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Zénon | Yoga e Qi Gong

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Il Coraggio di Distruggere

10 Novembre 2016 Marco Invernizzi


Può sembrare strano che in molte religioni, non solo orientali, il divino si presenti spesso in veste terrifica e distruttrice.

Di Dio siamo abituati a considerare l’aspetto creativo. A lui ci rivolgiamo per chiedergli di preservare ciò che esiste e con lui ce la prendiamo per i terremoti o se un bambino muore. Tuttavia, siamo riluttanti a prendere seriamente in considerazione il divino come forma radicale di libertà da ogni cristallizzazione, perché la libertà implica conseguenze non prevedibili e non negoziabili per l’esistente.

Questa riluttanza affligge a maggior ragione chi si considera su di un percorso cosiddetto “spirituale” o di “ricerca interiore”, termini che in realtà ci imprigionano in strutture mentali rassicuranti e ben più dure da intaccare di tante convinzioni dell’uomo comune.

Le scuole di Yoga e i centri olistici si trasformano troppo spesso in dormitori dove ci si reca con la propria copertina (in senso lato ma anche letterale) per schiacciare il pisolino e poi tornare a casa. Il fatto è che se realmente le pratiche che vi si svolgono fungessero a qualcosa, anche solo per l’eco lontana che ne portano, la copertina dovrebbe prendere fuoco e la casa crollare.

Prima o poi la vita provvede da sola, e spesso senza molti riguardi, a ripristinare il senso di realtà. Ma se vogliamo avere l’occasione di prendere atto di questa evidenza, allora è necessario avere molto coraggio.

Il Coraggio come Attitudine

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Coraggio: forza d’animo nel sopportare con serenità e rassegnazione dolori fisici o morali, nell’affrontare con decisione un pericolo, nel dire o fare cosa che importi rischio o sacrificio.

Dizionario Treccani

Non veniamo mai, se non in rarissimi casi, spronati a mostrare coraggio nella nostra vita né ad abituarci a considerarlo un requisito imprescindibile della nostra personalità. Il coraggio infatti rimane spesso una dote da mostrare in occasioni eccezionali, mentre come attitudine di vita può destare non pochi sospetti di sconsideratezza.

Invece, tutta una vasta gamma di altri sentimenti sono giudicati molto più politically correct e compatibili con la visione di vita “tranquilla”, intesa come assenza di perturbazioni e cambiamenti, che viene esaltata nella nostra società in ogni suo aspetto: pensare al futuro, essere previdenti, consolidare la propria posizione. Peccato che il futuro, così inteso, sia la condanna a vivere sotto l’anestesia del passato.

Ma perché bisogna essere per forza “tranquilli”? Cosa c’è di sbagliato nel provare ogni tanto un sentimento che ci porta a compiere delle azioni che normalmente non compiremmo? E quindi, da un punto di vista più profondo, a mettere in discussione aspetti della nostra vita che altrimenti, assonnati e anestetizzati come solitamente siamo, difficilmente decideremmo di mettere in discussione?

Penso che tutto parta da una mancaza di educazione al coraggio, che forse è più corretto definire “attitudine”  che sentimento. Penso inoltre che spesso il coraggio venga confuso con il compiere azioni esagerate e pericolose incuranti della paura che esse generano.

Un po’ come gli stunt man o i cultori di sport estremi che, per il gusto dell’adrenalina che esso genera, compiono le azioni più pericolose ed estreme, mettendo in luce la parte più spettacolare del coraggio, tralasciando tuttavia forse quella più profonda.

Ma il coraggio di cui stiamo parlando non si abbina necessariamente ad azioni mirabolanti o inconsulte. Il coraggio che intendiamo è la capacità di compiere un’azione, anche la più semplice e banale, nonostante la consapevolezza che la sua messa in atto provocherà in noi (e a volte non solo in noi) dei cambiamenti e delle sofferenze necessarie a sovvertire un determinato status quo.

E, cosa più importante, senza essere mai esattamente sicuri di tutte le conseguenze e possibilità che tali azioni determineranno, lasciando quindi un certo margine di indeterminazione su cosa verrà dopo.

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Non mi stupisce che non si pensi neanche lontanamente ad educare un bambino ad un simile modo di porsi nei confronti della vita. Se così fosse infatti difficilmente crescerebbe mansueto e controllabile e soprattutto una vita pre-impostata da efficiente “generatore di tranquillità” gli suonerebbe da subito profondamente stonata.

Che scenari divertenti si prospetterebbero all’orizzonte se  non solo singoli individui ma addirittura una massa critica fosse educata ad agire consapevolmente trovandosi a proprio agio con l’attitudine al cambiamento e il conseguente adattamento che esso impone alle singole esistenze. Ma, ahimè, questo avviene solo in casi molto rari.

