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hathayoga

Seminario: gli 8 meridiani straordinari e lo Yoga

4 Aprile 2024 by Zénon


Nutrire i laghi dell’energia vitale: alla scoperta degli 8 meridiani straordinari e di come la loro conoscenza può aiutarci ad approfondire la pratica psicofisica dello Yoga. Seminario in 4 incontri.

Contenuti

  • Le date
  • Il corso: perché un altro corso su yoga e meridiani?
  • I docenti
  • Contributo di partecipazione e attestato di frequenza
  • Iscriviti
    • 2. Scarica e compila il modulo di iscrizione
  • Richiedi informazioni

Seminario in presenza e via Zoom

Il corso potrà essere seguito anche in differita: le registrazioni rimarranno disponibili senza scadenza

Le date

Tutti i seminari si svolgono in presenza, presso la nostra sede in via 23 marzo 17 a Novara, e online su Zoom alle 19.10 e dureranno circa un’ora e mezza. Le registrazioni saranno disponibili per tutti i partecipanti.

30 maggioRen Mai e Du Mai, il Vaso di Concezione e il Vaso Governatore
6 giugnoChong Mai, il Vaso Penetrante, e Dai Mai, il Vaso Cintura
13 giugnoYin e Yang Qiao Mai, i Meridiani regolatori del Calcagno
20 giugnoYin e Yang Wei Mai, i Meridiani di Collegamento

Il corso: perché un altro corso su yoga e meridiani?

Il binomio tra pratica dello Yoga e meridiani della Medicina Tradizionale Cinese (MTC) non è certo una novità nel panorama odierno. Tuttavia, questa associazione ormai divenuta familiare risente quasi sempre di due bias fondamentali.

Il primo è che la trasposizione pratica è spesso limitata alla componente posturale con un forte accento sull’allungamento muscolare, dando per scontato che i meridiani si possano ‘stirare’, azione che nelle pratiche psicofisiche della tradizione cinese è pressoché assente o marginale.

Il secondo è che l’indagine si concentra per lo più sui dodici meridiani ordinari, collegati a organi e visceri, che governano il funzionamento di routine dell’organismo, e che nella MTC e nel Taoismo sono di rilevanza soprattutto per l’atto terapeutico, nel caso in cui si verifichino squilibri nelle loro funzioni.

Tuttavia, nelle pratiche psicofisiche cinesi, così come in quelle dello Hatha Yoga indiano, l’interesse non è tanto rivolto a interferire nella ordinaria amministrazione energetica (cosa che è possibile in modo indiretto e limitato, e che richiede una cognizione di causa che esula dall’ambito di queste pratiche), quanto a nutrire e a portare ad emergere un altro tipo di circolazione energetica.

Per questo, il vero obiettivo delle pratiche psicocorporee non sono tanto i canali ordinari, quanto i meno conosciuti meridiani straordinari, i “laghi dell’energia vitale”, ovvero i primi circuiti energetici a formarsi nell’embrione, in diretto rapporto con l’energia anteriore alla nascita. Nell’individuo formato, questi meridiani si trovano in stato dormiente, fungendo da riserva in caso di perturbazioni particolarmente gravi nell’organismo e – da qui la loro rilevanza nelle pratiche psicocorporee – divengono preminenti negli stati contemplativi.

Dei meridiani straordinari, solo il Vaso Governatore e il Vaso di Concezione vengono solitamente presi in considerazione, ma ne esistono almeno altri sei, il cui studio può suggerirci importanti implicazioni e orientamenti anche per la pratica dello Yoga.

In questo seminario impareremo a conoscere questi otto meridiani, ma anche a inquadrarli in una corretta prospettiva epistemologica, per comprendere meglio il senso stesso della pratica psicocorporea: non come surrogato di un atto terapeutico fai-da-te, ma come imprescindibile nutrimento delle nostre risorse più intime e profonde. Che questo nutrimento, apparentemente privo di una applicazione diretta e immediata, sia parte stessa di un’ottica più ampia di prevenzione e di cura di sé, è un concetto cardine di quelle che, non a caso, nella MTC venivano chiamate Pratiche di Lunga Vita, ma è in perfetta consonanza anche con le prerogative meno scontate della yogaterapia.

Nel tradurre tutto questo nella pratica yogica, esploreremo le implicazioni degli otto meridiani straordinari non solo attraverso l’aspetto (bio)meccanico della pratica posturale, ma anche attraverso il movimento sottile, l’ascolto attivo e l’attivazione per mezzo del soffio, nel rispetto del senso originario di queste pratiche, ovvero di introdurre, attraverso l’accordatura di mente-corpo-cuore, a quel ‘qualcos’altro ancora’ che si verifica come levandosi interiormente una chiusa, e che per mancanza di termini più precisi chiamiamo meditazione.


I docenti

Marco Invernizzi

Medico e Professore Ordinario presso la cattedra di Medicina Fisica e Riabilitativa dell’Università del Piemonte Orientale.
Agopuntore ed esperto in Medicina Tradizionale Cinese, insegnate di Tai Chi e Qi Qong presso Zènon.

    Francesco Vignotto

    Insegnante di yoga e meditazione presso Zénon.

      Contributo di partecipazione e attestato di frequenza

      Il contributo di partecipazione del corso (comprensivo dei 4 seminari) è di 220€. Per chi si iscrive entro il 16 maggio – versando la quota – il prezzo è agevolato a 190€.

      Al termine del percorso – con una frequenza minima dell’80% delle lezioni – verrà rilasciato un attestato di frequenza.

