di abbandonare.

E qui entra il ruolo fondamentale della dissonanza: per rompere questa monotonia determinata dall’uniformarsi in una nota unisona serve una dissonanza. Apparirà fuori luogo, quasi stonata (uno dei principi del Canto Armonico è che le dissonanze non vanno evitate) e potrà generare un certo fastidio in chi sta così bene all’interno della sua nota stabile e sicura.

Ulmo_in_the_depths
Ulmo, uno dei tre Ainur più potenti, espressione dell’elemento Acqua

Tuttavia questa dissonanza genererà una modificazione che inevitabilmente si propagherà a macchia d’olio, influenzando sia il suono/vibrazione di ogni singolo individuo, sia la totalità risultante del canto. E tale dissonanza potrà anche avere delle qualità “creative” come descritto in questo breve passo dove l’Ainur Ulmo, espressione e reggente dell’elemento Acqua, di fronte alla visione prodotta dall’Uno dopo il canto così si riferisce al risultato finale della sua parte nonostante l’intromissione di Melkor:

“Invero l’Acqua è divenuta più bella di quanto immaginasse il mio cuore, né il mio segreto pensiero aveva concepito il fiocco di neve, né in tutta la mia musica era contenuto il crosciare della pioggia“

Alla fine quindi il canto non riusulterà ostacolato o sminuito dalla dissonanza, ma anzi arricchito sia in potenza che in bellezza.

Integrare la Dissonanza

Nell’Ainulindalë gli Ainur per aumentare la consapevolezza di sé e degli altri inizialmente praticavano l’Unisono per armonizzarsi tra loro, salvo poi ad un certo punto produrre un canto in cui, riversando le qualità uniche e irripetibili di ciascuno di loro hanno “creato” qualcosa di Unico e Irripetibile (e forse anche Indescrivibile a parole) e cioè la Creazione.

Allo stesso modo anche noi nel nostro infinitamente piccolo, quando cantiamo, entrando in contatto col mondo degli archetipi, passando prima da un momento di “armonizzazione”, da cui possiamo successivamente “creare” un qualcosa di unico e irripetibile che tuttavia necessita di un ascolto molto profondo non solo di sé ma anche degli altri.

L’Ascolto è fondamentale per non lasciare indietro nessuna sfumatura e nessun suono, anche quelli apparentemente “fuori luogo”, proprio perché ognuno di noi è in grado di esprimere, come gli Ainur, un aspetto unico e irripetibile che in definitiva è un riflesso infinitesimale di quell’Uno da cui tutto ha origine e in cui tutto si muove e respira.

La dissonanza è quindi un modo per accettare e integrare, in un processo molto simile alla trasmutazione alchemica, ciò che è “apparentemente diverso” da ciò che reputiamo essere giusto, corretto e intonato. Il fine è quello di raggiungere la maggior completezza possibile, contemplando più sfaccettature possibili dell’Uno, ma per farlo è necessario accettare qualunque suono, anche quelli dissonanti, proprio perché tutto è Uno.

Quindi l’Ainulindalë, che è sempre stato interpretato come il canto in cui si è svolta la lotta di Melkor in opposizione all’Uno, quasi come tra due pari, in realtà può essere visto come una integrazione dell’apparente opposizione e ostilità di Melkor al fine di rendere più ricco e completo il canto definitivo, proprio perché come dice l’Uno stesso:

tu Melkor t’avvedrai che nessun tema può essere eseguito che non abbia la sua più remota fonte in me..poiché colui che vi si provi non farà che comprovare di essere mio strumento nell’immaginare cose più meravigliose di quante egli abbia potuto immaginare.

…a conferma che nulla di ciò che può essere pensato dal singolo non può essere stato già pensato prima dall’Uno e quindi, siccome Tutto è Uno, la dissonanza è anche lei parte del Tutto ed è quindi necessaria.

Leggi

Archiviato in:Canto Armonico

  • Vai alla pagina 1
  • Vai alla pagina 2
  • Vai alla pagina 3
  • Vai alla pagina successiva »

Copyright © 2014-2022 – Zénon Cooperativa Sportiva Dilettantistica Corso XXIII marzo 17 28100 Novara C. F. e P. IVA 02419740036 Privacy Policy. Contributi pubblici.

Contattaci su Whatsapp