Coraggio e Cambiamento

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Ma quindi il coraggio da solo basta a cambiare il nostro approccio alla vita? Secondo me no. Diciamo che è paragonabile alla scintilla che mette in moto tutto il meccanismo legato al cambiamento.

È la molla che ci spinge a porci nei confronti della vita e della realtà nel modo più oggettivo, adattabile e fluido possibile, senza cercare in maniera utopistica e arrogante di interpretarla e adattarla alla piccolezza dei nostri paradigmi autocostruiti, ma appunto lasciandosi attraversare da essa, senza opporre resistenza, quasi come a lasciarsi trasportare dalla corrente di un fiume senza alcun bisogno di nuotare.

L’essere umano ha una spiccata propensione a generare delle safe-zones rassicuranti e statiche in cui ingabbiarsi nell’illusione di una vita tranquilla e felice. Al contrario, come un fiume in piena, la realtà, per essere almeno intuita, impone di abbandonare qualunque filtro, pre-concetto o dogma, arrivando quasi  a “spalmarsi” su di essa, dissolvendosi nel suo fiume in piena. Che ciò avvenga per progressione o istantaneamente è solo una questione di prospettiva.

Penso che soltanto quando si è pronti a mettere in discussione ciò in cui si crede fermamente e attorno a cui riteniamo erroneamente che ruotino le nostre vite e solo quando si è confidenti con la propensione interiore al cambiamento, ebbene solo in quel momento si inizia ad acquisire la capacità di modificare profondamente qualcosa nella nostra vita. Vita intesa nella sua interezza, senza distinzioni tra Interiore ed Esteriore, che trovo al contrario sterili e fuorvianti.

Cambiare… Distruggere

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Penso che vivere in questo modo richieda un grande coraggio, è non è un semplice gioco di parole. Continuare a mettere in discussione le idee preconcette e gli schemi di comportamento che abbiamo creato (o che ci sono stati imposti) fin dall’infanzia per interpretare a modo nostro la realtà è un qualcosa che provoca necessariamente anche dolore e sofferenza.

Ma, parafrasando le parole di Krishna nel Mahabharata (su cui torneremo più avanti), la scelta potrebbe non essere tra guerra e pace, ma tra la guerra e una guerra ancora più catastrofica. Per questo già solo iniziare a porsi nei confronti delle sicurezze in maniera critica implica a mio parere un coraggio fuori dalla norma.[irp posts=”1168″ name=”Il mondo è un recipiente sacro e non si può governare, ma anche sì”]

Il paradosso, è che proprio queste sicurezze sono artifici creati per proteggerci dalla sofferenza e da quell’ignoto a cui il cambiamento ci espone.  Col tempo, la fitta rete di sicurezze crea una distorsione a tratti incolmabile tra la realtà percepita attraverso di loro e la realtà cosiddetta “reale”: evitiamo la sofferenza accettando un’altra sofferenza, più  sorda, più mansueta, ma di cui prima o poi la vita ci renderà il conto.

E qui penso sia doveroso fare un’altra precisazione. A mio parere infatti, il cambiamento e l’abitudine alla sensazione di impermanenza che accompagna questa dinamica sono senza dubbio un ottimo punto d’inizio. La differenza però penso la si faccia davvero solo quando si comincia a passare dal concetto di cambiare a quello di distruggere. Ma perché proprio distruggere?

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“Shiva the destroyer of worlds” Nestor Avalos

Oltre al differente livello di impegno attivo e consapevolezza che le due azioni sottendono, indubbiamente il concetto di distruzione genera una forte impronta emotiva nel nostro interiore.

Infatti ho notato come si tenda spesso ad associarlo esclusivamente ai suoi aspetti più negativi, devastanti e irreversibili e a concetti poco amati dai più come la morte e la sofferenza.

In realtà, anche nelle culture più antiche, si trova sempre la presenza di un principio divino distruttore, pari grado se non a volte anche comprendente l’aspetto creativo, proprio perché, in maniera estremamente semplicistica, per creare il “nuovo” è necessario prima distruggere il “vecchio”.

Quello che manca nella visione odierna forse è proprio questo aspetto della distruzione. Cioè il fatto che la distruzione non implica esclusivamente la fine irreversibile di qualcosa, nonostante possa essere tremenda e devastante, ma che contempla anche un contemporaneo aspetto creativo dinamico.

Ne risulta quindi un concetto apparentemente contraddittorio, una sorta di distruzione creativa in cui non necessariamente tutto è proprio da buttare nel termovalorizzatore, ma in realtà serve, dopo una elaborazione, una sgrezzatura e una sublimazione a produrre quel “nuovo” che sicuramente è diverso dal “vecchio” ma al contempo conserva qualche caratteristica anche di quest’ultimo.