      Iscriviti

      Vuoi iscriverti? Servono solo due passaggi: 1) paghi la quota e 2) compili e invii la domanda di iscrizione.


      1. Dati per il pagamento

      Costo: 220,00 190,00€ (entro il 16/5)

      Puoi scegliere di pagare:

      • con carta di credito o di debito attraverso Paypal (non serve avere un account): in questo caso puoi anche usufruire dell’opzione paga in tre rate;
      • con bonifico bancario.

      Con carta di credito/debito (con o senza Paypal)

      Con bonifico bancario

      Ecco le coordinate bancarie su cui versare la quota di iscrizione:

      IT32R0503410196000000000905
      Importo: 190,00 intestato a: Zenon ASD 
      Causale: Iscrizione corso e quota tesseramento [specificare il nome se il conto non è intestato all’iscritto/a]

      2. Scarica e compila il modulo di iscrizione

      Scarica la domanda di iscrizione e inviala compilata all’indirizzo info@zenon.it oppure inviacela via whatsapp cliccando sull’icona in basso a sinistra.

      Modulo iscrizioneDownload

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      Vuoi iscriverti o chiedere informazioni? Puoi chiamarci al 3492462987 o scriverci su Whatsapp

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      Archiviato in:eventi conclusi Contrassegnato con: hathayoga, Qi Gong Novara, yoga Novara

      Yogasana 8: Mindfulness/Heartfulness

      28 Novembre 2023 by Zénon

      Nuova edizione febbraio-aprile 2024: Esplorare le connessioni mente-cuore-corpo, tra Yoga posturale moderno, Yoga tantrico delle origini, neurofisiologia e anatomia, Medicina Tradizionale Cinese e pratiche Taoiste.


      Perché nella relazione mente-corpo è indispensabile comprendere la differenza tra consapevolezza e controllo, che spesso confondiamo? Perché nelle pratiche psicocorporee e meditative dovremmo sostituire la parola ‘mente’ con il termine ‘mente-cuore‘? Quali sono le relazioni tra il cuore, la respirazione e la muscolatura profonda, così sensibili alle dimensioni emotiva e intuitiva? Qual è il rapporto tra la circolazione sanguigna e l’esperienza dell’energia vitale nelle pratiche psicocorporee? Esiste davvero una relazione, come popolarmente si dà per scontato nello Yoga moderno, tra espansione dell’area toracica ed ‘espansione del cuore‘ interiore? Quali sono gli aspetti energetici e fisiopatologici legati al cuore e all’elemento fuoco nella Medicina Tradizionale Cinese? Perché la simbologia tantrica legata al cuore, inteso come sede dell’essere e dell’essenza, è così importante per una comprensione che non sia unicamente un sapere intellettuale? E perché la qualità dell’ardore è così intimamente legata alla pratica dello Yoga delle origini?

      Nell’ottava edizione di Yogasana andiamo alla ricerca del centro della pratica dello Yoga, ossia al suo cuore. Ed è proprio al cuore in tutte le sue accezioni e implicazioni che è dedicata questa edizione, dal cuore fisico, centro di distribuzione e organo di pari importanza rispetto al cervello, al cuore come essenza e centro delle cose che tutto mette immediatamente in relazione e reciproca risonanza.

      Lo faremo, come sempre, tessendo paralleli tra lo Yoga posturale moderno, lo Yoga tantrico delle origini, l’anatomo-fisiologia e la neurofisiologia, assieme ai consueti collegamenti con la Medicina Tradizionale Cinese e la tradizione Taoista.

      Saranno con noi in questo percorso Gioia Lussana, PhD esperta nello Yoga tantrico delle origini, il prof. Marco Invernizzi e Francesco Vignotto.


      Contenuti

      • Il programma
        • I docenti
        • Contributo di partecipazione e attestato di frequenza (CSEN)
        • Iscriviti
        • Desideri maggiori informazioni?

        in presenza e online

        Il corso potrà essere seguito anche in differita tramite le registrazioni, che saranno disponibili il giorno dopo ogni seminario

        Il programma

        Tutti i seminari dureranno circa due ore e conterranno una parte teorica e una parte pratica. Potranno essere seguiti in queste tre modalità:

        • in presenza presso la nostra sede a Novara in via XXIII marzo al numero 17
        • online in diretta tramite la piattaforma Zoom
        • online in differita, tramite le registrazioni che saranno disponibili per la visione in streaming a partire dal giorno seguente

        Le registrazioni, assieme alle slide di ogni seminario, saranno a disposizione di tutti gli iscritti, anche di chi sceglierà di seguire in presenza.


        MODULO 1: Mindfulness/Heartfulness: comprendere la differenza tra consapevolezza e controllo

        In presenza e online, giovedì 1 febbraio ore 19.10-21.00
        Con Francesco Vignotto

        MODULO 2: L’espansione del cuore: il torace e il cuore tra anatomia, biomeccanica e fisiologia yogica

        Online e in presenza, giovedì 8 febbraio ore 19.10-21.00
        Con Marco Invernizzi e Francesco Vignotto

        MODULO 3: La simbologia del cuore nello Śivaismo del Kashmir

        Online e in presenza, giovedì 22 febbraio 19.10-21.00
        Con Gioia Lussana

        MODULO 4: Circolazione sanguigna, movimento, stasi e respirazione: la distribuzione dell’energia tra fisiologia e dinamiche praniche

        Online e in presenza, giovedì 7 marzo 19.10-21.00
        Con Marco Invernizzi e Francesco Vignotto

