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Zénon | Yoga e Qi Gong

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guarigione

Taijiquan, Daoyin, Qi Gong: le pratiche di lunga vita

28 Gennaio 2015 Marco Invernizzi


Proseguiamo qui il percorso iniziato con le Tre Tradizioni cinesi (Taoismo, Buddismo e Confucianesimo) e approfondiamo l’argomento delle Pratiche di Lunga vita, ossia il Daoyin, il Qi Gong e il Taiji Quan (altrimenti noto come Tai Chi Chuan). Questo articolo, come il precedente, è un estratto rielaborato dalla mia tesi “Qi Gong Medico: gioiello della medicina”, presentata al corso di Regolazione Biologica e Medicine Complementari, Biofisica Medica Clinica dell’Università degli Studi di Milano in collaborazione con la World Health Organization.

Cosa sono le pratiche di lunga vita?

Col termine Pratiche di Lunga Vita si intende un insieme di insegnamenti contenuti nella multiforme realtà cinese che mirano al prolungamento della vita fisica contemporaneamente ad un miglioramento della sua qualità generale, con l’obbiettivo finale di raggiungere l’immortalità (che sia qui intesa come immortalità fisica o immortalità su un altro piano è un discorso che meriterebbe di essere approfondito a parte).

Poiché queste pratiche hanno profonde radici nella Tradizione Taoista, è evidente come i livelli di questa definizione siano molto diversi dal senso comune e, come abbiamo visto nell’articolo dedicato alle Tre Tradizioni cinesi, non necessariamente l’immortalità è ricercata strettamente in ambito materiale.

Qi, secondo l'ideogramma tradizionale (in uso in Cina fino al 1946)
Qi, secondo l’ideogramma tradizionale (in uso in Cina fino al 1946)

Centrale, in queste pratiche, è il concetto di Qi, principio energetico/vitale che, nonostante le diverse interpretazioni, è molto affine al concetto indiano di prana. Come quest’ultimo, anche il Qi è presente illimitatamente nell’universo, ed è possibile considerare il Qi da un punto di vista macrocosmico e universale oppure da un punto di vista microcosmico e particolare, ovvero il carico di energia di un luogo, o di un essere vivente, o addirittura di un singolo organo. Proprio dall’interazione (o meglio, come vedremo, la risonanza) tra il Qi universale e il Qi particolare si sprigiona il potenziale benefico e terapeutico di tali pratiche.

È infatti interessante notare che uno degli scopi principali delle pratiche di lunga vita è di mantenere il corpo in buona salute agendo preventivamente sull’insorgere di possibili malattie; di qui anche l’attinenza con la medicina. D’altro canto, non deve sorprendere se al tempo stesso queste pratiche hanno attinenza con la sfera interiore e spirituale dell’essere umano: il presupposto da cui muovono queste pratiche, condiviso anche dallo Yoga indo-tibetano, è che un corpo malato è un grandissimo intralcio nella via spirituale.

Le pratiche principali sono: Dao yin/Qi gong e Tai Chi Chuan, oltre ad altre che probabilmente si sono perse nei millenni. Per comprendere queste discipline, strettamente inter-relate, dobbiamo però risalire molto indietro nel tempo, all’origine stessa della civiltà cinese.

Le origini Sciamaniche

Statue di argilla che raffigurano risalenti alla dinastia Zhou (XII-III secolo a.C.) che raffigurano donne sciamane danzanti.
Statue di argilla risalenti alla dinastia Zhou (XII-III secolo a.C.) che raffigurano donne sciamane danzanti.

Le prime testimonianze frammentarie cinesi di approcci terapeutici sono riconducibili alle mitiche figure sciamaniche Wu, che operavano attraverso tecniche esorcistiche impostate sul movimento fisico e sul suono.

Il carattere Wu indica «danza» e secondo il Shuo wen, il dizionario etimologico di epoca Han, il termine era anche accomunato a Zhu, termine riconducibile ad augurio o invocazione. Quindi Wu o Zhu comunicava con il cielo e le sue invocazioni terapeutiche erano essenzialmente preghiere rivolte agli spiriti o formule esorcistiche.

Una caratteristica importante è che originariamente Wu erano donne, tanto che gli sciamani uomini venivano designati con il carattere Xi. La rilevanza di tale elemento concerne la relazione tra la società ideale taoista e l’antico egualitarismo tribale legato al matriarcato.

Più che a spiriti antropomorfi le prime Wu si rivolgevano alle manifestazioni di una serie di «forze» o di «influssi» a forte caratterizzazione archetipica, la cui azione era desunta dall’osservazione dei fenomeni naturali. Era una tecnica rituale per coordinare i movimenti del proprio corpo (e il respiro) con i flussi delle forze cosmiche, così da acquisire la potenza necessaria, ad esempio, a esorcizzare le «forze deviate» che affliggevano il «paziente».

wu
L’antico ideogramma per Wu

A riprova della forte impronta che gli Wu hanno lasciato sull’origine della medicina tradizionale cinese vi è il fatto che il carattere Yi («medico o scienza medica») era originariamente composto dal carattere Wu più la parte superiore del carattere Yi attuale, composta da segni raffiguranti una faretra colma di frecce e una mano che impugna un’arma.

Ciò denoterebbe la marcata origine demonologica della medicina: le frecce indicherebbero le armi che lo sciamano usava nelle sue danze rituali per esorcizzare i demoni.

L’eziologia «demonica» rimase nella MTC sotto la denominazione di Xie Qi, Soffi Perversi, i Patogeni della definizione moderna, ma sin dall’antichità fu affiancata da altre possibili cause, prima fra tutte il mancato rispetto dei ritmi naturali.1Giulia Boschi. Medicina Cinese: la radice e i fiori. Corso di sinologia per medici e appassionati.
Casa Editrice Ambrosiana 2003. ISBN 88-408-1263-6

Conformarsi al Dao, la legge Universale che governa tutti i fenomeni e le loro trasformazioni, significa uniformare le orbite del proprio Qi psicofisiologico (microcosmo) al retto fluire del Qi in natura (macrocosmo); in altri termini, ciò vuol dire acquisire Zheng Qi, il cosiddetto soffio retto o autentico. Il Zheng Qi è alla base della salute dell’individuo, della sua capacità di rispondere all’attacco patogeno ed adattarsi alle modificazioni macrocosmiche, in un’ottica di armonizzazione con il Dao.