Proprio perché niente è a priori esclusivamente positivo o negativo. Per capirci meglio è un meccanismo riconducibile alla trasmutazione alchemica, presente in numerose Tradizioni sia Orientali che Occidentali e di cui abbiamo parlato già qui e qui.

E appunto coraggio, cambiamento e distruzione si fondono in un legame indissolubile dove, partendo dalla scintilla che genera il movimento (coraggio), si giunge alla dinamicità (cambiamento) che inevitabilmente porterà alla distruzione, indispensabile per la creazione del “nuovo”.

E nella pratica?

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Quanto detto finora potrebbe sembrare il solito discorso sui massimi sistemi, più o meno condivisibile a seconda del vissuto e degli interessi del singolo lettore, ma poi facilmente accantonabile tra le tante teorie sull’approcciarsi alla vita.

Teorie che spesso ad una prima lettura risultano accattivanti e capaci di rispondere con semplicità alla maggior parte dei nostri quesiti ma che in seguito si rivelano totalmente inapplicabili alla quotidianità. O peggio ancora essere completamente fraintese, confuse cioè con il concetto profondamente fuorviante che la distruzione indiscriminata di tutto ciò che capita sottomano sia una scorciatoia per raggiungere chissà quali traguardi esistenziali.

D’altro canto, quanto detto finora non riguarda solamente scelte eccezionali che un normale individuo compie poche volte nella propria vita, in occasione di importanti passaggi evolutivi legati alla propria storia esistenziale. Niente di più sbagliato. Come detto prima riguardo al coraggio e alla sua “non eccezionalità”, così quanto esposto in precedenza sul cambiamento e sulla distruzione può essere applicato a qualunque momento della nostra vita.[irp posts=”4053″ name=”Marpa, Milarepa, la grandine e le ortiche: viaggio in un Tibet dimenticato”]

Anzi, occorre dare lo stesso peso a cambiamenti con impatti sulla vita quotidiana enormemente diversi, per rendere l’attitudine al cambiamento (e alla distruzione) intrinseca al proprio modo di approcciarsi alla vita.

Come se tutta la vita in fondo, dal gesto più semplice a quello più profondo, fosse un unico susseguirsi di distruzioni e di creazioni in cui il prodotto che via via viene elaborato e raffinato siamo proprio noi stessi. Quindi mettere ogni scelta e il cambiamento conseguente sullo stesso piano significa a mio parere smussare fino ad eliminare completamente l’eccezionalità che aleggia intorno a tutto il processo.

Un altro errore a mio parere molto comune è ritenere che solo chi segue determinati percorsi o pratichi determinate discipline abbia un lasciapassare privilegiato verso determinati modi di approcciarsi alla vita come quanto descritto in precedenza.

Tuttavia, come già affrontato in diversi articoli, questi percorsi non sono del tutto scevri da trappole e ostacoli di percorso che nel lungo possono non solo vanificare tutto il lavoro fatto, ma anche essere controproducenti.

Ritengo inoltre che un altro ingrediente indispensabile sia coltivare quello stato di centratura, attenzione e “ascolto”, indispensabile a cogliere la continua mutevolezza della realtà e gestire il nostro rapportarsi con essa.

In caso contrario, risulta impossibile applicare quanto descritto finora e anzi, il tutto si traduce in un meccanico, vuoto e superficiale tentativo di utilizzo di questi processi, risultando nel lungo più controproducenti che altro.

Da due anni, su questo sito, vengono proposte opinioni, spunti e articoli riguardo allo studio di Vie, Pratiche e Tradizioni volte proprio a coltivare questo stato di attenzione e di “presenza”, anche e soprattutto cercando di demolire i luoghi comuni, i quali non sono altro che cristallizzazioni di attitudini in origini vive e genuine, ma che si sono trasformate in altrettanti dogmi.

Abbiamo quindi tutti gli ingredienti? Purtroppo ancora no. L’ultimo ingrediente infatti, e sicuramente più importante, penso sia la motivazione profonda che muove tutti i processi descritti finora.

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Non necessariamente deve essere chiara da subito. Ma sicuramente senza di quella, e la volontà che da essa scaturisce, difficilmente si riuscirà a mettere in moto seriamente qualunque dinamica descritta in precedenza.

Occorre la volontà di trascendere la realtà come la percepiamo per raggiungere qualcosa che sta al di là non solo della nostra capacità percettiva ma anche della nostra consapevolezza.

Ma più che capire, occorre sentire.