        MODULO 5: L’ardore nello Yoga tantrico delle origini

        Online e in presenza, giovedì 21 marzo 19.10-21.00
        Con Gioia Lussana

        MODULO 6: Il cuore e l’elemento fuoco nella Medicina Tradizionale Cinese: aspetti fisiopatologici ed energetici

        Online e in presenza, giovedì 4 aprile 19.10-21.00
        Con Marco Invernizzi e Francesco Vignotto

        MODULO 7: Far fronte all’ansia, ovvero il lato oscuro (ed emotivo) del pensiero: una proposta estetica

        Online e in presenza, giovedì 18 aprile 19.10-21.00
        Con Marco Invernizzi e Francesco Vignotto


        Un momento della didattica, durante la prima edizione di Yogasana


        I docenti

        Marco Invernizzi

        Medico e Professore associato presso la cattedra di medicina fisica e riabilitativa dell’Università del Piemonte Orientale.
        Agopuntore ed esperto in Medicina Tradizionale Cinese, insegnate di Tai Chi e Qi Qong presso Zènon.

          Francesco Vignotto

          Insegnante di yoga e meditazione presso Zénon.

            Gioia Lussana

            Docente yoga (Y.A.N.I.) e formatrice di insegnanti yoga. Laureata cum laude in Indologia con R.Gnoli e R.Torella. Co-fondatrice dell’A.ME.CO con Corrado Pensa, per oltre 20 anni ha approfondito la meditazione vipassanà con maestri del buddhismo contemporaneo. Ha pubblicato saggi sullo yoga in riviste scientifiche (RSO) e divulgative. Ha conseguito il PhD presso l’Università Sapienza di Roma con una ricerca sullo yoga tantrico delle origini.

              Contributo di partecipazione e attestato di frequenza (CSEN)

              Il contributo di partecipazione del corso (comprensivo dei 7 seminari) è di 300€. Per chi si iscrive entro il 5 dicembre (versando la quota) il costo è agevolato a 220€. Non è possibile iscriversi a singoli seminari, in quanto il corso è da intendersi come un blocco unitario.

              Al termine del percorso verrà rilasciato un attestato di frequenza CSEN. Chi segue online, in diretta o differita, può ottenere l’attestato presentando una breve relazione scritta (1500 caratteri).

              Iscriviti

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              Archiviato in:Senza categoria Contrassegnato con: hathayoga, pratica, yoga, yoga Novara

              Perché le tecniche di respirazione non funzionano

              10 Maggio 2023 by Francesco Vignotto Lascia un commento

              Bramino che pratica Recaka nel Pranayama - Le tecniche di respirazione

              Compresi che il mio posto nel mondo corrispondeva a un punto al di là di me stesso, e che questo punto, pur trovandosi dentro di me, non era localizzabile. Era la piccola intercapedine tra il sé e il non-sé, e per la prima volta in vita mia questo non luogo mi apparve come il centro esatto del mondo.

              Paul Auster

              Il titolo, in un certo senso, mente o esagera: i benefici della respirazione per il benessere psicofisico sono oggi ampiamente riconosciuti, tanto che alcune tecniche di controllo del respiro sono spesso suggerite da operatori sanitari e psicoterapeuti per calmare gli stati ansiosi, migliorare la concentrazione e facilitare il sonno, tra le altre cose.

              Sappiamo ad esempio che una respirazione lenta, con l’accento sull’espiro e prevalentemente addominale stimola il nervo vago, che proprio attraverso il diaframma passa, trasmettendo al sistema nervoso autonomo un profondo impulso di distensione. All’estremo opposto, ma c’è un mondo intero nel mezzo, altri utilizzano respirazioni iperventilanti per i più vari scopi ludico-allucinatori, e ciò ha poco a che fare con lo Yoga, checché se ne dica, ma è una possibilità tra le tante. Insomma, le tecniche di respirazione funzionano e proprio per questo si prestano a una vasta gamma di utilizzi raccomandabili o meno.

              Sarebbe facile quindi concludere che basta adeguare il respiro a una certa equazione ritmica per fare del nostro cervello quello che vogliamo, l’articolo finirebbe qui e avremmo potuto risparmiare il tempo di scriverlo affidandolo a uno di quei chatbot molto di moda che mettono una parola dopo l’altra secondo un criterio di probabilità.

              In realtà, se c’è un senso nel dedicare la propria attenzione al respiro, dovrebbe basarsi su presupposti meno astratti. In altre parole, non è il respiro che si deve adeguare alla mente, ma è la mente che deve imparare ad andare al passo con il respiro, alla ricerca della pulsazione profonda da cui entrambi hanno origine.

              Potrebbe sembrare un dettaglio nel momento in cui abbiamo degli obiettivi o una situazione a cui porre rimedio, ma è proprio qui che si gioca la possibilità di andare incontro a qualcos’altro che non siano i propri pensieri, ed è proprio trascurando questa premessa che i più abbandonano, concludendo, come le scimmie in viaggio di istruzione, che il mondo è noioso e viaggiare non serve a niente, non accorgendosi di non essere mai uscite dalla gabbia.

              Quindi, siccome dobbiamo farci perdonare il titolo di questo articolo, vogliamo cominciare da quando le tecniche di respirazione non funzionano o smettono di farlo, perché è proprio di fronte alla sfinge del soccorritore se ne va senza avere soccorso che si sente per la prima volta, inaspettato, il proprio respiro autentico.

