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Giappone

Giappone    highlights    meditazione

Lo Zen e le Neuroscienze: il Sé e l’Altro

7 Febbraio 2017 di Marco Invernizzi


Da molti anni lo studioso e neuroscienziato J.H. Austin  si interessa di processi cognitivi, neuroanatomia e neurofisiologia della meditazione. Oltre a decine di suoi articoli in ambito neuroscientifico, sicuramente il libro intitolato Zen and the Brain, di cui è autore, ha segnato un punto cruciale nella ricerca in questo ambito.

Un recente articolo, pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology, cerca di riassumere brevemente, per quanto possibile, alcune delle scoperte di Austin in oltre 30 anni di ricerca sulla meditazione in ambito neurofisiologico. [1]

Come inizio del suo approccio a questa problematica, Austin fa emergere chiaramente come due mondi apparentemente inconciliabili quali la neurofisiologia e lo Zen in realtà abbiano molti più punti in comune di quello che si possa immaginare, e come i neuroscienziati possano intuire molto delle dinamiche e dei processi cognitivi dallo studio di questa tradizione, e viceversa.

Cenni Storici

Come già tracciato da Francesco Vignotto su questo blog, lo Zen è una corrente buddhista giapponese che a sua volta deriva dalle scuole Chan cinesi, a loro volta fondate secondo la tradizione dal leggendario monaco indiano Bodhidharma nel V secolo dopo Cristo.

Il termine Zen sarebbe proprio l’adattamento in Giapponese del termine Chan, che a sua volta traduceva il termine sanscrito dhyāna che nell’insegnamento originale del Buddha è il termine utilizzato per descrivere, per quanto possibile a parole, lo stato di meditazione.

Sarebbe tuttavia riduttivo ricondurre lo Zen/Chan al solo alveo del buddhismo (alle cui scritture riserva peraltro un’attenzione limitata), perché reca altrettanto evidente l’influsso del taoismo, da cui ha ereditato l’approccio essenziale e immediato.

220px-Dogen
Eihei Dōgen (永平道元禅師, Eihei Dōgen zenji; Kyoto, 2 gennaio 1200 – Kyoto, 28 agosto 1253)

Ciò è particolarmente evidente proprio nella pratica meditativa più conosciuta, lo Zazen, definita in una serie di trattati dal fondatore della scuola Zen Soto Dogen Zenji (1200-1253).

Attraverso il controllo di corpo (la postura), respiro e mente (i cui soffi e i cui pensieri vengono osservati senza interferire, come nuvole che passano nel cielo) nello Zazen la meditazione è concepita non come un mezzo di progressiva verso l’illuminazione, ma spesso come l’esperienza stessa del risveglio.

Risveglio, illuminazione, ovvero satori, che spesso viene descritto come evento fulminante e al tempo stesso come “niente di speciale”, affermazione apparentemente sul filo del paradosso (lo Zen ama i paradossi, anche quando si fa gioco di sé stesso) che allude alla caduta di quel diaframma tra il sé e l’altro di cui parleremo tra breve.

 

I quattro capisaldi Zen

Austin, prima di entrare nel vivo del discorso, accenna brevemente a quattro capisaldi dello Zen che aiutano a comprendere meglio alcuni aspetti di questa Tradizione e i fini che si prefigge:

  1. il consapevole allenamento dell’attenzione e della percezione durante le attività del vivere quotidiano;
  2. l’eliminazione delle abitudini negative esageratamente centrate su sé stessi (egoisitiche) e i comportamenti che portano a uno spreco di tempo e di energia;
  3. l’aumento delle capacità personali intuitive di introspezione;
  4. l’applicazione di queste capacità interiori in maniera continuativa e costante con aumentata compassione sia verso gli altri esseri che verso sé stessi. [1]

Sé e altro da sé (self and other)

Esiste un lungo sentiero di allenamento mentale che può condurre ad adattamenti importanti del carattere e sono due i domini cruciali che intervengono nell’influenzarlo: il sé e ciò che è diverso da sé, meglio definito di seguito come altro.

Il primo rappresenta la coscienza distintiva interiore di noi stessi come individualità. Il secondo si riferisce alla consapevolezza dell’esistenza dell’ambiente fuori dalla nostra pelle. Questa distinzione e la trasformazione che viene prodotta nel soggetto che riesce a superarla e trascenderla, è descritta col termine “illuminazione”: uno stato di aumentata consapevolezza che ha trovato una testimonianza importante ad esempio proprio nella figura di Siddharta Gautama, il Buddha storico, chiamato anche appunto “l’illuminato”.

Tuttavia, nonostante questo sia sostanzialmente il punto di arrivo, o comunque un traguardo già molto avanzato, in tutte le tradizioni è importante l’iniziale riconoscimento e consapevolezza dell’esistenza di questi due domini con l’obbiettivo finale però di trascenderli. [1]

Neuroscienze e Meditazione

1. I due network attentivi

La ricerca neuroscientifica ha identificato due fondamentali network attentivi operanti a livello corticale che vengono comunemente identificati in questo ambito con i termini “dorsale” e “ventrale” rifacendosi a grandi linee alla loro localizzazione anatomica all’interno del sistema nervoso centrale. Quello dorsale quindi risulterebbe localizzato in posizione posteriore, mentre quello ventrale in posizione più anteriore. [2-4]

Negli studi di Austin è emerso come nei praticanti meditazione i sistemi attentivi dorsali si attivino maggiormente durante le pratiche meditative di focalizzazione e concentrazione. Al contrario, i sistemi attentivi ventrali sembrano attivarsi di riflesso durante le più sottili forme di attenzione e negli stati di consapevolezza definita più “generalizzata”. Importante ricordare che quest’ultima via viene coltivata più gradualmente durante le pratiche meditative che sono più apertamente centrati sulla ricettività.