E ciò che eventualmente si “sente” appartiene ad una sfera talmente intima e profonda da essere una modalità unica e irripetibile per ogni singolo individuo, a conferma appunto dell’unicità di ogni singolo essere.

Di più non vorrei aggiungere se non che questa capacità di sentire non può a mio parere essere regolamentata, istituzionalizzata né tantomeno mediata. O c’è o non c è. E se non c’è, molto probabilmente sta semplicemente aspettando il momento più opportuno per farlo.

Non necessariamente questo capacità di sentire sarà propiziata attraverso pratiche psicocorporee estrose, vite ascetiche himalayane o rituali folkloristici. Tuttavia, senza di essa, quanto detto finora perde gran parte della sua forza e applicabilità. Come un motore che va su di giri ma non viene mai inserita una marcia (anche soltanto la prima) che permetta effettivamente di iniziare a muoversi.

Perché Distruggere?

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Già, perché realizzare un elaboratissimo mandala per poi distruggerlo?

Ma non si può vivere una vita “tranquilla”? Sì, certamente, è possibile. Sono fermamente convinto che il libero arbitrio e la libertà che ne consegue siano la massima espressione di amore concepibile.

Tuttavia, se stiamo cercando risposte a quesiti profondi o se stiamo facendo un “lavoro su noi stessi”, ritengo che non possa mancare una altrettanto sincera e assoluta attitudine alla messa in discussione di se stessi, delle proprie idee e convinzioni e soprattutto una propensione al cambiamento e alla distruzione. Ma c’è dell’altro. Esiste a mio parere una sottile affinità tra cambiamento e il concetto generale di “agire”. E più in particolare, di “agire consapevolmente”.

Niente rimane mai fermo, anche se si è convinti secondo i propri riferimenti sensoriali e spazio temporali di essere fermi: e spesso, in realtà, ci stiamo muovendo molto più velocemente di quanto pensiamo. Pertanto l’immobilità, l’inazione e la conservazione dello status quo sono caratteristiche aliene dalla vera natura della realtà che ci contiene, siccome essa stessa è un continuo susseguirsi di creazioni e distruzioni.

L’idea quindi che sia possibile “fermare” una qualunque situazione o “non agire” è solo frutto dell’illusione e dei “filtri” che la alimentano illudendoci appunto di poter stare fermi indipendentemente da ciò che invece si muove e muta continuamente intorno a noi.

A questo proposito, penso possa aiutare un bellissimo estratto dalla versione del Mahabharata di Peter Brook, su cui si è svolta recentemente a Zénon una conferenza con Carola Benedetto e Luciana Ciliento. In quell’occasione non poteva mancare un approfondimento della scena in cui l’eroe Arjuna sta per soffiare nella conchiglia e dare il via alla terribile battaglia che lo vedrà scontrarsi con i suoi stessi parenti, ovvero l’episodio che rappresenta la Bhagavad Gita, cuore del Mahabharata stesso e testo sapienziale di enorme importanza.

Quando Arjuna vede schierati davanti a sé lo zio, i suoi cugini e il suo amato maestro d’armi, si sente annientato e abbandonando arco e frecce si rifiuta di combattere. Si rivolge al suo auriga Krishna (che è in realtà il dio Vishnu in forma umana) e gli chiede: perché dobbiamo combattere? Perché dobbiamo agire, pur sapendo di non poter evitare terribili conseguenze? Non è meglio allora rinunciare all’azione?

Krishna gli risponde che è impossibile evitare di agire. E di seguito le sue parole penso illuminino con estrema chiarezza il senso di quanto detto finora…

Da notare che Vishnu/Krishna non è legato tradizionalmente all’aspetto distruttivo, che è proprio di Shiva, ma alla conservazione (la trimurti è completata da Bhrama, il creatore). Questo è un particolare molto interessante, che nella versione di Peter Brook emerge in tutto il suo apparente paradosso: Vishnu ‘discende’ in forma umana ogni qual volta l’ordine cosmico (il dharma) sia a repentaglio, durante i tumulti che accompagnano ogni passaggio epocale come quello raccontato nel Mahabharata.

Ci si potrebbe quindi aspettare che Krishna agisca da pacificatore, e invece è proprio lui che appicca il fuoco, portando all’esasperazione i conflitti tra i cugini Kaurava e Pandava: a volte è necessario distruggere per conservare, mentre cercare di conservare gli equilibri formali è la forma più nichilista di distruzione.

Vivere Distruggendo

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Ovviamente vivere in questo modo non è affatto semplice e non permette di “sedersi”. Il continuo processo di distruzione e di creazione ci sottopone a una progressione non  lineare ma spiraliforme, una sorta di raffinazione continua di un minerale per ottenere un metallo sempre più puro.