              Contenuti

              • “Il soccorritore se ne va senza avere soccorso”
              • I due regimi della respirazione
              • Per concludere, oltre le tecniche di respirazione

              “Il soccorritore se ne va senza avere soccorso”

              Uno yogi che pratica una tecnica di respirazione - dal murale del tempio Zongdag Lukhang
              Uno yogi dal murale del tempio Zongdag Lukhang

              Prendiamo un caso abbastanza comune. Le mie prime esperienze sono positive e si sprecherebbero le frasi fatte: grazie agli esercizi di respirazione avverto letteralmente l’aria prendere vita dalle mie narici, quella sensazione leggermente elettrica vivifica ed energizza mente e corpo, proprio come se avessi aperto le finestre in una stanza da molto tempo chiusa e al buio. Tutto è lucidato a nuovo, le sensazioni sono più vive, il mio umore è più stabile, la mente è chiara, fatico meno a prendere sonno e soprattutto mi sveglio riposato.

              Tuttavia, quando la novità diventa routine incontro delle difficoltà; mentre prima tutto sembrava così semplice e a portata di mano come premere un interruttore, ora quell’interruttore sembra funzionare a intermittenza e dopo svariati tentativi. Intanto, non solo il respiro diviene forzato – forse non ci metto abbastanza energia, penso – ma mi sorprendo a controllarlo rigidamente anche al di fuori dei momenti di pratica. In breve, ma forse ci vuole un po’ per ammetterlo, perdo ogni beneficio o addirittura vivo un peggioramento dei sintomi che inizialmente quelle tecniche si erano dimostrate efficaci ad alleviare.

              Che cosa è successo: come in ogni attività ripetitiva, la pratica si è automatizzata. In altre parole, ho sperimentato la parabola con cui il mentale si appropria anche del ‘qui ed ora’ a cui la respirazione dovrebbe riavvicinarci. La mente fagocita, organizza, programma tutto, dalla vita coniugale alle esperienze trascendenti, organizzando meticolosi percorsi alternativi alle esperienze spiacevoli e pianificando la pantomima formale dei momenti felici, ma purtroppo conservando della felicità solo una memoria.

              Così scopro che anche la relazione mente-corpo può ridursi a un circolo vizioso e meccanico, i cui due poli continuano a rinviarsi l’un l’altro, ma senza il palesarsi di qualcos’altro, di quella silenziosa presenza impersonale che emerge dallo sfondo in cui la mente e il respiro tendono a lasciarsi riassorbire per naturale propensione. Mi ritrovo così nella sala d’attesa di qualcosa che non può arrivare, perché l’attendere stesso è la separazione da quello che c’è in questo momento, dal reale. A questo punto, che si spezzi qualcosa è una benedizione, e per tornare a vivere è necessario cessare proprio la pratica di ciò che inizialmente doveva aiutare a rilassarmi.

              Naturalmente quello appena descritto è un caso-limite ed esistono innumerevoli sfumature, a volte moderatamente innocue, altre più subdole. Una cosa è certa: ferma restando l’intuizione yogica fondamentale, ovvero che la mente segue il respiro (presupposto perché la mente si avvii oltre sé stessa), tuttavia è anche vero e possibile il contrario, ovvero che il respiro segua la mente: nel primo caso, la produzione di pensieri andrà a sfumare, nel secondo verrà alimentato a prescindere dal tipo di respirazione.

              Ma per fare un passo oltre, lo Yoga, ad esempio, chiede innanzitutto di ridefinire i soggetti in gioco.

              I due regimi della respirazione

              Perché le tecniche di respirazione non funzionano

              Che il respiro sia l’unica funzione autonoma che può essere controllata in modo volontario è un’informazione che andrebbe contestualizzata. Di solito la nozione di questo questo doppio regime dà adito a interpretazioni inconsciamente tendenziose, secondo il pregiudizio mentale per cui ciò che è involontario è per sua natura inferiore a ciò che è volontario.

              Pertanto, è facile che, sentendo parlare di respiro consapevole, si intenda con questo il respiro volontario. Ed è facile concludere che attraverso un intervento volontario sul respiro io possa correggere od orientare i processi autonomi. È un errore di prospettiva: in realtà, io ho bisogno di attingere, attraverso il respiro, a quella parte di me che non dipende dalla mia volontà.

              Proprio su questo aspetto, Gerard Blitz ha dedicato numerose interessanti intuizioni, raccolte dai suoi allievi ne Il filo dello Yoga (gli a capo sono nell’originale):

              Portiamo in noi
              due “regimi” diversi
              che coabitano e funzionano insieme
              Uno è volontario
              ci spostiamo nello spazio
              pensiamo parliamo
              L’altro non è volontario
              qualcosa in noi
              agisce a nostra insaputa
              aziona i nostri organi
              equilibra la nostra posizione nello spazio
              coordina regola corregge
              Questo “qualcosa” è intelligente

              Questa intelligenza è diversa
              più profonda
              complementare alla prima
              che chiamiamo mentale

              Il ruolo dell’Hațha Yoga
              è quello di insegnare all’uomo a creare le condizioni
              in cui quest’altra intelligenza
              che è in lui
              possa manifestarsi e partecipare
              alle sue azioni  al suo pensiero alla sua parola
              Quando queste condizioni esistono
              siamo nello stato di Yoga

              Al contrario di quel che si penserebbe, il regime involontario, afferma Blitz, è intelligente. Emerge quindi un problema: cosa impedisce al nostro respiro autentico di trovare espressione? Da dove originano le difficoltà e le limitazioni nel respiro? La risposta è complessa, perché in parte originano da altre aree involontarie, su cui quindi non abbiamo modo di agire direttamente, ma in parte anche per l’ingerenza della componente volontaria, che con scarsa coordinazione e delicatezza cerca di controllare il respiro come controllerebbe i movimenti di un braccio. Qui però non si tratta di passare all’estremo opposto, di invertire la scala di valori: si tratta di “creare le condizioni” per un’integrazione.