2. La percezione sé-altro

Oltre ai due sistemi evidenziati nel paragrafo precedente la ricerca nell’ambito delle neuroscienze ha anche prodotto notevoli contributi sui correlati legati alla problematica della percezione sé-altro da sé. Anche a questo livello sono stati identificati due circuiti principali di processazione di queste due percezioni che, curiosamente, sono anch’essi a localizzazione dorsale e ventrale all’interno del sistema nervoso centrale.

dorsal-ventral
Figura 1 – circuito dorsale e ventrale secondo  Austin.

Secondo Austin, questi network producono consapevolezza attraverso due percezioni anatomicamente separate  della realtà che vengono poi rapidamente fuse senza cuciture e sintetizzate in un’unica percezione. [1-3]  La consapevolezza di noi stessi (o del sé o autoconsapevolezza o Egocentrica) è localizzata a livello dorsale ed è anche la prima ad essere abitualmente processata. La Figura 1 illustra come il circuito dorsale può interagire con il senso del tatto e con la propriocettività, due funzioni localizzate a livello del lobo parietale. Questa sovrapposizione  è conveniente perché il tatto e la propriocezione ci aiutano a manipolare oggetti tangibili all’interno dello spazio localizzato vicino al nostro corpo, aiutandoci a definire quello che Austin definisce come una sorta di “spazio vitale” a spazio “a portata di mano”.

Questo circuito neurale di processazione superiore, localizzato, come si vede in Figura 1, a livello occipito-parietale  segue una traiettoria che a tratti si sovrappone a quelle regioni laterali e superiori corticali che rappresentano lo schema somatico del nostro sé fisico secondo lo schema dell’Homunculus sensitivo e motorio schematizzato in Figura 2.

Figura 2 – Le aree della corteccia motoria e sensitiva primaria con a destra la rappresentazione schematica delle aree corporee di riferimento (Homunculus sensitivo e motorio).

Tuttavia è riduttivo sintetizzare il senso di questo circuito al semplice “Dove?” al fine di permetterci di capire se possiamo o meno afferrare e/o interagire con un oggetto. In realtà, secondo Austin, la domanda è strutturata in maniera più complessa, in modo da coinvolgere le tre dimensioni del nostro spazio personale: “Dov’è l’oggetto in relazione a Me e al mio corpo?”. [1-3]

Il secondo circuito, denominato ventrale, è invece associato ad altre capacità percettive come la vista e l’udito. Oltre ad avere una localizzazione anatomica molto diversa rispetto al circuito dorsale (parti inferiori del lobo occipito-temporale e frontale), tale circuito processa informazioni legate non tanto alla percezione del sé come il circuito dorsale ma più legate ad una modalità percettiva “allocentrica” (Allo, dal greco, significa semplicemente “altro”). [1-3]

Questo circuito tuttavia secondo Austin, lavorerebbe come in secondo piano rispetto al circuito dorsale egocentrico, in maniera quasi silenziosa, sotterranea e semi-nascosta, restando autonomo e poco controllato dalla nostra coscienza.

Perché ci risulta così poco familiare l’esistenza di questo altro percorso (pathway), che si riferisce a ciò che è “altro” dal nostro sé? Secondo Austin, perché questo  inizia ad operare in maniera anonima, rispondendo alla domanda “cos’è quell’oggetto?” e, istantaneamente, abilità subconscie e circuiti corticali di riconoscimento identificano tale oggetto e per concludere simultaneamente altre abilità ne decodificano il significato. [1-3]

3. L’Interazione

Sulla base delle due vie precedentemente descritte, secondo Austin, i nostri processi coscienziali ordinari sono inconsapevolmente determinati dalla fusione e sovrapposizione senza interruzioni di continuità delle percezioni e informazioni veicolate da questi due circuiti. [1-3]

Queste dinamiche svaniscono quando l’intera via Egocentrica Dorsale (cioè il sé) viene rilasciata, o meglio controllata, raggiungendo quegli stati di super-consapevolezza definiti “illuminazione” o satori nello Zen. Lo Zen (e in generale il Buddhismo) appunto usa come metafora di questo stato di vacuità senza identità ottenuta dopo l’abbandono da tutti i precedenti attaccamenti: “Il fondo fuoriesce e rilascia il suo contenuto pieno d’acqua”. [1-3]

A questo punto, soppressa la processazione “egocentrica”, la processazione “allocentrica” emerge senza rimanenti veli o limitazioni e le sue innate capacità subconscie, percepite isolatamente, vengono rivelate per la prima volta. Ma prima di approfondire queste dinamiche è utile proseguire nella descrizione di altre strutture cerebrali che intervengono nelle dinamiche cognitive che sottendono a questi stati.

4. Default Network

Oltre alle quattro vie descritte in precedenza (dorsale e ventrale ed egocentrica e allocentrica), le neuroscienze hanno coniato il termine “default network” (letteralmente rete predefinita e/o automatica) per indicare un largo agglomerato di regioni corticali molto eterogenee e anche distanti anatomicamente che però cooperano in modo attivo.