Una sacerdotessa Wu invoca lo spirito di un animale.
Una sacerdotessa Wu invoca lo spirito di un animale.

Lo sciamano cinese, come gli adepti taoisti, non trae il suo potere dalla «possessione» di uno spirito che gli induce uno stato estatico simile alla medianità, ma da un particolare stato di ricettività che gli consente di veicolare attivamente le forze archetipiche armonizzandosi ad esse.

La pratica esperienziale interiore conduce lo sciamano ad uno stato di quiete del cuore e della mente che lo porta ad una risonanza perfetta col mondo naturale. È questo accordo armonico che lo rende permeabile fino a diventare un vero e proprio portale del mondo archetipico e permette agli Shen, gli Archetipi, di agire direttamente attraverso di lui in piena consapevolezza nell’atto terapeutico.

Le sciamane Wu furono i primi medici della storia cinese: lo Shan hai jingìe li associa all’uso di erbe medicinali e alle Pratiche di Lunga Vita, anche se i loro compiti principali rimanevano il controllo degli elementi naturali, l’esorcismo, la comunicazione con gli spiriti. Solo nel taoismo si conservarono le tradizioni legate alla magia delle Wu perché in forma semiclandestina molte donne fecero parte delle più importanti scuole taoiste: molte tecniche, d’altra parte, richiedevano la partecipazione di una coppia di adepti di sesso opposto.

Il concetto di Risonanza

Danzatrice mascherata, tardo periodo Zhou
Danzatrice mascherata, tardo periodo Zhou

È molto probabile che le invocazioni sciamaniche raggiungessero il loro scopo terapeutico per la qualità energetica del suono trasmesso più che per la suggestione provocata dal loro significato. Come spiegano fonti più tarde, esso era in grado di riportare l’organismo all’equilibrio producendo un effetto biofisico di Risonanza, fenomeno conosciuto in Cina in tempi antichissimi come la teoria delle armoniche, mentre in Occidente, escluse le scuole pitagoriche, essa cominciò a svilupparsi soltanto a partire dal XVIII secolo.

A questo proposito può essere interessante notare come l’ideogramma di «farmaco» sia composto dall’ideogramma di «musica» sovrastato dal radicale «erba», quasi a indicare che quanto fa di un’erba un farmaco è la sua «musica». Sebbene l’associazione specifica di un suono particolare con un determinato organo interno appaia per la prima volta in forma esplicita con Tao Hongjing, vissuto nel VI secolo d.C., bisogna considerare che questi suoni erano segreti e, molto probabilmente, trasmessi oralmente già da secoli. È significativo il fatto che ancora oggi i «sei suoni-mantra» liu zi jué, specifici per ogni organo, siano uno degli esercizi più diffusi e praticati del Qi gong terapeutico. 2Giulia Boschi. Medicina Cinese: la radice e i fiori. Corso di sinologia per medici e appassionati.
Casa Editrice Ambrosiana 2003. ISBN 88-408-1263-6

In profondo accordo con la biofisica moderna, la Risonanza, Gan Ying, è l’asse portante del rapporto tra macrocosmo e microcosmo, il fondamento delle loro interazioni quantiche e implica la bipolarità di azione-emanazione Yang e ricezione-percezione Yin che si differenzia da un semplice rapporto causa-effetto o agente-agito, poiché include la nozione di reciprocità. La reciprocità comporta la possibilità di invertire i poli di attività e recettività tra l’uomo e il cosmo.

Analogamente, il termine De, in una delle sue accezioni più antiche, indicava contemporaneamente sia il Potere che l’uomo esercita sul Cielo attraverso l’invocazione, sia la Virtù dell’officiante che consente la risposta del Cielo in un processo di risonanza con il mondo archetipico. La potenza acquisita dal praticante deriva probabilmente da un processo di amplificazione che comporta una serie di inversioni successive. Il rapporto tra la perfetta recettività e l’invocazione può essere paragonato al rapporto che nel Cristianesimo esiste tra la perfetta sottomissione alla volontà divina e la preghiera d’intercessione. 3Giulia Boschi. Medicina Cinese: la radice e i fiori. Corso di sinologia per medici e appassionati.
Casa Editrice Ambrosiana 2003. ISBN 88-408-1263-6

de
L’antico carattere oracolare per De

Nel Taoismo il termine De sta a indicare il veicolo sottile attraverso il quale si effettua la connessione tra due entità che entrano in risonanza, il flusso biofotonico della biofisica moderna. La forza che si attiva in tale situazione di empatia energetica viene percepita nell’atto terapeutico come De qi, un insieme di sensazioni quasi-fisiche comuni sia al medico che al paziente, la cui sapiente lettura guida l’intero atto medico.

Nella concezione taoista la pratica esperienziale della risonanza con le forze che esprimono l’ordine cosmico è il fattore che trasmuta la Scienza in Magia, conferendo all’essere umano il potere sugli aspetti quantici della natura. Ciò è possibile grazie a un atteggiamento di completa recettività che il Taoismo esprime nel concetto di Wu Wei, comunemente tradotto come non agire.

In realtà il concetto di Wu, il non essere, indica la condizione atemporale e non locale del Dao, motore segreto quantico del suo aspetto manifesto spazio-temporale, in cui Wu Wei è compiere l’azione in accordo con la dimensione archetipica Wu.

La costante del Dao è il non-agire, così non c’è nulla che non venga compiuto

Laozi

Il Dao yin

Secondo alcuni autori nelle danze sciamaniche, articolate in posture esorcistiche e invocazioni, sarebbero contenuti i primordi del Dao yin, attuale Qi gong o arte del coltivare il Qi, cioè di quella tecnica, articolata su più livelli, il cui scopo principale è di armonizzare il Qi del proprio organismo con quello dell’ambiente naturale, intensificandone in tal modo la potenza, per poterlo successivamente dirigere e proiettare sotto il controllo della volontà cosciente. Ciò renderebbe possibile agire anche sul mondo materiale attraverso una forza immateriale guidata dalla mente.