              Anche per questo, la premessa da cui occorre partire, sempre e non solo in via propedeutica, è di rendere cosciente il respiro naturale, ossia involontario, senza intervenire. Già ci potremmo fermare qui: se ci dedichiamo con serietà a questo compito, ci possiamo accorgere di quanto sia difficile e sempre nuovo. La passività cerebrale è fondamentale; in caso contrario, come osserva Eric Barét, scopriremo soltanto ciò che abbiamo accettato.

              La storia finisce quindi senza essere mai veramente incominciata? Al contrario, è proprio qui che tutto inizia. Ci possiamo subito accorgere degli infiniti possibili approcci all’ascolto e della non banalità di alcun particolare che si presenta all’attenzione, ognuno dei quali contiene il tutto: sentire la temperatura, il suono e la traiettoria dell’aria che entra ed esce dalle narici, la pulsazione viscerale, il movimento spinale, costale, articolare ed epidermico, la riconfigurazione degli spazi del corpo e la sensazione di espansione e contrazione che riverbera nell’ambiente, le fluttuazioni nella cognizione del tempo a seconda che si propenda a ‘lasciarsi respirare’ o a intervenire attivamente. La sensazione delle pause, non forzate, naturali che preludono all’emergere dello sfondo da cui inspiro ed espiro sempre più occasionalmente salgono come razzi.

              Attraverso questi inviti all’ascolto da cui ci lasciamo sfiorare, potremmo notare che il respiro naturale, quando riceve ascolto cosciente, non rimane uguale a sé stesso, ma come ogni cosa vivente si sviluppa. È proprio da questa terra di confine tra lasciar fare e fare che inizia realmente il pranayama, sia rimanendo nell’informalità, sia attraverso tecniche formali, se non risulteranno superflue, che si svilupperanno come forme di espansione e di esplorazione più che di controllo e costrizione, in cui i due regimi coopereranno in equilibrio.

              Un’ulteriore considerazione, non meno importante: uno dei motivi principali per cui il respiro si irrigidisce, perdendo il collegamento con la sua forza vitale, è che reagiamo a sensazioni che interpretiamo come spiacevoli o indesiderabili. È quasi superfluo aggiungere, a questo punto, che è molto probabile che questo irrigidimento alimenterà ciò che respingiamo. Occorre, innanzitutto, includere nell’ascolto anche questa reazione, senza rifiutarla, e coltivare margini di maggior agio: in questo rimando al bellissimo passo di Gioia Lussana riportato nell’articolo precedente sul pranayama come custodire/proteggere piuttosto che come irrigidire/bloccare.

              Per concludere, oltre le tecniche di respirazione

              I cinque corpi secondo il tantrismo del Kashmir - Perché le tecniche di respirazione non funzionano

              Vorrei concludere con questo diagramma, tratto da Tantra Illuminated di Christopher Wallis, che illustra i livelli di coscienza del sé secondo lo Sivaismo tantrico che fiorì nel Kashmir medievale. Chi ha dimestichezza con i manuali di Yoga sarà abituato forse a uno schema diverso, quello dei cinque involucri (kosha), di derivazione vedantica, spesso rappresentato graficamente come una matrioska di corpi via via più sottili.

              La principale differenza – oltre alla pragmatica aggiunta di uno strato più esterno al corpo ‘in carne ed ossa’, quello della ‘roba’ – è la posizione di Prāṇa, ossia lo strato dell’energia vitale di cui il respiro è principale espressione e veicolo. Collocato tra corpo fisico e corpo mentale nello schema più celebre, qui invece si trova ancora più in profondità, ossia tra Citta, la mente-cuore e Shunya, il Vuoto trascendente, che a sua volta non è vuoto ma ‘contiene’ Cit, la Coscienza.

              Ora, occorre considerare che in questi territori gli schemi in generale e le rappresentazioni bidimensionali hanno dei limiti intrinseci e quindi vanno prese con le dovute cautele: ad esempio – ed è un limite che affligge sia questa rappresentazione sia quella più nota – gli strati sempre più interni sembrerebbero limitati e contenuti da quelli esterni, mentre in realtà è vero il contrario: più ci muoviamo verso il centro, più andiamo dal particolare all’universale, dall’individuo al Sé indifferenziato.

              Detto questo, i due diagrammi possono almeno in un aspetto convivere, descrivendo il legame a doppia mandata con il respiro: come punto di connessione corpo-mente (siamo ancora nell’individuo) ma al tempo stesso come ponte tra l’individuo e la forza vitale che condivide con tutte le creature. Forza vitale che è a sua volta passaggio privilegiato verso un silenzio che è letteralmente cosa viva.

              E anche se gli schemi rimangono pur sempre schemi, possono almeno in questo caso sussurrarci un pur vago suggerimento del perché trovando il respiro possiamo trovare il centro esatto del mondo, e perché trovando il centro possiamo finalmente respirare.

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              Archiviato in:Articoli, Yoga Contrassegnato con: Gerard Blitz, Gioia Lussana, hathayoga, pranayama, pratica, respiro, yoga, yoga Novara

              [Evento 2023] Comprendere i bandha: quattro lezioni pratiche e teoriche

              13 Aprile 2023 by Zénon


              Tecnicamente, i bandha consistono nel controllo di tre aree chiave: a livello del collo, del diaframma e del pavimento pelvico. Molto spesso affrontati con un approccio molto muscolare, in questo seminario affronteremo i bandha come supporti che permettono di ricomporre ciò che nell’esperienza comune è frammentato e conflittuale.