Figura 3 – Principali aree del default network.

Le tre principali e più estese di queste aree occupano la Corteccia Prefrontale (PFC) mediale, la corteccia parietale posteriore mediale e la corteccia laterale del giro angolare, ma ne fanno parte molte altre, come rappresentato in Figura 3 e 4. In questo network e nelle sue diverse estensioni coesistono rappresentazioni contemporanee di funzioni sia  “autobiografiche”, cioè legate al vissuto personale,  che riferimenti spaziali.

Figura 4 – Reti principali del default network.

Sono quindi presenti funzioni legate all’impressione di controllo (sovranità) personale [1-3] e contemporaneamente  ciascuna di queste nozioni mentali riguardanti il nostro sé viene memorizzata come un evento coerente incapsulato nel contesto di un particolare riferimento spaziale o di una particolare situazione. [1]

Secondo Austin, questi dettagli topografici e scenici sono essenziali per permetterci di poter usare questi eventi processati e memorizzati in futuro; infatti soltanto se ciascun episodio è ancorato in un particolare punto del nostro ambiente, e in un particolare momento del nostro personale “time frame” allora ciascuno di questi episodi separati potrà organizzarsi in un dettagliato vissuto personale riutilizzabile anche in futuro, andando probabilmente a costituire le basi di quella che, in maniera molto superficiale e semplicistica, può essere secondo lui definita “Esperienza”. [1-3]

Una piccola osservazione di carattere personale: trovo riduttivo che il concetto di esperienza sia riconducibile soltanto a questa dinamica, anche perché a volte capita che soggetti affetti da amnesia riescano a svolgere delle attività pur senza aver alcuna memoria e/o nessun riferimento spazio-temporale del loro passato.

5. Ritmi e Metabolismo Cerebrale

Da quanto emerso finora il cervello quindi oltre a tutte le normali funzioni deve sostenere una notevole quantità di funzioni e processi legati al proprio vissuto personale e alla percezione del sé. Ma quanto impattano sul metabolismo generale cerebrale tali funzioni e il sostentamento delle aree deputate alla loro processazione?

A questo punto Austin fa un breve riassunto dei principali studi eseguiti con tecniche di imaging dinamiche per valutare il metabolismo cerebrale di tali aree. I primi studi con Tomografia ad emissione di positroni (PET) mostrarono che le vaste aree eterogenee descritte in precedenza riguardanti tutto ciò che è referente al sé richiedevano un metabolismo continuo ed attivissimo anche durante condizioni di apparente riposo. [1,2,5]

Stesse dinamiche erano state rilevate anche tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI) che aveva evidenziato come i segnali provenienti da tali aree diventavano addirittura più attivi (sopra ad arbitrari livelli di base) quando i ricercatori assegnavano ai soggetti in studio degli specifici task (azioni codificate) referenti alla percezione di sé, [1,2,5] mentre si riducevano drasticamente sotto i livelli basali nell’istante in cui uno stimolo esterno catturava l’attenzione del soggetto.

Ulteriori studi di fMRI rivelarono un altro importante fatto: l’attività di queste aree corticali localizzate in posizione mediale e referenti al sé avevano un’attività inversa rispetto a quelle a localizzazione laterale, deputate ai processi attentivi. [1,3]

Secondo Austin, queste due macro-aree cerebrali separate legate una al sé (mediale) e l’altra all’attenzione (laterale) cooperano, ma in direzioni opposte, in maniera sinusoidale creando un lento e spontaneo ritmo endogeno. Questi ritmi reciproci non richiedono per attivarsi di stimoli esterni e ricorrono lentamente, circa tre volte al minuto, in un largo ciclo indipendente. [6]

Lo psicologo svizzero Walter Hess, che vinse il premio Nobel nel 1949, documentò le capacità dinamiche nascoste nelle regioni diencefaliche profonde. [1]

La prosecuzione ad oggi di questi studi rende plausibile l’ipotesi che alcune regioni cerebrali (dentro e attorno al talamo) possano essere l’origine di questi ritmi inversi spontanei documentati nei precedenti studi di fMRI. Dopo tutto questi sono dei cambiamenti a ritmo lento o veloce paragonabili all’ON/OFF di un interruttore che reclutano, ciclicamente, regioni corticali differenti che svolgono attività cruciali sia per i processi attentivi che per la rappresentazione del sé.

6. Ruolo del talamo

Il Talamo è una delle stazioni fondamentali di processazione a livello cerebrale di qualunque tipo di percezione ed esistono intricati circuiti interattivi che collegano e fondono le funzioni talamiche con quelle corticali. [5]

Tutte le nostre sensazioni salgono verso la corteccia attraversando i suoi nuclei (tranne l’olfatto) e quindi, secondo Austin, il talamo funziona come un importante pacemaker per tutto il cervello. In particolare, secondo Austin, risultano fondamentali tre nuclei limbici localizzati anteriormente al talamo che fanno da staffetta per i messaggi ad elevato carico emotivo veicolandoli dal sistema limbico fino alle aree legate al sé della corteccia, ricevendo infine risposte da veicolare in direzione opposta provenienti appunto da queste aree corticali.