Mettere in pratica veramente questi principi implica una scelta consapevole che spesso può avere degli effetti esplosivi (sia in positivo che in negativo) sulla vita anche ordinaria di un individuo. Vivere senza alcuna certezza o appiglio, travolti da questo continuo dinamismo, alla lunga può logorare se si conserva una resistenza profonda a questo meccanismo, come se venisse accettato soltanto in superficie ma negli abissi dell’interiore venisse al contrario ostacolato.

In realtà il segreto per non “bruciarsi col fuoco” non è tanto accettare la resistenza in maniera passiva o fingere che non esista. Né ricrearsi delle piccole valvole di sfogo per quei momenti in cui proprio non ce la si fa più.

Farsi attraversare dalla realtà e “spalmarsi” su di essa vuol dire arrivare ad un certo punto a dissolvere la propria forma. Tuttavia la dissoluzione non implica un annullamento, ma la capacità di assecondare la mutevolezza della situazione senza tuttavia perdere la propria natura originaria. Ancora una volta, distruzione e conservazione: la fedeltà a sé stessi implica apparenti incoerenze esterne verso le forme cristallizzate.

[irp posts=”4572″ name=”Meditazioni per non uscire dal mondo”]Solo in questo modo è possibile generare la minima resistenza al cambiamento e non venirne sopraffatti e infine annientati.

Sicuramente un effetto collaterale insormontabile (o almeno credo) è il senso di una profonda solitudine, che tuttavia è tale solo se si conserva una visione ancora parziale.

E c’è anche, certo, il rischio di essere considerati folli. Ma non esiste forse in tutte le Tradizioni la stretta vicinanza tra il concetto di follia e quello di divino, proprio a dimostrare come uno stato di fusione completa con ciò che ci circonda sia percepibile dall’esterno come appunto follia? E di personaggi che hanno sperimentato questi stati non ne troviamo descritti in ogni Tradizione e luogo della Terra? E forse, per arrivare anche solo a sfiorare per un istante la Verità, non bisogna essere dei folli?

Tantra

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Coraggio, cambiamento, distruzione, trasmutazione: è inevitabile cogliere come comune denominatore di questi aspetti un termine a me molto caro, che in sé racchiude un mondo, ovvero il Tantra. Raramente riguardo a un singolo termine sono esistite così tante imprecisioni e fraintendimenti. Soprattutto nel mondo Occidentale.

Lasciamo pure perdere l’abnorme e sintomatica identificazione con gli aspetti legati alla sessualità, che hanno generato interpretazioni che rivelano tutte le problematiche profonde nell’affrontare l’argomento: da un lato il sogno della disinibizione assoluta di una pulsione con cui non si riesce a interfacciarsi serenamente; dall’altro il tentativo di commercializzare il tantra come forma di counseling per coppie afflitte da calo di desiderio.

Ma anche mettendo da parte questo, il tantra spesso si risolve in tentativi vani di concettualizzare e categorizzare qualcosa che appunto per sua natura è pura esperienza e quindi non concettualizzabile né tantomeno trasmissibile a parole.

Religione, Filosofia, Via, stile di vita. Nessuna di queste definizioni mi ha mai convinto pienamente. Impossibile da inquadrare cronologicamente, unico nelle sue modalità, se obbligato e controvoglia dovessi provare a definirlo, lo intenderei come una Scienza Interiore, altamente evoluta, capace di permettere il completo controllo della mente e dei suoi processi. Ma ancora risulterei estremamente impreciso e carente… Il Tantra va vissuto. Anzi, forse è l’unica strada secondo il mio modesto parere, per Vivere veramente, nel senso più profondo e completo la nostra esistenza.

Anche se questo ovviamente richiede un grande coraggio.

Ringrazio Francesco Vignotto per la scelta iconografica e per la revisione del testo

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Lo Zen e l’arte di spaccarsi le palle con la meditazione

31 Maggio 2016 Francesco Vignotto


Su internet circolano ormai moltissime infografiche che illustrano i benefici del meditare sotto l’aspetto fisiologico e mentale. Lo fanno spesso con qualche immagine stereotipata di tramonti o di cascate, volti sorridenti e corredandolo con qualche nuovo studio ‘scientifico’ sull’attività cerebrale dei meditanti – abbiamo visto, del resto, quanto gli studi scientifici raramente siano compresi per quello che vogliono dire e arrivino spesso di terza o quarta mano al lettore medio.

Leggo inoltre che grandi aziende hanno inserito la meditazione nelle attività per i dipendenti, in modo da ridurre i livelli di stress in azienda e aumentare la produttività. I maligni del Guardian sostengono che si tratti di un escamotage per non affrontare le reali cause dello stress sul posto di lavoro, ma tant’è.