Le diverse posture esorcistiche illustrate e commentate nel Dao yin tu di Mawangdui risultano molto simili a quelle in seguito incluse nei sistemi Dao yin / Qi gong delle scuole taoiste. Analogamente, le invocazioni non vanno intese come semplici formule verbali, ma come il veicolo adatto a trasmettere questa forza al corpo del malato, all’ambiente circostante o a se stessi.4Giulia Boschi. Medicina Cinese: la radice e i fiori. Corso di sinologia per medici e appassionati.
Casa Editrice Ambrosiana 2003. ISBN 88-408-1263-6

Il Tai Chi Chuan

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Il Tai Chi Chuan o Tai ji Quan, usando la traduzione degli ideogrammi cinesi con lo standard pinyin, è una pratica che nasce in Cina dall’incontro tra arti marziali e pratiche tradizionali per la salute e la longevità. Il Tai Chi Chuan è molto diffuso tutt’oggi a livello popolare in Cina e in grande espansione in tutto l’Occidente negli ultimi decenni.

La componente marziale del Tai Chi Chuan è di natura interna: le sue più evidenti diversità rispetto ad altre arti marziali sono infatti costituite dal ruolo centrale assegnato ad azioni difensive basate sulla cedevolezza, e dall’impiego nei confronti dell’avversario dell’elasticità del corpo invece che della forza fisica. 5Carlo Moiraghi. Qi Gong. Fabbri editori 2002. ISBN 88-451-8009-3

Moiraghi. la via della Forza Interiore, trattato di energetica esperienziale cinese. Casa Editrice
Meb 1995. ISBN 88-7669-490-0

In realtà, nell’esecuzione del Tai Chi, la forza fisica dev’essere pressoché annullata in favore di un completo rilassamento proprio per far emergere la componente più propriamente energetica e potenzialmente ancora più travolgente della forza fisica stessa, in un movimento fluido e circolare, senza interruzioni, una costante alternanza di Yin e Yang, vuoto e pieno.

E proprio l’alternanza di Yin e Yang è il principio esperienziale del Tai Chi Chuan, rappresentato dal Taiji, ovvero il “grande polo” del movimento degli opposti, che procede dal Wuji, il “non-polo” indifferenziato rappresentato generalmente da un cerchio vuoto. Insieme, formano il Taijitu, che rappresenta l’alternanza di Yin e Yang e al tempo stesso la compresenza del principio anteriore (Wuji) indifferenziato:

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Il Qi gong

Qi gong è un termine generico recente che designa un insieme di pratiche di benessere, salute, risveglio e realizzazione personali. Qi gong può dunque essere tradotto semplicemente con lavoro (Gong) del soffio (Qi), indicando con questo l’aspetto attivo di una pratica che riguarda l’energia vitale che anima le cose e gli esseri.

L’antica denominazione classica di Qi gong era Yang sheng fa, letteralmente i metodi (Fa) che nutrono (Yang) la vita (Sheng) i quali, secondo la Tradizione, permetterebbero di opporsi o di ritardare il processo della morte, per cui sostenere la vita vuol dire ritardare la morte vivendo bene e a lungo.

qigong
Chen bao shi, ovvero la visualizzazione di due grandi sfere di energia ai lati. Illustrazione tratta da C. Moiraghi, Qi Gong, Fabbri, 2002.

In definitiva il Qi gong rappresenta un variegato scenario in cui si stratificano scuole e stili, in un lignaggio ininterrotto di maestri e ricercatori che ne hanno mantenuto la vitalità modificandolo incessantemente. Una classificazione dei Qi gong più importanti, tenendo conto del fatto che spesso appaiono mescolati tra loro, potrebbe essere la seguente:

  • Qi gong di origine taoista, o che intrattengono qualche tipo di rapporto con la filosofia del Tao;
  • Qi gong di origine buddista che, in Cina, sono legate al Chan;
  • Qi gong di origine confuciana che spesso si ritrovano nei rituali come il saluto;
  • Qi gong di origine marziale che hanno lo scopo di rinforzare il corpo e di proteggerlo;
  • Qi gong di origine medica ancora prescritti nelle pratiche terapeutiche;
  • Qi gong di origine familiare che si trasmettono all’interno dei clan o delle famiglie;
  • Qi gong di origine sintetica concepito recentemente per fini pedagogici;
  • Qi gong di origine esterna alla Cina e che sono spesso nuove creazioni, come la ginnastica svedese del Ling.

Tutte queste varietà di Qi gong hanno in comune una pratica di meditazione con la finalità di raggiungere “un’altra cosa ancora” (Hua) ma classicamente non viene mai precisato che cos’è questa “altra cosa”, assimilata a una trasmutazione.

Laozi spiega: “il grossolano è la radice del sottile” significando che ciò che è grossolano può trasmutarsi in qualcosa di molto sottile. Ne deriva che il Qi gong può essere, di volta in volta, molto terrestre o molto celeste, ovviamente sempre nel senso prima citato della trasmutazione alchemica.

Ritengo utile citare in toto una parte dell’introduzione del libro di Charles sul Qi gong che definisce in maniera chiara e molto intuitiva le radici su cui poggia il Qi gong e il suo impianto filosofico:

Un gesto può essere molto sottile e un pensiero può essere molto grossolano. Talvolta il fatto di rendere sottile il gesto permette di affinare lo spirito mentre il contrario non è necessariamente vero. Come nello Yijing sarebbe meglio cominciare dalla cosa più semplice, il monogramma composto da un solo tratto, per arrivare alla cosa più complessa, l’esagramma, composto da sei tratti.
Se non si comprende bene o si travisa ciò che realmente corrisponde allo Yin e allo Yang, sarà difficile definire il valore di un esagramma. Come comprendere un concatenamento complesso senza conoscere le basi del movimento e della respirazione? Come comprendere i principi se non si conoscono le regole? Molti testi classici o grandi autori classici come Liji (o Libro dei riti), Zhuangzi, Liezi, Neijing Suwen (Trattato di Medicina Interna dell’Imperatore Giallo) spiegano letteralmente che “lo Yang sale, lo Yin scende”. Ciò viene inteso in Occidente come : “Lo Yang è in alto, lo Yin è in basso”. Ma tra salire ed essere in alto o scendere ed essere in basso esiste una differenza considerevole. Se lo Yang sale è perché originariamente (radice) era in basso. Se lo Yin scende è perché originariamente (radice) era in alto.
I “classici” distinguono dunque tre stati: l’origine (radice), il movimento (evoluzione), la conseguenza (preparazione al cambiamento). Ma quando si tratta di movimento (Dong) o di trasformazione (Yi) gli occidentali, come i turisti, di solito fanno una foto. Il classico dice: “Lo Yang sale”; loro fanno una foto e constatano, dopo e basandosi sulla foto,- che lo Yang è in alto.
Dunque, per la logica occidentale, lo Yin deve essere in basso. Così si è detto tutto e non si è fatto nulla. O lo si è fatto in controsenso.
Ma, nel tempo, anche i cinesi si sono occidentalizzati e propongono a loro volta pratiche per turisti in cui lo Yang è in alto e lo Yin è in basso. Normale. E tutto va bene solo nel migliore dei mondi. Io qui vi propongo, al contrario, una versione meno turistica e più classica di una pratica di “sostenimento della vita” legata alla filosofia del Tao e del Lingbaoming, ma nello stesso tempo influenzata dai principi sviluppati da Wang Yang Ming, precursore di Wang Tse Ming, della corrente della “Purezza del cuore” (Xin Xue)”

Georges Charles6Georges Charles. Qi Gong ed energia vitale. Pratiche Taoiste di lunga vita. Edizioni Pendragon 2008. ISBN 978-88-8342-573-8

Per concludere (per ora)

Il quadro storico delineato con le Tre Tradizioni e le pratiche di lunga vita ha un obiettivo, che sarà raggiunto con il prossimo articolo, a completamento di un trittico: ovvero il rapporto tra queste discipline e la scienza moderna e soprattutto tra le pratiche di lunga vita e un approccio terapeutico. Se abbiamo già visto che il Tai Chi Chuan è applicato con successo in ambito preventivo, meno conosciuto è l’aspetto medico del Qi Gong, di cui parleremo nell’articolo finale.

Non dimenticando mai, naturalmente, che lo scopo ultimo di queste pratiche è, come abbiamo visto, Hua, ovvero “un’altra cosa ancora”.

Note[+]

Note
↑1, ↑2, ↑3, ↑4 Giulia Boschi. Medicina Cinese: la radice e i fiori. Corso di sinologia per medici e appassionati.
Casa Editrice Ambrosiana 2003. ISBN 88-408-1263-6
↑5 Carlo Moiraghi. Qi Gong. Fabbri editori 2002. ISBN 88-451-8009-3

Moiraghi. la via della Forza Interiore, trattato di energetica esperienziale cinese. Casa Editrice
Meb 1995. ISBN 88-7669-490-0

↑6 Georges Charles. Qi Gong ed energia vitale. Pratiche Taoiste di lunga vita. Edizioni Pendragon 2008. ISBN 978-88-8342-573-8
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Un’idea di (auto)guarigione

27 Agosto 2014 Francesco Vignotto


“Ha mai provato a lavorare con un bambino tra i piedi?” continuò lei.
Will pensò al suo piccolo vicino di casa che si era offerto di aiutarlo a verniciare i mobili della sala da pranzo, e rise ricordando la propria esasperazione.
“Povero tesoro!” esclamò Susila. “È così bene intenzionato, così ansioso di aiutare.”
“Ma la vernice finisce sul tappeto, e ci sono impronte digitali su tutte le pareti…”
“Per cui, alla fine, deve sbarazzarsi di lui. ‘Fila via, bimbo. Va’ a giocare in giardino!'”
Ci fu un silenzio.
“Ebbene?” egli domandò alla fine.
“Non capisce?” Will scosse il capo.
“Che cosa succede quando è malato, quando è ferito? Chi ripara i danni? Chi guarisce le infezioni? È lei?”
“E chi allora?”
“Lei allora?” ella insistette. “Lei? La persona che sente il dolore e si preoccupa, e pensa al peccato e al denaro e all’avvenire! È capace, questo suo io, di fare quello che va fatto?”
“Oh, adesso capisco a che cosa mira.”
“Finalmente!” lo burlò Susila.
“Mi manda a giocare in giardino in modo che gli adulti possano fare in pace il loro lavoro. Ma chi sono gli adulti?”
“Questo non lo domandi a me” rispose “È una domanda da porre a un neuroteologo.”
“Che significa?” domandò Will.
“Significa esattamente quello che dice la parola. Qualcuno che pensa agli individui in termini, simultaneamente, della Chiara Luce del Vuoto e del sistema nervoso vegetativo. Gli adulti sono un misto di intelletto e di fisiologia.”
“E i bambini?”
“I bambini sono gli ometti che pensano di saperla più lunga degli adulti. “E quindi bisogna dir loro di correre fuori a giocare.”

Huxley-isola

Ci sarebbe poco da aggiungere a questo brano tratto da L’isola di Aldous Huxley1Aldous Huxley, L’isola, Mondadori. Un romanzo che racconta l’utopia di una società ideale (la comunità dell’isola immaginaria di Pala), ma anche il percorso di guarigione del protagonista Will Farnaby, che ha come causa scatenante il trauma e le ferite causate dal naufragio di cui è stato vittima, ma che andrà a investire le cause profonde di un malessere preesistente.

Accanto all’intervento medico, Will riceve un altro tipo di supporto da parte di Susila, la nuora del dottor MacPhail, che lo guiderà, appunto, a “mandare fuori i bambini a giocare”.

Ritengo che il brano riportato valga molto di più di moltissime (e spesso troppo superficiali) parole spese sulla guarigione e soprattutto sull’autoguarigione, due lati della stessa medaglia la cui complementarità andrebbe compresa non solo con l’intelletto, ma appunto mettendo in moto la fisiologia. O meglio, lasciando che quest’ultima faccia il suo corso assieme alla parte più profonda del primo.

Questo brano fornisce inoltre una risposta anche alla domanda: come possono discipline come lo Yoga o il Tai Chi Chuan, oppure le tecniche di meditazione, al di là degli aspetti puramente biomeccanici o in apparenza palliativi, favorire un processo di guarigione o prevenire disturbi (vedi le già citate ‘Tecniche di lunga vita’ nella tradizione cinese)?