Quindi questi tre nuclei limbici interagiscono con la maggior parte di quelle regioni associative corticali evidenziante in precedenza (mediali, egocentriche) organizzate in maniera da rappresentare i principali aspetti autobiografici del nostro sé correlati con le sue memorie topografiche. [1-3] Austin ha dimostrato come questi nuclei e le corrispettive regioni corticali si coattivino non solo durante un acuto emergere di sovraccarico emotivo, ma anche durante il conseguente processo rimuginativo. [1,2,3,5,7]

Tuttavia, nonostante queste connessioni bidirezionali talamo-corteccia semplificate all’estremo da Austin, esse ci forniscono soltanto una piccola e incompleta spiegazione di come tutto il nostro vissuto (percezioni, emozioni etc.) venga registrato e sedimentato nella memoria a lungo termine. Rimangono quindi le seguenti domande:

Come può il cervello liberarsi delle stratificazioni profonde legate alla percezione del sé? Come agiscono le tecniche di meditazione a tal proposito? E nello specifico riguardo allo Zen cosa accade negli stati di aumentata consapevolezza e risveglio come Kensho (uno stato di profonda consapevolezza che precede l’illuminazione) e Satori?

Prima di rispondere a queste domande è necessario introdurre un’ultima struttura encefalica coinvolta in questi processi.

7. Sostanza Reticolare

Il nucleo reticolare è un sottile strato di neuroni che avvolge i contorni del talamo e anche se ad oggi i dati di fMRI non lo contemplano, tuttavia esiste e i suoi neuroni rilasciano GABA, uno dei più potenti neurotrasmettitori inibitori. [5,7]

Potrebbe il GABA secreto da questo nucleo produrre un effetto “auto-annichilente”, cioè di soppressione della percezione del sé ? la risposta secondo Austin è si. E come avverrebbe questo processo? in virtù delle sue capacità selettive di calibrare la sincronizzazione delle nostre normali oscillazioni talamo-corticali. [6,8] Oltre a questa selettività vi sono le capacità di dissociare le funzioni visive dai due grandi circuiti descritti in precedenza, il ventrale e il dorsale. [9]

Il nucleo reticolare non agisce da solo, infatti ha due alleati inibitori, la zona incerta e il nucleo pretettale. La zona incerta rilascia GABA verso i nuclei talamici (incluso quello mediale dorsale) e il nucleo pretettale anteriore proietta sia al nucleo mediale dorsale che al laterale dorsale del talamo.

8. Neurofisiologia degli Stati Meditativi Profondi

Da quanto emerso in precedenza, esistono sostanzialmente dei circuiti con azione opposta, un default network e delle aree legate al talamo e alla sostanza reticolare che, agendo sui sistemi GABAergici sono in grado di sopprimere le vie legate alla percezione del sé.

Le parole anatta, no-self, e “non io” sono tra i termini standard usati per descrivere gli attributi di assenza del sé che si riscontrano in stati avanzati meditativi in cui è possibile manifestare questa soppressione della percezione del sé.

Essa è molto importante non solo, come vedremo, per lasciare emergere altri aspetti che normalmente sono silenziati dalla percezione del sé, ma anche per spiegare ad esempio come  mai le radici profonde delle paure primitive vengano abbandonate nel processo di risveglio della coscienza durante stati meditativi profondi come il Kensho, esattamente come anche la sensazione personale del passare del tempo o acronia, ossia uno stato di coscienza caratterizzato dalla perdita della percezione del passare del tempo. [2,5]

Austin a questo punto si pone alcune domande: “Quali altri network cerebrali potrebbero rimanere attivi durante tali stati coscienziali? Quali evidenze ci offrono una potenziale spiegazione per la genuina impressione di Unità che pervade tutto il nuovo campo di esplorazione coscienziale indotta da questi stati?”

Da quanto emerso finora tra circuiti, strutture e processi cognitivi, secondo Austin, scorrendo la lista dei candidati, i più probabili sembrerebbero i circuiti “allocentrici”. Il loro coinvolgimento nella struttura di riferimento di ciò che è “altro” dal nostro sé non è una nuova esperienza.

Questa prospettiva “anonima” (senza la percezione del sé) è sempre stata lì, svolgendo tuttavia un ruolo nascosto e subordinato al circuito egocentrico del sé. Tuttavia queste risorse legate all’altro da sé, rese libere dalla dominanza del circuito egocentrico del sé, possono essere espresse in una maniera completa e senza inibizioni.

In empty anonymity, this now-unveiled other-referential mode is liberated into the foreground of consciousness, reifying the perfection of the whole mental field with a meaningful global objectivity beyond reach of mere words.

Nel vuoto anonimo, questa modalità svelata legata all’”altro” (o non-sé) è libera di agire sul piano coscienziale, perfezionando tutto il campo mentale con una nuovo significato globale e oggettivo che va oltre la portata delle parole.

E sorprendente quanto questa definizione di Austin[5] sia simile a quella di Dhyana fornita in altre tradizioni di cui abbiamo parlato qui. E ancora più interessanti alcune definizioni del concetto di “illuminazione”, ovvero il coronamento di tutti questi processi meditativi: [10,11]

An astonishingly fresh impression of immanent reality prevails throughout this non-dual state of “Oneness”: all things, seen selflessly in the total absence of fear, are comprehended “as they really are.”
A state of being empty of ego, but full of what can come through [i.e., allo-perception] when that ego has been let go of.

Una sconvolgente nuova impressione di realtà immanente prevale attraverso questo stato di non dualità, di Unità: tutte le cose, viste senza il sé, nella totale assenza di paura sono comprese per “come veramente sono”.
Uno stato di vuota assenza di ego, ma colmo di quel qualcosa che può fluire quando l’ego è stato abbandonato.