              Pertanto, con la pratica dei bandha non solo stabilizziamo la postura, ma allo stesso modo raccogliamo e stabilizziamo l’energia vitale altrimenti dispersa custodendola al centro di noi e permettendole di crescere e svilupparsi in modo organico.

              Stabilità e coerenza nella postura e nell’energia significa un corpo più leggero, una mente più chiara, secondo il procedimento yogico, che è per sua natura dai molti all’uno.

              Per questo, accanto a una approfondita analisi anatomica dei tre principali bandha, l’approccio pratico in questo seminario sarà di estrema dolcezza in modo da coglierne gli aspetti più sottili che risultano più significativi nella connessione mente-corpo.

              In presenza e online
              Il corso potrà essere seguito anche in differita: le registrazioni rimarranno disponibili fino a sei mesi dal termine del corso

              Il programma

              Tutti i seminari dureranno circa due ore ciascuno. Si terranno in diretta via Zoom e potranno essere seguiti anche in differita. Se raggiungeremo un numero minimo di richieste, sarà possibile anche seguire le lezioni in presenza. Al termine di ogni seminario tutti i partecipanti riceveranno le registrazioni, che rimarranno disponibili per sei mesi dalla fine dell’intero ciclo.

              MODULO 1. Tribandha: relazioni spinali e respiratorie. Sentire i bandha

              Giovedì 18 maggio ore 19.10

              Con Francesco Vignotto

              Cominceremo da ciò che potrebbe sembrare la fine, ma in realtà è il principio: siccome le strutture del nostro corpo esistono separatamente solo per comodità di esposizione, cominceremo dal percepire i bandha nella loro interrelazione, attraverso movimenti comuni e attraverso il respiro.

              MODULO 2. Mula Bandha: il piano perineale e il diaframma pelvico

              Giovedì 25 maggio ore 19.10

              Con Francesco Vignotto ed Erika Pizzo

              Le dinamiche del pavimento pelvico e del basso addome sono fondamentali non solo per comprendere mula bandha, ma anche per comprendere gli altri due bandha e la stabilità del corpo nell’asana. In questo seminario approfondiremo assieme a Erika Pizzo le implicazioni per l’anatomia femminile.

              MODULO 3. Uddiyana bandha: la relazione addome-diaframma toracico

              Giovedì 8 giugno ore 19.10

              Con Francesco Vignotto ed Erika Pizzo

              In Uddiyana, è fondamentale la relazione tra muscolo trasverso dell’addome e diaframma toracico, tra ‘tenere’ e ‘lasciare’, tra respiro e stabilità nell’asana. Ma, come sempre, è nell’ascolto globale che la sintesi si può realizzare. Con un approfondimento di Erika Pizzo sull’anatomia femminile e il ruolo chiave del tono addominale nel recupero post-parto.

              MODULO 4. Jalandhara bandha: il tratto cervicale e il diaframma vocale. Conclusione e sintesi

              Giovedì 15 giugno ore 19.10

              Con Francesco Vignotto

              In apparenza il bandha più semplice, nella pratica il più trascurato ed equivocato, Jalandhara impone un ascolto più attento e permette di chiudere il circuito con Mula e Uddiyâna.
              Jalandhara ci permetterà anche una sintesi e conclusione del percorso, con una pratica di ascolto della reciproca relazione tra tutti e tre i livelli affrontati.


              I docenti

              Francesco Vignotto

              Insegnante di yoga presso Zénon.

                Erika Pizzo

                Insegnante di yoga in gravidanza e post parto, allenamento funzionale presso Zénon.

                  Contributo di partecipazione e attestato di frequenza

                  Il contributo di partecipazione del corso (comprensivo dei 4 seminari) è di 220€. Per chi si iscrive entro il 3 maggio – versando la quota – il prezzo è agevolato a 190€.

                  Al termine del percorso – con una frequenza minima dell’80% delle lezioni – verrà rilasciato un attestato di frequenza.

                  Iscriviti o richiedi informazioni

                  Per richiedere l’iscrizione o per maggiori informazioni puoi chiamarci al 3492462987 o scriverci su Whatsapp

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                  Fronteggiare il caos con lo yoga: su ansia e controllo

                  13 Marzo 2023 by Francesco Vignotto Lascia un commento

                  Lo Yoga è efficace per fronteggiare l’ansia? Esistono due modi per scoprirlo. Il primo è estrapolarne una tecnica tra le tante che ci aiuti a ritrovare la calma, ma è bene sapere che è solo una tattica per guadagnare tempo, non una soluzione, e ha il pericolo di alimentare l’amara illusione di poter controllare le emozioni. Il secondo modo è scavare più a fondo negli strumenti filosofici e pratici che lo Yoga ci mette a disposizione per andare alla radice del caos e affrontarlo. In quest’ultimo caso, che è oggetto almeno a livello introduttivo di questo articolo, non bastano cinque minuti, quindi se volete mettetevi comodi.

                  Sulla infinitezza (Om Det Oandliga) - Un film di Roy Andersson - Ansia e controllo nello yoga

                  …non per quello che fai e forse malgrado

                  Anonimo

                  Ho appena visto un video, uno dei tanti, in cui un insegnante spiegava che per calmare l’ansia non è necessario fare un’ora di yoga, ma ne basta praticare una tecnica per cinque minuti, anche durante una crisi. Essendo un affezionato frequentatore del lato oscuro della mente, non ho potuto evitare di domandarmi: e se a tre minuti e trenta comincio ad accorgermi che non sta passando? Bisogna sempre fare attenzione a indicare l’orologio a chi si sente già schiacciato dagli eventi, e a creare aspettativa in chi ne è intossicato: può funzionare, occasionalmente e con sufficiente entusiasmo, ma la delusione nel medio periodo è inevitabile.