Dopo qualche secolo di esaltazione dell’iperattività, di abusi alimentari e di sostanze eccitanti, sembra insomma che sedersi immobili e concentrarsi (o semplicemente pensare di non pensare) sia qualcosa di altrettanto cool quanto la dieta vegana e i rave salutisti, e che la sua immagine abbia perso le tinte austere con cui, ad esempio, l’ho conosciuta io.

Non rimpiango certo quelle tinte, che oggi appaiono un po’ bacchettone e scoraggianti. Tuttavia c’è qualcosa di caricaturale nell’euforia odierna, e cercherò di spiegarmi in questo articolo, conscio che la mia è solo una opinione tra le tante possibili.

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Innanzitutto, come per lo Yoga – qui inteso per comodità “merceologica” come disciplina che comprende anche la pratica psicofisica – la gente vuole sapere se la meditazione fa male o la meditazione fa bene. Il problema è che la meditazione, come lo yoga, non fa nessuna delle due cose. Anzi, non fa proprio. Per lungo tempo – e forse in senso assoluto – la meditazione si occupa di dis-fare, e mi si perdoni il terribile gioco di parole.

Anche per questo mi trovo a volte in imbarazzo nel rispondere a persone che chiedono di partecipare alle lezioni di meditazione qui a Zénon. Spesso non sanno di cosa si tratti esattamente, ma sulla base delle notizie in loro possesso ritengono che possa risolvere i loro problemi. Qualcuno si sente ansioso, qualcuno è depresso, alcuni pensano di pensare troppo (e già questo è un doppio problema), e a volte la pratica meditativa viene suggerita loro dal medico – e d’altro canto non sempre, lo dico al di sopra di ogni sospetto (qui a Zénon ci sono dei medici), la prescrizione è effettuata con cognizione di causa.

Ebbene, di fronte a queste aspettative mi sento in tutta sincerità di invitare a provare prima con lo Yoga, o con il Qi Gong o con il Tai Chi (potrebbe essere anche altro, ma mi limito a quello che può offrire la casa), specificando che queste pratiche, per noi, significano anche meditazione. Il “rodaggio” con queste pratiche che contemplano una maggior integrazione degli aspetti corporei è anzi ormai una regola fissa qui a Zénon per accedere alle ore di meditazione, anche a costo di scontentare qualcuno.

Il motivo è che, a mio parere, iniziare con una pratica volta a disciplinare la mente per mezzo della mente significa spesso cercare di costruire una casa partendo dal tetto, con risultati a volte disastrosi, anche se in altri casi, in presenza di venditori particolarmente abili e incuranti, si riesce a convincere l’acquirente che le fondamenta non servono a niente.

Tuttavia, quanto abbiamo appena detto non è del tutto esatto: nella meditazione non si utilizza solo la mente, come potrebbe sembrare, perché la meditazione richiede dei prerequisiti psicofisici, tra cui la capacità di trovarsi a proprio agio in una (relativa) immobilità corporea rimanendo al tempo stesso rilassati.

Alcune tradizioni prescrivono la postura del loto o altre posture sedute tutt’altro che naturali per noi occidentali, che devono diventare “comode e stabili” (tale è la celebre definizione yogica della postura seduta). Altre forme di meditazione dinamica richiedono una certa scioltezza fisica che è profondamente diversa da quella di un ginnasta, perché deriva non dalla semplice flessibilità muscolare ma richiedono lo stesso stato di disponibilità mentale della meditazione “statica”.

Ma anche sedendo su una sedia senza troppe formalità, il punto più difficile è gestire il naturale dinamismo della mente, di cui il dinamismo corporeo è un sottoprodotto, così come la tendenza a saltare di pensiero in pensiero: tutto ciò può costituire un ostacolo insormontabile senza un’adeguata preparazione.

Scriveva Aurobindo:

L’attività normale della nostra mente è fatta in gran parte di un’agitazione disordinata, piena di sperpero e di energie sprecate in frettolosi tentativi, di cui appena una piccolissima parte è utile alle operazioni di una volontà padrona di sé stessa (si tratta, ben inteso, di sperpero dal nostro punto di vista, non secondo quello della Natura universale in cui tutto ciò che a noi sembra spreco serve gli scopi della sua economia). L’attività del nostro corpo è fatta di questa agitazione. 1Aurobindo, La sintesi dello Yoga, Ubaldini

Proprio per questo, prosegue Aurobindo nello stesso scritto, l’haṭhayoga 2A scanso di equivoci, con questo termine intendiamo qui – e lo intendeva Aurobindo – lo Yoga che prevede l’utilizzo di tecniche psicofisiche quali le principali sono āsana e prāṇāyāma. Quasi ogni forma di Yoga oggi praticato nelle palestre, a dispetto della varietà di etichette e delle varie elaborazioni didattiche, è riconducibile a questa tradizione, anche se a volte con profonde differenze che solo in parte abbiamo visto in Lo Yoga in una posizione. può essere una solida base di partenza, perché comincia ad affrontare il problema dall’altro bandolo della matassa, quello più facile da disciplinare.