Siegfried Zademack: Interpretation of the 4th dimension
Siegfried Zademack:
Interpretation of the 4th dimension

Molto spesso ci sono troppi fraintendimenti su questo aspetto, perché, come ho osservato riguardo allo Yoga, queste pratiche non sono medicine. Quando vengono presentate come tali, l’equivoco nasce perché abbiamo un’idea di cosa sia una medicamento, sappiamo cosa voglia dire andare da un dottore e sottoporsi al suo intervento: significa far sì che una persona e/o una sostanza esterne intervengano sul nostro disturbo.

Ci manca tuttavia totalmente l’idea di cosa significhi far uscire i bambini a giocare. I bambini, o meglio “gli ometti che pensano di saperla più lunga degli adulti”. Una pratica che andrebbe coltivata ben prima di dover ricorrere a cure mediche e non solo per prevenirle, ma per migliorare la propria vita (e, se si vuole, anche qualcosa di più).

Non si tratta semplicemente di prendersi qualche distrazione, rilassarsi o fare un po’ di moto per svuotare la mente, sebbene tutto ciò sia sicuramente utile. Si tratta invece di educare quest’ultima – la mente, o meglio la parte più superficiale di essa – a cessare di interferire con i normali processi su cui non ha alcun controllo (il sistema nervoso vegetativo), ma sui quali ha di certo il potere di agitare notevolmente le acque e di intralciare il lavoro degli “adulti” (un esempio che potrà sembrare terra-terra ma che rende molto bene l’idea: assillarsi perché non si va di corpo è il metodo più sicuro per ritardare il momento in cui ciò avverrà naturalmente, a meno che non sussistano cause di forza maggiore).

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Tutto questo ha anche ben poco a che vedere con il pensare positivo che ci ha lasciato in eredità la new age e qualche sostanza psicotropa assunta come fosse una caramella (con buona pace di Huxley stesso). Potrà infatti sembrare controintuitivo, ma anche la volontà di guarire (da una malattia, da un ossessione, da un lutto), così come di avere successo in qualsiasi attività umana, può essere un enorme intralcio.

Non perché si voglia negare l’efficacia della volontà, ma solo di un certo tipo di volontà e di desiderio, quelle appunto di chi pensa di saperla più lunga degli adulti e di intervenire secondo logica ma senza considerare l’interezza delle forze – evidenti e non evidenti – in campo. Perché troppo spesso si dimentica questo: ogni azione provoca, per legge fisica, una reazione.

Bisogna infatti contemplare la possibilità della sconfitta. Far rientrare nel campo di osservazione questa eventualità senza contrapporvisi, ma accettare che la risoluzione di un conflitto possa non essere quella desiderata, e accettarla. Qualsiasi altro modo di agire – o di non agire – significa per il soggetto diventare parte stessa del problema.

“Considerando uguali piacere e dolore, profitto e perdita, vittoria e disfatta, raccogli le tue energie per il combattimento; così non patirai alcun male”: sono parole della Bhagavadgita, e non trovo alcuna contraddizione nel fatto che si riferiscano a una battaglia.2Bhagavadgita, II, 38, a cura di Anne-Marie Esnoul, Adelphi. La Bhagavadgita è parte del poema epico indiano Mahabharata, ed è un testo fondamentale per la filosofia indiana e per lo Yoga. È un dialogo tra Krishna e Arjuna, che si trova di fronte al campo di battaglia dove sono schierati contro di lui i suoi stessi parenti. Non volendo più combattere, Krishna lo esorta a riprendere le armi, spiegandogli – tra le molte altre cose – che non è l’azione (karma) in sé a provocare sofferenza, ma l’attaccamento ai frutti dell’azione. Una sintesi della Bhagavadgita è presente nel Mahabharata di Peter Brook del 1989 (con Vittorio Mezzogiorno nella parte di Arjuna), sicuramente non esaustiva ma molto suggestiva (il video è in inglese): Più avanti, il testo prosegue:

Colui che sa vedere nell’agire il non-agire e nel non-agire l’azione, questi fra tutti gli uomini possiede la vigilanza della mente, quegli è unificato nello yoga, quegli assolve tutti i suoi compiti.3Bhagavadgita, IV, 18, a cura di Anne-Marie Esnoul, Adelphi

In fondo, anche il Taoismo aveva un termine per questo, che riassume un concetto cardine di questa tradizione: wei wu wei, letteralmente “agire senza agire”. Naturalmente, si tratta di un paradosso, e naturalmente questa conoscenza sembra l’esatto opposto della conoscenza, questa azione sembra l’esatto opposto dell’agire secondo il pensiero ordinario.

Ma se il paradosso non fosse tale, gli ometti che sanno pensare solo in direzione lineare la saprebbero davvero più lunga degli adulti. Ed è per questo che ogni tanto è necessario farli uscire a giocare.

PS: ringrazio i dottori Marco e Giorgio Invernizzi per aver letto questo articolo prima che venisse pubblicato.

Foto di Sahil Lodha. Alcuni ragazzi giocano tra i pomodori schiacciati durante la celebrazione dell'Holi Festival nell'Uttar Pradesh, in India.
Foto di Sahil Lodha. Alcuni ragazzi giocano tra i pomodori schiacciati durante la celebrazione dell’Holi Festival nell’Uttar Pradesh, in India.

Note[+]

Note
↑1 Aldous Huxley, L’isola, Mondadori
↑2 Bhagavadgita, II, 38, a cura di Anne-Marie Esnoul, Adelphi. La Bhagavadgita è parte del poema epico indiano Mahabharata, ed è un testo fondamentale per la filosofia indiana e per lo Yoga. È un dialogo tra Krishna e Arjuna, che si trova di fronte al campo di battaglia dove sono schierati contro di lui i suoi stessi parenti. Non volendo più combattere, Krishna lo esorta a riprendere le armi, spiegandogli – tra le molte altre cose – che non è l’azione (karma) in sé a provocare sofferenza, ma l’attaccamento ai frutti dell’azione. Una sintesi della Bhagavadgita è presente nel Mahabharata di Peter Brook del 1989 (con Vittorio Mezzogiorno nella parte di Arjuna), sicuramente non esaustiva ma molto suggestiva (il video è in inglese):
↑3 Bhagavadgita, IV, 18, a cura di Anne-Marie Esnoul, Adelphi
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No, lo Yoga non è ‘sicuro’: effetti collaterali

5 Agosto 2014 Francesco Vignotto


Stimolato dall’articolo di Marco Invernizzi qui su Zénon sulla sicurezza medica dello Yoga, ho deciso di intervenire per aggiungere alcune mie considerazioni. Che non avranno un taglio medico e nemmeno troppo filosofico, ma vogliono esprimere il punto di vista della mia esperienza di praticante prima ancora che di modesto insegnante.