                  Contributi come quello appena descritto sono oggi molto popolari, complice il formato dei video brevi in cui tutto dev’essere compresso, e per necessità di cose rispecchiano lo spirito dei tempi, in cui ci piace immaginarci automi, meri esecutori di algoritmi che si suppone funzionino nel vuoto e che non vadano al di là dell’uso locale, essendo superflua – del resto non c’è tempo – ogni forma di comprensione (di cosa? ad esempio degli schemi seriali che portano inevitabilmente alla sofferenza, la quale trovando una strada sbarrata riuscirà nel tempo ovviare per altre vie: la resilienza vale anche nel farsi del male).

                  Certo, bisogna riconoscere i buoni intenti, la volontà di essere utili anche a chi non si è ancora mai accostato alle pratiche psico-corporee, fornendo degli strumenti rapidi e alla portata di tutti. Ma anche di questo principio, su cui peraltro ci sarebbe molto da discutere (apro la valvola cinque minuti per poi tornare alla mia vita insopportabile), non sarei nemmeno troppo sicuro.

                  In parecchi casi, infatti, la micropratica proposta richiede in realtà delle competenze che non sono per nulla scontate nel neofita, e che implicano un certo grado di interiorizzazione e di pratica, un orecchio quasi musicale che in pochi minuti, schiacciati dall’obbiettivo da raggiungere, non è possibile acquisire: ad esempio, la capacità di coordinare movimento e respiro, di regolare (cioè di prolungare e di rendere omogeneo) il respiro stesso o di trattenerlo per un numero precisato di secondi, fossero anche pochi, senza che l’inesperienza e la volontà di dominio non peggiorino le cose.

                  La capacità, o l’incapacità, insomma, di controllo sul proprio corpo e sulle funzioni vitali, se male intesa o male applicata può addirittura produrre nell’ansioso un aumento dei sintomi anziché calmarli: che cos’è l’ansia se non la drammatica esperienza di non poter tenere sotto controllo ciò che sta accadendo? e, risalendo ancora più a monte, di poterlo e di doverlo tenere sotto controllo? Scendendo a valle, potremo osservare come spesso sono proprio i nostri tentativi di controllare l’incontrollabile a soffiare sul fuoco.

                  Contenuti

                  • La posizione nell’ansia
                  • Quale controllo nello yoga?
                  • L’ira della Dea: fronteggiare il caos
                  • Congedo
                  • Bibliografia

                  La posizione nell’ansia

                  a picture of a person displaying despair surrounded with smoke - fronteggiare il caos: ansia e controllo nello yoga
                  Photo by Mikhail Nilov on Pexels.com

                  Le tecniche sono estemporanee: se cercando su Google le posizioni di yoga per l’ansia risulteranno sempre diverse, non è soltanto per superficialità dei redattori che spesso riciclano materiale già esistente, ma anche perché a dare sollievo è più spesso ciò che è stato occasionalmente mosso dalla tecnica. Il punto è proprio capovolgere lo schema mentale: pensare che l’ansia passi per aver fatto compulsivamente questo invece di quello è ancora farsi dominare dall’ansia.

                  Lo yoga, del resto, ha parecchio a che fare con il riconoscimento e con l’accettazione della mancanza di controllo, anzi nell’acquisire una certa disinvoltura nel lasciar correre ciò che deve camminare sulle proprie gambe, senza che per questo il mondo vada a rotoli: è l’esperienza della posizione che deve rimanere rilassata e ricettiva anche quando impegnativa; è, a maggior ragione, l’esperienza del respiro, che in quanto funzione autonoma è molto più prossimo alla Coscienza del pensiero stesso che cerca di figurarsela, la cui traduzione in ritmi predefiniti non può essere automatizzata: bisogna chiedere il permesso, al respiro, prima di prendere le redini, altrimenti si ribellerà o si darà meccanicamente, senz’anima. Una volta appurato questo, può succedere che si verifichi ciò che nell’I Ching è chiamato la preponderanza del piccolo, ovvero quando le cedevoli linee yin dominano le robuste linee yang: in questa circostanza, teoricamente sfavorevole, la tecnica serve allora per respirare poco, per impegnare poco la muscolatura, appena un’idea, ma con risonanza enorme sulla mente.

                  Pertanto, un suggerimento che darei per affrontare l’ansia è di dimenticarsi le tecniche-cerotto e dedicarsi in tempo di pace a coltivare spazi di attenzione e di meditazione, che sono i veri principi attivi di ogni pratica psico-corporea, indispensabili perché si ricavi, silenziosamente e al riparo dagli sguardi indiscreti, ciò che il buon Hervé Clerc chiama profondità strategica, ovvero zone in cui ripiegare in caso di sfondamento nemico. Di ciò, ovviamente, non è possibile né consigliabile occuparsene mentre si è sotto attacco («Quando si è di fronte a un branco di rottweiler sguinzagliati è troppo tardi per pensare alla profondità strategica. Ci si dice solo che sarebbe bello averla»).

                  Condizione indispensabile per mettere in atto il suggerimento di cui sopra, è dedicarsi alle pratiche psicocorporee senza uno scopo. D’accordo, ci accostiamo perché abbiamo il mal di schiena, perché abbiamo il fiato corto, perché siamo stati abbandonati. Ma qualunque sia la lamentela, dobbiamo posarla a terra prima di entrare nella sala pratica: di tutti i principi terapeutici questo è il più portentoso.