Quindi secondo Austin, con il progredire del percorso meditativo la comparsa di una “nuova prospettiva” è preceduta dallo svanire della precedente percezione intrusiva del sé e il suo senso di sovranità.

Quando non esiste più il precedente sé egocentrico il “possessore” di queste percezioni inizia a “sentire” ciò che è intorno a lui con una particolare oggettività sconosciuta in precedenza. [1,2,5-7]

Tuttavia non bisogna concludere che la graduale diminuzione dell’ego durante decenni di pratica Zen rimuova quel pragmatico senso del sé che permette di risolvere le problematiche del vivere quotidiano adattandosi ad esse in un processo di aumentata maturità realistica.

In questo consiste l’allenamento orientato alla dissoluzione di queste distorsioni negative e neurotiche dell’ego che si difende attraverso i suoi condizionamenti e gli attaccamenti legati ad una scorretta percezione del sé. [7]

Precedente allo stato di Kensho viene descritto nella tradizione Zen uno stato denominato di “assorbimento interno”. [1,2] Modelli diversi sono stati proposti per spiegare questo stato alterno di coscienza chiamato “assorbimento interno” [7], che è descritto ad esempio nello Yoga come stadio di pratyahara, ossia appunto di ritrazione dei sensi verso l’interno.

Esso rappresenta uno stato preliminare, non raro durante i primi anni di pratica meditativa regolare. Fenomeni paradossi si possono manifestare in questo stato come visioni su sfondo nero, udire suoni particolari e una diversa percezione “non fisica” di sé dalla testa fino ai piedi.

Una spiegazione plausibile di questi fenomeni, secondo Austin, sono gli iniziali effetti dati dal blocco GABAergico  sul network egocentrico che determina la percezione del sé. [1,2,5-7] Questa inibizione può essere applicata a livello talamico previene la risalita degli impulsi alla corteccia, portando ad una iniziale soppressione delle sensazioni e della percezione del sé.

Conclusione

Da un punto di vista medico, le implicazioni sono molte e molte le domande. Tutto è semplicemente riconducibile ai due circuiti e alle loro interazioni? E i ricordi? E l’elaborazione e sovrapposizione di questi ultimi con ciò che accade ad ogni istante come avviene? E “l’esperienza”?

Sicuramente siamo lontani dal raggiungere risposte esaustive a queste domande, tuttavia ciò che emerge a livello embrionale come ipotesi è la consapevolezza che il cervello non abbia una conformazione strettamente topografica legata alle sue funzioni ma che piuttosto operi per aree che a seconda della situazione e dell’azione necessaria si attivano simultaneamente come un mosaico, creando quindi infinite conformazioni e possibilità di attivazione e quindi infiniti utilizzi e potenziali funzioni del cervello stesso.

Ciò apre ad una visione non più solo bidimensionale del cervello, ma tridimensionale e forse anche quadrimensionale, sempre ammettendo che la nostra mente (non solo la) e la nostra coscienza siano localizzate solo ed esclusivamente lì.

E qui torniamo alla tradizione Zen, che, come abbiamo visto (sempre in Meditazioni per non uscire dal mondo), appartiene a quella molto più vasta corrente secondo la quale la Coscienza è anteriore al senso dell’io stesso con cui si identifica.

Il lavoro di Austin ha il merito di aver fornito una chiave in più, in ambito scientifico, per comprendere come la meditazione, sia essa ottenuta tramite un processo o per immediato riconoscimento, sposti l’accento dall’io alla Coscienza stessa.

Uno slittamento appena impercettibile quanto il passaggio dalla veglia al sonno, “niente di speciale”, che nulla cambia formalmente ma che proprio per questo è l’essenza di un vero ri-conoscimento: ovvero prendere atto della Realtà così com’è, spoglia dalla pretesa di deformarla secondo la propria egocentrica immagine e somiglianza.

Una Realtà che non è soppressione del sé in favore dell’altro, bensì una terza condizione estranea all’esperienza ordinaria ma che non nega l’ordinaria esperienza. Ancora una volta, “niente di speciale”.

 

Bibliografia

[1] Austin JH. Zen and the brain: mutually illuminating topics. Front Psychol. 2013 Oct 24;4:784. doi: 10.3389/fpsyg.2013.00784. Review

[2] Austin JH. Selfless Insight. Zen and the Meditative Transformations of Consciousness. Cambridge, MA: MIT Press, 2009

[3] Corbetta M, Shulman GL. Spatial neglect and attention networks. Annu. Rev. Neurosci. 2011. 34, 569–599. doi: 10.1146/annurev- neuro-061010-113731

[4] Kubit B, Jack A. Rethinking the role of the rTPJ in attention and social cognition in light of the opposing domains hypothesis: findings from an ALE-based 73metaanalysis and resting-state functional connectivity. Front. Hum. Neurosci, 2013, 7:323. doi: 10.3389/fnhum.2013.00323

[5] Austin JH. Zen-Brain Reflections. Reviewing Recent Developments in Meditation and States of Consciousness. Cambridge, MA: MIT Press, 2006

[6] Austin JH. Meditating Selflessly. Practical Neural Zen. Cambridge, MA: MIT Press, 2011

[7] Austin JH. Zen and the Brain. Toward an Understanding of Meditation and Consciousness. Cambridge, MA: MIT Press, 1998

[8] Minn B. A thalamic reticular networking model of consciousness. Theor. Biol. Med. Model, 2010, 7, 10. doi: 10.1186/1742-4682-7-10

[9] Austin J. H. Zen-Brain Horizons. Living Zen With Fresh Perspectives. Cambridge, MA: MIT Press, 2014

[10] Boyle R. What is Awakening? (Appendix 2 is a Personal Summary). New York, NY: Columbia University Press, 2013

[11] Shodo Harada Roshi. “The Path to Bodhidharma,” in The Path to Bodhidharma. The Teachings of Shodo Harada Roshi, eds J. Lago (Transl.) and P. D. Storandt (Boston, MA: Tuttle), 2000, 162

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La Katana: Oggetto, Opera d’Arte o Simbolo?