Nello spirito con cui è nato Zénon, spero che questo mio contributo da due centesimi possa avvicinare di qualche millimetro la “scienza dell’Occidente” alla “comprensione dell’Oriente”, entrambi elementi indispensabili per chi vuole vivere la nostra epoca. E soprattutto, volendo rimanere con i piedi per terra, spero di offrire degli elementi utili al lettore per entrare in contatto con lo Yoga e – lo spero ancora più vivamente – per potersi orientare nella selva di insegne luminose sotto le quali non sempre si offre un insegnamento all’altezza di questo nome.

Se non può far male, non può fare nemmeno bene

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Innanzitutto, come una persona molto più saggia di me amava ripetere, vorrei ricordare che non esiste al mondo alcunché che possa davvero fare bene, se non può fare anche del male, quando utilizzata nel modo sbagliato. Senza quest’ultima eventualità, significherebbe semplicemente che non può fare nulla. Sorrido ad esempio quando le persone si avvicinano a metodi di cura naturali (qualunque significato attribuiamo a questo termine) nella convinzione che “tanto non possono far male” o che “al massimo non fanno nulla”, perché significa che già in partenza non vi attribuiscono alcuna efficacia.

Un coltello senza il filo della lama sicuramente è al riparo dal rischio di ferire qualcuno, ma non può nemmeno essere utile per affettare il pane. Lo sapevano bene i greci che al nome phàrmakon attribuivano due significati: quello di medicamento, che somministrato in certe dosi o in modi diversi, può essere anche veleno.

Per questo, è certamente rassicurante che – come emerso dall’articolo precedente – il rischio di infortunarsi con lo Yoga sia relativamente basso. Tuttavia ciò non significa assolutamente che lo Yoga sia innocuo. Non lo è, a prescindere dal fatto che si tratti genuinamente di Yoga o di un’attività ludico motoria che sfrutta il nome di questa disciplina senza contenere un grammo del suo principio attivo.

Pertanto inviterei a valutare attentamente la scelta di una scuola di Yoga – o, come va di moda oggi dire uno stile – e tutto ciò che in apparenza potrebbe essere considerato il contorno dell’insegnamento.

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B. K. S. Iyengar, uno degli insegnanti di Yoga contemporanei che ha enfatizzato all’estremo gli aspetti fisici di questa disciplina.

L’apparato muscolo-scheletrico non è l’unica parte di noi che può infortunarsi: ritengo infatti che integralismi, rigidità mentali e insane dinamiche di gruppo innescate soprattutto dal divismo da parte dell’insegnante siano dei veleni altrettanto dannosi quanto l’approssimazione nell’insegnare delle tecniche corporee.

Per questo, a chi sta cercando una scuola di Yoga mi sento di dare questo suggerimento: cercate l’equilibrio, la concretezza, più che l’immediata gratificazione emotiva, estetica o intellettuale.

Un certo impegno fisico è necessario, perché lavorare sul corpo ha un significato molto più profondo di quanto si possa immaginare. Tuttavia, se avvertite il lavoro fisico è fine a sé stesso, se non percepite che lo sforzo richiesto nella pratica è di natura concretamente diversa da quello impiegato nella comuni attività motorie, può darsi che ne troviate giovamento comunque, ma è probabile che non si tratti di Yoga. Non è questione di quantità di sudore e di fatica, che dipendono dalla costituzione fisica di ognuno: è una questione di qualità.

Allo stesso modo, inviterei a fuggire come la peste qualunque luogo dove si respiri aria di settarismo (chi è dentro è dentro e guai a chi si allontana) e dove si parli di argomenti che non si possano ‘toccare con mano’.

Facciamocene una ragione: nessuno ci aprirà i chakra o ci risveglierà la Kundalini con la sola imposizione delle mani, tutte cose molto belle sulla carta (anche se diamo per scontato di sapere di cosa stiamo parlando), ma di cui non possiamo avere alcun riscontro, malgrado l’idea ci faccia andare su di giri e schizzare in alto la colonnina dell’autostima.

Tutti i voli di fantasia che vi portano nelle alte sfere dell’intellettualità o della spiritualità senza mettervi a confronto con le meschinità di ogni giorno non ha nulla a che vedere con lo Yoga. C’è molta più spiritualità nel toccarsi un alluce che nel sentirsi dire dal guru di provincia che il nostro terzo occhio si è miracolosamente aperto.

Ma non è una medicina

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Alcune righe più sopra ho parlato di farmaci, di terapia e di medicamenti; ebbene, scordiamo tutto questo. Dobbiamo comprendere che lo Yoga non è una medicina, né un brand che produce pillole miracolose – e immuni da effetti collaterali – sotto forma di posture, respirazioni e pratiche meditative.

Quasi ogni giorno ricevo richieste, spesso via internet (il ‘luogo’ forse meno adatto per questo tipo di suggerimenti), da parte di persone che intuiscono i potenziali benefici dello Yoga, o che hanno sentito dire che lo Yoga faccia bene per questo o per quel tipo di disturbo.

“Ho un dolore alla spalla, quale posizione dovrei fare per farmelo passare?”. “Sono sempre ansiosa, che respirazione dovrei fare per calmarmi?”. “Voglio rassodare i glutei, mi puoi suggerire un paio di esercizi che posso fare anche da sola?”.

La risposta che mi sorge istintivamente in queste occasioni è: “Tu chiedi caramelle agli sconosciuti!”. Ma siccome l’insegnante coscienzioso non dà caramelle, devo dare una brutta notizia a chi mi pone domande di questo tipo, anzi due (in realtà la delusione sarà ricompensata lautamente, ma occorrerà armarsi di pazienza e affinare i sensi per poterla apprezzare).