Da notare anche che Aurobindo, la cui prospettiva di Yoga Integrale è molto vasta e articolata, non era esattamente un grandissimo estimatore dell’haṭhayoga, così come della meditazione, che riteneva mezzi utili solo temporaneamente, laddove in molte tradizioni sono considerate delle vie autosufficienti che possono condurre sulle più alte vette.

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Illustrazione di Nick Lowndes per il Guardian

Mentre l’haṭhayoga permette infatti di drenare preliminarmente parecchie tensioni mentali attraverso il corpo in modo graduale e senza cadere nelle varie trappole della mente, la meditazione è molto più spesso una “cura da cavallo” che rischia di essere troppo drastica – o inutile- se affrontata da sola.

Durante la meditazione la mente si comporta infatti come un organismo sottoposto a un digiuno: ridotta o sospesa l’alimentazione (è il primo cibo disciplinato sono gli stimoli sensoriali), comincia a fare pulizia interna rigurgitando anche i contenuti sedimentati molto in profondità. Ammesso che la mente riesca a disciplinarsi in tale dieta, il rischio è che la mente finisca più spesso per ubriacarsi di sé stessa, piuttosto che smaltire la sbornia da iperattività a cui è normalmente soggetta.

Il problema non è tanto la quantità di materiale da smaltire, che paradossalmente potrebbe essere eliminato in un istante, ma la capacità di lasciare esaurire la sua produzione, dacché la mente non solo “contiene” ma “crea” in continuazione, allentando la reattività a agli stimoli (ne avevo parlato riguardo al concetto di rilassamento profondo in Dormire col demone che grida).

In questo bisogna arrivare già preparati quando ci si siede a meditare, altrimenti il gradino rischia di essere troppo alto. La mia, ripeto, è un’opinione, mentre altrettanto autorevoli fonti ritengono che basti la meditazione in sé (si veda ancora Lo Yoga in una posizione). Anche se questa contrapposizione è in ultima analisi relativa, ritengo che a favore della mia tesi ci siano parecchi argomenti troppo spesso sottovalutati.

Anche alla luce di tutto questo, la meditazione è da affrontare con cautela in caso di problematiche che turbano lo stato mentale. Anzi, a maggior ragione sconsiglio di meditare a tutti coloro che riferiscono di problematiche di stress, ansia, depressione o siano semplicemente già troppo inclini a rimuginare. Per questi ultimi, in particolare, la meditazione è l’ultima attività da intraprendere, in quanto li scollegherebbe ancora di più dalla realtà. Il che è ben diverso dal realizzare l’illusorietà del mondo fenomenico come formulato in molte tradizioni: significa anzi rimanere ancora più vittime delle illusioni della propria mente.

Insomma, la meditazione, anche e forse soprattutto nelle sue forme più “semplici” e a dispetto dell’aspetto “sexy” oggi attribuitole, può essere spesso una pratica molto frustrante. In molti casi, terribilmente noiosa. Non di rado, quando si hanno parecchi spettri nella bisaccia (che quasi mai sono noti o evidenti), può scatenare conflitti piuttosto violenti nel praticante.

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Tuttavia, l’incontro con questa noia e con questa frustrazione, anche con questi conflitti, è un segnale in un certo senso positivo ed entro certe dosi è un passaggio necessario, perché significa che la pratica sta agendo il suo effetto. Peggio è ancora quando il praticante fin dall’inizio riferisce di esperienze meravigliose e di una pace intensa, perché spesso è il segnale che nessuna purga può scalfire la costipazione. Ho imparato a dubitare seriamente della salute mentale di chi si delizia dell’olio di ricino come di una prelibatezza, ma tra le varie disfunzioni alimentari esiste oggi di sicuro anche questa. Sempre che, ovviamente, l’amara medicina non sia stata contraffatta e depotenziata, come vedremo tra poco.

In ogni caso, il problema è: come avanzare oltre questa noia e questa frustrazione? Elenco alcune possibili vie pessimistiche. In un primo caso, piuttosto frequente, è molto facile l’abbandono di una strada ritenuta troppo difficile.