23 Giugno 2015 di Marco Invernizzi


Questo non vuole essere un articolo sulla storia della spada Giapponese, sulla metodica complicatissima relativa alla sua forgiatura, o sul Giappone e la sua via guerriera, cioè il Bushido. È un qualcosa di più personale; se vogliamo, è una riflessione sul mio modo di vedere questo oggetto e condividere quello che ha sempre suscitato e suscita tutt’ora in me.

Già chiamare la Katana oggetto mi provoca interiormente un certo stridore… perché sicuramente è sì un oggetto, ma forse è più corretto dire che è un’opera d’arte, vista la maestria e la perfezione raggiunte dai forgiatori in secoli e secoli di ricerca. Ma a pensarci bene anche questo termine risulta riduttivo, infatti forse è più corretto definirla un Simbolo.

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E aggiungerei che non è legato solo a un popolo e alla sua Tradizione, ma che esprime anche, come cercherò di spiegare oltre, concetti più profondi e universali. Quindi per tutti gli appassionati e cultori di questa stupenda opera d’arte (o simbolo?) non aspettatevi un trattato specialistico ma più che altro una chiacchierata, con qualche divagazione, sulle emozioni e i sentimenti personali legati alla Katana.

E, ad essere sinceri, parte di quello che leggerete qui di seguito (se lo vorrete) nasce proprio da una chiacchierata tra due amici che condividono la stessa passione; quelle chiacchierate a cena, apparentemente poco profonde, ma in cui al di là delle parole, “passa” molto più di quello che si possa immaginare.

(Foto di copertina: Andrea Ballaratti)

Introduzione

Fin da bambino ho sempre sentito la spada giapponese, la Katana, come un qualcosa  a me molto affine. Per carità, si sa che per i bambini, soprattutto in un certo periodo della crescita, le armi giocattolo, aerei e soldatini sono tra i regali più ambiti e con cui ci si diverte di più.

Tuttavia in questo caso, nonostante la passione per tutto ciò che è riconducibile alla guerra, o meglio, al combattimento, la Katana ha sempre rappresentato per me un qualcosa di più profondo. Tanto che da bambino, e successivamente da adolescente, questa sensazione poco chiara ma contemporaneamente fortissima, mi paralizzava con un brivido lungo la schiena, se per caso mi ritrovavo tra le mani un libro o in televisione veniva trasmesso un qualunque riferimento ai samurai e alla Katana.

Ricordo anche come in certi periodi alcuni film avessero letteralmente creato una ossessione verso questo oggetto sia in me che nei miei coetanei… in particolare ricordo Highlander e la Katana di Christopher Lambert e i due Kill Bill di Tarantino, dove la Katana, la sua forgiatura e il Bushido, il codice guerriero giapponese (o meglio, in quel caso una sua rivisitazione…) erano al centro di tutta la trama.

Con gli anni, complice anche la pratica per un certo tempo di Kendo e Iaido, la passione viscerale verso questo oggetto ha trovato anche uno sbocco esperienziale. Tuttavia solo recentemente, e non a caso in corrispondenza dell’interruzione per un certo periodo della pratica marziale, hanno iniziato a chiarirsi alcune delle motivazioni che hanno causato e causano ancora oggi in me l’attrazione e la passione viscerale verso la lama curva Giapponese.

La Forma

Katana Top

La sua forma, appunto. Tra tutte le lame appartenenti a tutte le culture e Tradizioni, è quasi unanimemente accettato che la Katana sia la più elegante ed esteticamente gradevole di tutte, capace di colpire profondamente anche  chi non nutre interesse verso le armi da taglio.

Ma al di là dell’indubbio valore estetico mi rendo conto solo ora che ciò che mi ha da sempre affascinato così profondamente è il senso di essenzialità che emana. L’essenzialità, che non va confusa con la semplicità e men che meno con la superficialità, è un concetto che permea tutta la cultura Giapponese e se vogliamo anche quella Cinese considerando anche la fortissima influenza esercitata da quest’ultima in Giappone.

L’essenzialità, secondo il mio punto di vista, è la vera e più profonda natura di un qualcosa, l’essenza appunto, liberata da tutto ciò che è superfluo, permettendo così di apprezzarla nella sua completezza. Dal manico, alla lama, ad ogni minimo particolare (e vi assicuro che sono tantissimi), quello che emana questo oggetto è appunto essenzialità. Se vogliamo in termini più interiori, simboleggia molto il percorso di Ricerca in cui via via liberandosi del superfluo si arriva sempre più all’essenza delle cose, avvicinandosi, forse, a quella che viene definita Verità.