La prima brutta notizia

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Alle domande di cui sopra non c’è risposta, almeno per chi non abbia già un’esperienza con la pratica, perché in realtà non c’è alcuna posizione che possa aiutare a risolvere questi problemi. Qualsiasi tecnica insegnata nello Yoga, infatti, presa di per sé e isolata dal contesto e da un percorso personale, cessa di essere Yoga ed è anzi potenzialmente dannosa se eseguita senza alcuna cognizione delle conseguenze che questa pratica comporta, ma soprattutto dell’obiettivo che tali pratiche hanno all’interno del sistema originario.

E per quanto riguarda il ‘contesto’ non intendo una ritualità o una sequenza di tecniche. È la pratica dello Yoga che può far bene, non una posizione o una respirazione. E la pratica dello Yoga inizia con la decisione di dedicare del tempo a questa disciplina, alzare le terga e recarsi in un luogo – o meglio provare più luoghi – dove si insegna, staccarsi temporaneamente dalla routine quotidiana ed entrarci.

So che può essere duro da digerire, visto che siamo abituati a trovare tutto su internet – “scolpisci gli addominali con questi tre semplici esercizi!” – ma almeno con lo Yoga non funziona così. È necessario ricavare, per rubare un termine ad Hakim Bey e alla controcultura degli anni ’90, delle “zone temporaneamente autonome” dai meccanismi quotidiani. Poi con il tempo verrà anche la tecnica giusta che potrà aiutarci per il problema specifico, ma senza il background di una pratica non ha alcun senso.

Lo stesso obolo dell’abbonamento mensile a un corso di Yoga – aborrito da chi ritiene che l’insegnamento delle cose altamente spirituali non debba essere inquinato dal vile denaro – ha un significato che va oltre il – legittimo, a mio parere – riconoscimento economico all’insegnante: io allievo ti do una parte del mio tempo, ti do una parte della mia energia (espressa anche in ‘vile’ denaro), non solo perché riconosco il valore di ciò che mi dài, ma perché riconosco che senza la mia energia nulla si può mettere in moto. Non possiamo pretendere di ricevere senza prima dare, così come non esistono investimenti ad alto rendimento a costo zero.

La seconda brutta notizia

Abbiamo tutti sentito dire che lo Yoga inverte il processo di invecchiamento e risolleva i seni, che distrugge la cellulite, potenzia le prestazioni atletiche, sessuali e mentali, raddrizza le schiene e cura questo o quel disturbo o che guarisce miracolosamente da malattie che la medicina ritiene incurabili. Ebbene, è tutto falso.

Lo ripeto: lo Yoga non è una medicina miracolosa, né un trattamento estetico o una preparazione atletica. Occorre precisarlo, prima che partano le class action e le inchieste per truffa contro i troppi chiacchieroni ansiosi di vendere il proprio prodotto al target di turno.

Al tempo stesso, lo Yoga può davvero aiutare a risolvere anche seri problemi di salute, migliorare l’aspetto e le prestazioni di ogni tipo. Ma c’è un grosso ma. Tutti questi benefici sono effetti collaterali della pratica. Se diventano lo scopo, lo Yoga perde il suo principio attivo. Ciò non significa che bisogna abbracciare – Dio ce ne scampi! – lo Yoga come una religione, perché è tutto fuorché una religione, per quanto certi fanatici indù ne reclamino ultimamente la proprietà intellettuale. Significa che bisogna prendere atto della necessità di risalire al nodo superiore del problema.

Ma allora, cosa ‘fa’ lo Yoga?

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Sì… proprio Dalì.

Quando gli antichi dicevano che il fine dello Yoga è di ripristinare lo stato naturale, non intendevano invitare il praticante a un bucolico ritorno alla terra, ma a collegarsi con la parte di sé che non è toccata da malattia, inestetismi, ansie e malesseri di ogni sorta. E, da lì, riprendere il controllo.

Questo non significa per forza guarire, ma ricollocare il malessere in una prospettiva molto più ampia della dicotomia salute/malattia, estetismo/inestetismo, ansia/quiete (come ben sintetizzato da Massimiliano Sassoli de Bianchi ne L’ipotesi stupefacente). Contenerlo, invece di esserne contenuti: è un processo complesso, tuttavia anche nell’apertura di un margine infinitesimale, anche nella sospensione fugace del fitto assillo dei processi mentali c’è una conquista inestimabile: è la dimostrazione che è possibile farlo.

“Il germe è zero, il terreno è tutto” (parole che qualcuno attribuisce nientemeno che a Louis Pasteur in punto di morte): ebbene, lo Yoga si occupa del terreno, non tanto del germe. Della premessa, prima ancora che della storia che si andrà a tessere sulla sua superficie. Per questo può essere un validissimo supporto per una terapia, ma non può sostituirsi alla terapia quando essa sia necessaria. E, proprio per questo, sono felice di poter collaborare e confrontarmi con medici, in uno scambio che arricchisce entrambi, ma non modifica gli ambiti le reciproche competenze.

La premessa indispensabile

Ma qual è allora la premessa di cui lo Yoga si occupa? Giusto pochi giorni fa mi è capitata sotto gli occhi una galleria di immagini degli allenamenti della marina taiwanese. L’articolo titolava “Lo stretching estremo degli uomini rana” e nelle immagini riconoscevo qualcosa di familiare. Nei commenti, qualcuno obiettava: “Ma quale stretching estremo, questo è Yoga!”:

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Errore. Malgrado questa postura sia del tutto simile alla āsana (cioè alla postura) chiamata Supta virāsana, gli uomini rana non stanno praticando Yoga, né sembrano intenzionati a farlo.

Qual è la differenza? Se accettassimo l’equazione (stessa postura=stessa pratica), allora potrei affermare che ho visto donne in avanzato stato di gravidanza e persone di ogni età con i più svariati problemi – anche meniscopatie e lussazioni varie – eseguire la stessa pratica di “stretching estremo”. Ma così non è, perché si tratta di due cose molto distinte, tanto da essere agli antipodi.