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Un caso intermedio, ma non raro in alcune nicchie oggi come un tempo, è che al lassativo si sostituisca qualche sostanza psicotropa o qualche palliativo colorato (app per gli smartphone, palline fluorescenti, santini del guru e suggestioni emotive di varia natura) nell’illusione di tagliare per vie abbreviate.

Purtroppo, come ripeto sempre in questi casi, un somaro in LSD a cui appare lo Spirito Santo in persona rimane pur sempre un somaro, posto che il più delle volte lo Spirito Santo è un’ulteriore proiezione della sua mente più intossicata del consueto. Non si può pensare che l’esperienza abbia efficacia a prescindere dal livello di coscienza di chi la sperimenta, il che lo si conquista con un durissimo lavoro.

Ma spesso anche chi persevera non se la passa molto meglio. Abbiamo visto infatti generazioni di meditanti continuare la pratica senza grandi risultati, nella rassegnazione a rompersi discretamente le scatole, osservando i puntini comparire e scomparire all’orizzonte del loro personale Deserto dei Tartari, credendo di scorgervi ogni giorno i segnali di una svolta che non arriverà mai.

In quest’ultimo caso, la meditazione diventa come le famose cinque razioni di frutta e verdura da mangiare ogni giorno o la messa per il cristiano svogliato. E spesso questa noia è percepita quale giusta dose di sofferenza da accollarsi per salvarsi l’anima (o, nel gergo, per bruciare un po’ di karma), siccome ogni cosa che salvi l’anima è dolorosa (così almeno ci hanno detto).

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Non manca chi suggerisce di aiutare la meditazione tramite l’utilizzo di cannabis, per “aiutare ad allentare le resistenze”.

Il primo e l’ultimo caso sono tipici – anche se non sempre –  di quel particolare profilo di praticante che si dedica alla sola meditazione “seduta” ritenendo che le magagne del proprio corpo possano essere separate da quelle della propria mente (a onor del vero un giorno parleremo anche dei praticanti “esperti” di yoga che dopo molti anni non riescono a tollerare anche solo pochi istanti di inattività: è l’altro lato di una medaglia che si tenta sempre di scindere).

Insomma, la meditazione molto spesso e per molto tempo sembra accumulare sul tavolo i problemi, invece di risolverli.

Ma siamo sicuri di aver capito cosa sia la meditazione? A dire il vero, più passano gli anni e più confesso di avere idee felicemente sempre meno definite e sempre più sfocate sulla questione. È anche per questo che scrivere questo articolo mi ha creato parecchio imbarazzo, in quanto per necessità espressiva so di aver usato alcuni stereotipi e dando parecchio per scontato.

Le persone che si informano su un corso di meditazione vogliono sapere quale tipo di meditazione si faccia, se è “statica” o “dinamica”, sciamanica, cristiana, buddhista, laica o trascendentale, insomma vogliono sapere che cosa aspettarsi da quell’oretta alla settimana e di poterlo inquadrare in base alle etichette correnti. Il che, in un certo senso, è del tutto comprensibile dal punto di vista di un acquirente che poco si fida della scatola chiusa, e in molti casi fa bene.

Ma qui si rivela quanto la meditazione poco si concili con le categorie merceologiche. Il più grande equivoco è infatti dare per scontato che la meditazione sia quel qualcosa che “si fa” quando si “decide” di meditare, il che, come vedremo nel seguito di questo articolo, non è per nulla scontato, dacché pensare di fare e di decidere, o connotare con qualche colorante folkloristico significa rimanere ancora intrappolati ben prima del nodo da sciogliere.

Moltissime tradizioni che hanno tenuto in gran conto la meditazione, del resto, hanno anche detto che meditare è inutile. Non soltanto nel senso che non dev’esserci aspettativa di vantaggio alcuno – il che poco di concilia con la meditazione per aumentare la produttività, o anche per migliorare la concentrazione o ridurre lo stress. Molte tradizioni affermano infatti da un lato che meditare è la via, dall’altro che meditare è controproducente.

Ma allora cos’è la meditazione e perché tutte queste contraddizioni?  Per amor di sintesi, e per non aggiungere per ora troppa carne al fuoco, affronteremo l’argomento nel prossimo articolo.

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Note
↑1 Aurobindo, La sintesi dello Yoga, Ubaldini
↑2 A scanso di equivoci, con questo termine intendiamo qui – e lo intendeva Aurobindo – lo Yoga che prevede l’utilizzo di tecniche psicofisiche quali le principali sono āsana e prāṇāyāma. Quasi ogni forma di Yoga oggi praticato nelle palestre, a dispetto della varietà di etichette e delle varie elaborazioni didattiche, è riconducibile a questa tradizione, anche se a volte con profonde differenze che solo in parte abbiamo visto in Lo Yoga in una posizione.
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