Ora, su quanto il concetto di essenzialità si avvicini a quello di Verità, ci sarebbe molto da riflettere e forse questa non è la sede più adatta. Sicuramente essenziale è però tutto ciò che è contenuto nella Via Guerriera. E chi tra i popoli della terra ad oggi più dei Giapponesi può vantare di affondare le proprie radici in una Tradizione dove appunto la via del Guerriero (e non la guerra), intesa soprattutto come via di crescita Interiore, erano perno focale (o l’essenza) di tutta l’esistenza? Penso molto pochi.

La Forgiatura

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Anche la creazione di questo magnifico oggetto è un altro punto su cui ho riflettuto molto. Ricordo ancora, quando nel 2012, ebbi la fortuna di conoscere il Maestro Yoshindo Yoshihara (nelle foto), uno dei più famosi forgiatori di Katane viventi e Tesoro Nazionale Vivente del Giappone.  In parallelo ai Mondiali di Kendo del 2012 a Novara, quasi in sordina, si svolse anche un evento assai raro, ovvero la forgiatura in diretta di una Katana (forse per la prima volta fuori dal Giappone).

Io e pochi (purtroppo) curiosi, nonostante l’evento fosse pubblico e ad accesso libero, per 3 giorni riuscimmo ad assistere a questo spettacolo senza eguali, somma al contempo di precisione, tecnica ma anche di esperienza e maestria fuori dal comune.

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il paradigma pentadico Taoista

E proprio la forgiatura in sè della Katana contiene molti elementi che per una persona che si interessi di Tradizioni Orientali sicuramente non possono passare inosservati.

Innanzitutto gli elementi necessari alla forgiatura possono essere riassunti in 5 come i 5 elementi del paradigma pentadico della fisiologia medica Taoista Cinese: acqua, fuoco, terra, legno e metallo. Nell’immaginarmi infatti come potessero essere contenuti i 5 elementi nello stesso oggetto e come fossero i loro rapporti ho provato a visualizzarlo secondo questa dinamica: la terra al suo interno contiene il metallo grezzo sotto forma di minerale.

Una volta estratto quest’ultimo per essere depurato del superfluo (ritorniamo al concetto di essenzialità) e quindi essere trasmutato  da minerale in metallo puro deve essere riscaldato e fuso tramite il fuoco. Quest’ultimo per divampare ovviamente deve essere alimentato dal legno. L’uomo interviene in tutto il complesso procedimento di forgiatura, lavorazione e purificazione del metallo, in cui il fuoco è sempre fondamentale, fino a quando la lama è scaldata al punto giusto e viene temprata in un istante immergendola dalla fornace direttamente in una tinozza di acqua.

Se vogliamo tutto il procedimento può essere visto come un’allegoria del processo di alchimia interiore proprio della tradizione Taoista in cui i 5 elementi che costituiscono l’essere umano, entrano in relazione l’uno con l’altro grazie alla volontà dell’uomo che è l’ente trasmutatore e armonizzante di tutto il procedimento.

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In passato si diceva che i grandi forgiatori facessero relativamente poche spade durante la loro vita proprio perché in ognuna di esse mettevano una parte della propria energia, che, essendo limitata, andava dosata.

Ovviamente più il forgiatore era capace e dotato e più la lama conservava la qualità e la potenza della mano che l’aveva creata. Si potrà credere o meno a queste leggende e dicerie, tuttavia penso che una procedura così complicata, tramandata da maestro a discepolo da svariati secoli e in cui la variabile umana è ancora imprescindibile, con molta probabilità sottenda a un qualcosa di più profondo del solo battere e ribattere una sbarra di metallo incandescente fino a quando non ha raggiunto la forma desiderata.

La Curvatura (e la circolarità)

“La differenza tra la spada giapponese (curva) e quella occidentale (dritta) sta si nella forma ma anche nella diversa tecnica con cui deve essere eseguito il taglio”.  Quante volte ho sentito questa frase dal mio maestro di Kendo e Iaido e quanta difficoltà ahimè nel metterla in pratica…

Per quel poco che posso aver capito negli anni di pratica di questa Arte, il taglio con la Katana non segue una logica di forza, quindi “di braccia”, ma piuttosto è un taglio in cui viene utilizzato tutto il corpo. Il taglio è una conseguenza del movimento generato armonicamente da tutto il corpo, cioè piedi, gambe, tronco e braccia e la curvatura della lama facilita la trasmissione di questa forza alla parte che realmente esegue il taglio, il monouchi, cioè l’ultima spanna della lama verso la punta.

I movimenti nelle arti marziali spesso contengono il richiamo alla circolarità, all’armonia e ad un utilizzo di tutto il corpo per aumentare l’efficacia e la stabilità di un colpo. E probabilmente non a caso, la curvatura della Katana favorisce il suo integrarsi in maniera armonica nei movimenti corporei, come un’estensione naturale del proprio braccio.

L’Equilibrio

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Con l’essenzialità, la circolarità e la conseguente centratura e armonia nel movimento si arriva appunto ad un Equilibrio. Termine semplice ma al contempo estremamente complesso da esprimere in tutta la sua completezza. Forse l’Equilibrio è ciò che più manca al giorno d’oggi e molte persone ne vanno affannosamente in cerca senza mai riuscire a trovarlo.