Ancora una volta: cerchiamo la premessa! La premessa è il rilassamento e l’ascolto del proprio corpo. Che non è, si badi bene, soltanto un corpo: quando assumiamo una forma, stiamo manipolando non solo le nostre membra, ma l’intero complesso psicofisico. Per questo occorre comprendere bene di cosa stiamo parlando, visto che rilassamento e ascolto sono concetti assolutamente estranei all’educazione corporea e mentale che abbiamo (non) ricevuto.

Il nostro stesso immaginario ne è privo: ad esempio, siamo abituati a considerare il rilassamento come l’opposto del fare, o al limite come a un’alternativa, ma non come a una premessa. Immaginiamo l’uomo d’azione come un barbuto spartano corazzato di muscoli, che va incontro al nemico con la durezza di una roccia e carico di una tensione sovrumana, incurante dei colpi che lo crivellano. Ma non c’è nulla di sovrumano nella tensione. A dire il vero, agli occhi di chi pratica Yoga non c’è neppure nulla di energico.

Nel praticare Yoga, infatti, ci si muove all’opposto (e in linea, ad esempio, a discipline come il Tai Chi Chuan, anche se con modalità differenti). Si entra in posizioni che possono apparire difficili, ma lo si fa rilassati – imparando a respirare – e ascoltando attentamente dall’interno che cosa accade. Se sopraggiunge una tensione improvvisa, se incontriamo disagio o paura, in questa condizione abbiamo modo di poter osservare ciò che accade ben prima di arrivare a un punto di rottura – e, volta dopo volta, superare la difficoltà.

Solo così si può imparare a localizzare e concentrare il lavoro muscolare, evitando le tensioni inutili, ma non si tratta di una semplice ‘efficientazione’ energetica. Nel rilassamento, possiamo attingere a un bacino di energia molto più ampio di quanto la nostra mente possa immaginare. Non è un’affermazione che mi interessi qui giustificare dal punto di vista scientifico: per chi pratica, è un dato di fatto. Chiunque può farne l’esperienza.

Un indiano che pratica Yoga, dall'archivio storico di LIFE Magazine, 1949
Un indiano che pratica Yoga, dall’archivio storico di LIFE Magazine, 1949

In effetti, il rilassamento e l’ascolto non possono essere meccanizzati. Non si conseguono semplicemente compiendo una sequenza di posture. Non schiacci un bottone corporeo e ti rilassi. Per rilassarsi occorre porre la massima attenzione e, se si ascolta veramente, nessuna esecuzione è uguale alle precedenti. Si compie ogni gesto per la prima volta, ogni volta. Praticare Yoga significa disinnescare il pilota automatico, de-condizionare mente e corpo piuttosto che condizionare i muscoli a compiere un lavoro, mentre la mente vaga altrove.

Proprio per questo, il rilassamento può essere molto ‘faticoso’, per chi non vi è abituato. E, proprio per questo, il rilassamento è la premessa non solo per il lavoro fisico, ma anche per la concentrazione. Ma il discorso ci porterebbe molto oltre…

In altre parole, il lavoro parte dall’interno, ha l’obiettivo di coinvolgere e dirigere l’intero complesso (fisico, emotivo e mentale, senza escludere alcun aspetto dal campo di osservazione), mentre il risultato esteriore ne è la semplice conseguenza e ha una rilevanza relativa, perché dipende da molti fattori.

Paradossalmente, chi ha molte rigidità fisiche potrebbe trovarsi avvantaggiato, proprio perché il suo corpo esigerà la massima attenzione; al contrario, chi è molto sciolto potrebbe invece trovare molto più difficile entrare nella pratica, proprio per l’assenza di difficoltà fisica, e dovrà impiegare molta più energia per mantenersi vigile.

In conclusione…

yoga

In conclusione, com’è possibile infortunarsi con lo Yoga, date le premesse indicate sopra? La risposta potrebbe essere semplice: se ciò avviene, è per un difetto nell’insegnamento (dell’insegnante o addirittura del metodo).

O non si conduce l’allievo nella giusta condizione di rilassamento e di ascolto, o si insegnano le posture non correttamente, oppure l’allievo viene forzato oltre i propri limiti: è vero che il limite è qualcosa da superare, ma il compito dell’insegnante è farlo conoscere all’allievo, il quale dovrà superarlo da solo, liberamente, quando arriverà il momento, con tutti gli strumenti che avrà ricevuto.

Ma questa risposta potrebbe essere troppo semplice. L’invito che posso fare è, appunto, osservare e valutare attentamente non soltanto con il raziocinio, ma anche “a pelle”.

Nella mia esperienza con lo Yoga ho avuto due grandi fortune. La prima è di avere incontrato degli insegnanti straordinari, che hanno avuto e hanno una grande pazienza nei miei confronti, dimostrandomi che in primo luogo l’importanza del rispetto per l’allievo e per la sua libertà di scegliere se e quando superare un certo limite: al di fuori della libera scelta, infatti, non vi è pratica di Yoga.

La seconda fortuna in realtà è anteriore cronologicamente, ma ho imparato a considerarla tale solo con il senno del poi: il mio primissimo contatto con lo Yoga fu un disastro, perché incontrai un insegnamento molto rigido, perché contemplava unilateralmente lo sforzo.

Questo incontro mi procurò qualche grattacapo, non tanto fisico, ma altrettanto insidioso dal punto di vista dell’atteggiamento. Alla luce dell’esperienza seguente, imparai che lo Yoga non è sfondare una porta a testate, ma fabbricare la chiave che permette di mettere in moto la serratura.

Queste due fortune mi hanno fatto conoscere entrambi i lati della medaglia e mi hanno fatto comprendere che insegnare Yoga è una grande responsabilità, perché non si gioca con il prossimo e con i suoi limiti, i quali hanno cause molto profonde che non vanno giudicate. Sono anzi una fonte inesauribile di scoperta e di insegnamento per l’insegnante stesso.

Infine, last but not least, ho avuto anche una terza fortuna: ho incontrato e incontro molti allievi straordinari, che mi stupiscono ogni volta. E devo anche a loro, oltre che ai miei insegnanti, quel poco che ho imparato e che ho cercato di esporre in questo articolo.

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