In realtà l’Equilibrio, nonostante descriva una qualità apparentemente statica (l’idea comune di equilibrio è fortemente associata all’idea di immobilità), contiene al suo interno anche un importante concetto di dinamicità…infatti, secondo il mio modo di vedere, l’Equilibrio è un adattamento continuo e dinamico alla incessante mutevolezza della realtà.

A tal proposito per poter mantenere il più possibile la centratura e una visione oggettiva in ogni situazione, è necessario  “aggiustare” e “armonizzare” continuamente il nostro corpo, le nostre emozioni e i nostri pensieri per evitare di creare disarmonia e sostanzialmente venirne sopraffatti.

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L’Equilibrio quindi non è una staticità a prescindere ma è un dinamismo estremo in cui si realizza una apparente staticità come risultato dell’ incessante e rapidissimo movimento di adattamento e armonizzazione. Il movimento continuo dei due opposti complementari del tai ji tu (Yin e Yang), in cui nella più profonda natura dell’uno è contenuto l’altro, ci aiuta a comprendere meglio questo concetto.L’unione data dalla contemporanea presenza dei due poli opposti, probabilmente non è data dal “fermarsi” di questi ultimi, ma bensì dal loro muoversi in maniera talmente rapida da realizzare appunto un Equilibrio “dinamico” in cui si trovano espressi contemporaneamente in una condizione di apparente staticità. Quanto questo c’entri col concetto di non-Dualità espresso e ricercato come fine ultimo da molte tradizioni di ricerca interiore orientali non lo so…e lo lascio come spunto di riflessione per il lettore.

Tuttavia, osservando una Katana e apprezzandone tutti gli aspetti sopra descritti, trovo sia abbastanza intuitivo cogliere questa espressione contemporanea degli opposti e, oltre a tutte le valenze simboliche già descritte, a mio parere la Katana può fregiarsi anche di essere un simbolo di Equilibrio. E quanto l’Equilibrio sia importante per le principali Tradizioni Orientali come quella Taoista è già stato ampiamente descritto.

Il Taglio

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Tameshigiri in Giapponese significa letteralmente “taglio di prova” e serve appunto a testare il potenziale di una lama

Tagliare, tagliare, tagliare. Il primo impulso che si prova, o almeno per me è sempre stato così, appena presa in mano una Katana è quello di tagliare. E in effetti sembrerebbe abbastanza logico perché una spada viene forgiata e creata per tagliare e questo è l’utilizzo più immediato a cui la mente ordinaria la associa.

Tuttavia riflettendo in maniera più approfondita sul significato del taglio anche qui emergono a mio parere molti elementi interessanti. Il taglio è la parte apparentemente più importante, o almeno, così mi è stato sempre insegnato, della pratica marziale con la spada e lo sviluppo di una buona tecnica richiede anni e anni di pratica intensa.

Tuttavia, come emerso in precedenza, il taglio con la Katana è il risultato finale di un movimento armonico che partendo dai piedi coinvolge tutto il corpo e termina “rilasciando” ciò che si è accumulato in termini di energia potenziale durante tutto il movimento attraverso la lama della spada.

Ricercare la qualità e la purezza del taglio è forse quello su cui mi sono sempre focalizzato e su cui inevitabilmente anche la mente tende a fissarsi. Il sibilo della lama che fende l’aria, oltre purtroppo a gonfiare enormemente l’ego, è un qualcosa che stimola sempre di più a ricercare la perfezione e l’unione di tutti i particolari in maniera armonica al fine di raggiungere appunto il cosiddetto “taglio perfetto”.

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Particolare di tangka raffigurante Manjushri nero

In realtà col tempo ho imparato che il taglio (e quindi anche il significato più profondo della spada) simboleggia un qualcosa di più profondo. E fissarsi solo sulla tecnica rischia di distogliere l’attenzione dagli aspetti più importanti, come peraltro anche in altre discipline come la Meditazione. La lama col suo filo tagliente serve appunto a “tagliare” e quindi a rimuovere e in definitiva a eliminare ciò che di nocivo e superfluo ci intossica.

A tal proposito in diverse Tradizioni alla spada viene appunto attribuito il potere simbolico di squarciare il velo di buio dell’ignoranza. Nel Buddismo Tibetano alcune divinità tantriche protettrici del Dharma (vedi articolo Tao) e dissipatrici dei difetti della mente (attaccamento, illusione, ignoranza) sono rappresentate appunto con delle spade fiammeggianti in mano.

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San Michele Arcangelo sconfigge gli angeli ribelli Luca Giordano (1666 ca)

In maniera simile anche nella Tradizione Cristiana l’Arcangelo Michele è rappresentato con una spada infuocata, come primo e più acerrimo combattente delle forze malefiche.

Spesso si sente dire “tagliare i rami secchi”, per rimuovere il superfluo, alleggerirsi e ripartire con rinnovato vigore e determinazione verso un nuovo obbiettivo. La spada, a mio parere, simboleggia proprio questo, e ci aiuta a rimuovere simbolicamente il superfluo, liberando la mente dai blocchi e dai difetti che la appesantiscono e le impediscono di percepire la vera essenza delle cose.

Concludendo questa chiacchierata spero di non essere stato troppo noioso e spero che tra le righe, al di là delle emozioni, sia stato colto anche il profondo rispetto verso questa spada e tutto quello che simboleggia. Una sorta di devozione che sono sicuro molte altre persone e non necessariamente praticanti di arti marziali condividono con me e a cui piace ogni tanto contemplarla abbandonandosi al fluire della mente.

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