                  E ora un suggerimento che mi permetto di dare agli insegnanti, da pessimo collega: il sapere che non è orientato verso il non so è profano e quindi inadatto a fronteggiare l’ignoto; non c’è una posizione o una respirazione per l’ansia, ma sicuramente si può trovare una posizione nell’ansia e un respiro nell’ansia. Chi si perde nel molteplice, lo dice la parola stessa, è perduto.

                  Quale controllo nello yoga?

                  Il Mahasiddha (Grande Adepto) Chandragomin - Ansia e controllo nello yoga
                  Il Mahasiddha (Grande Adepto) Chandragomin

                  Detto questo, qualcuno potrebbe obiettare che molte tecniche dello yoga prevedono di controllare e sottoporre a restrizioni il proprio corpo (l’immobilità nell’asana, le mudra), i pensieri, le azioni (yama e niyama), la muscolatura respiratoria (bandha) l’energia vitale (pranayama), e i sensi (pratyahara). Da questo punto di vista, la dimensione che più sembra appropriata è l’ascesi, ma è anche facile cadere nel tranello: se non funziona, non è stato esercitato abbastanza il controllo. Anche popolarmente, lo yoga appare come un esercizio di governo e padronanza di sé e nelle occasioni pubbliche è considerato degno di biasimo per un praticante, non sia mai un insegnante, perdere le staffe o manifestare incontinenza. Eppur tuttavia accade, forse anche perché da qualche parte le energie messe al giogo dovranno pur trovare sfogo.

                  Prese alla leggera – ovvero: presupponendo che yoga sia un bagaglio di tecniche acquistabili separatamente dalla comprensione – queste pratiche sono potenziali armi a doppio taglio nelle mani dell’ansioso, con cui potrà rinforzare l’illusione di controllo che è invece la radice della propria sofferenza e, al subentro dell’abitudine, arriverà il disincanto e la ricerca di un’altra tecnica ancora (se invece la tecnica porta a un certo punto a una forma di comprensione – il presentimento di un cuore che può essere espresso anche altrimenti – a un certo punto la tecnica sarà superflua).

                  È quindi importante comprendere quale tipo di controllo è da intendere nello yoga, e perché in questa forma di controllo molto particolare e sottile si debba inscrivere una data di scadenza.

                  Proprio in questi giorni, girovagando alla ricerca di ispirazione, mi è capitato un vecchio articolo di Gioia Lussana, in cui si rifletteva sui significati del fare un asana. Tra i tanti spunti interessanti su cui varrà la pena tornare in futuro, ve ne è uno proprio dedicato al caso nostro:

                  La radice verbale yam ha in questo senso un ruolo preminente nella prassi yogica. Termini fondamentali come yama, niyama, samyama, come pure pranayama, sono costituiti da questa radice che evidenzia la centralità dell’elemento ‘custodia’, ‘vigilanza’, ‘difesa’, ‘cura’, ‘preservazione’ che la disciplina interiore (yoga) mette in atto. Non si tratta quindi di controllo o dominio nel senso che comunemente tendiamo a dare, quanto di ‘covare’, ‘riscaldare’, ‘nutrire’, ‘proteggere’ lo stato di unificazione interna che la prassi yogica attua. Il controllo è spesso inteso come una qualità costrittiva del percorso ascetico, senza comprenderne la più vasta portata. Yam è sostenere, tenere, reggere, stabilire, non smuovere, prima e piuttosto che: tenere a bada, frenare, controllare. In ogni caso il freno che la radice verbale prevede è all’insegna del custodire/proteggere piuttosto che dell’irrigidire/bloccare. Significa mantenere il processo stabilizzato nell’alveo che ne favorisce la libera maturazione. Proprio questa difesa custodita, che può evocare l’immagine del tuorlo nell’uovo o dell’embrione nel liquido amniotico è la caratteristica dell’asana, che favorisce l’attitudine contemplativa.

                  Ora, questo è uno di quei casi in cui un cambio di accezione non è pura questione concettuale ma si trascrive nella carne. Naturalmente il confine tra custodire/proteggere e irrigidire/bloccare è mobile e interpretabile, ma è proprio in questa dialettica tra fluidità e contenimento delle forme che, ad esempio, la vita si preserva, cresce e giunge al suo naturale compimento. D’altro canto, è proprio attraverso un’operazione di forzatura che l’agricoltore fa sì che la pianta si sviluppi, concentri i propri nutrienti e il proprio sapore in dosi di gran lunga maggiori rispetto a quanto non accadrebbe in natura; quest’operazione non prevede tuttavia l’utilizzo della forza bruta, ma l’impiego delle proprie risorse per creare un ambiente protetto quanto basta affinché ciò accada, temporaneamente al riparo dalle intemperie e dai predatori che altrimenti dissiperebbero tali sostanze.

                  E allora, tornando a noi, le tecniche dello yoga servono proprio a questo: a raccogliere, custodire e nutrire le nostre energie vitali e mentali in luoghi protetti e privilegiati finché non abbiano sviluppato quelle qualità di consistenza e di stabilità per affrontare il campo aperto (si pensi a interpretare in questo senso tecniche quali i bandha come sottile controllo dei diaframmi a sostegno delle apnee, più che come contrazioni brutali da tenere con tutte le proprie forze). A quel punto, ciò che era sostenuto sostiene, ciò che era alimentato alimenta. La tranquillità non richiede più alcuno sforzo, semmai il vero sforzo lo richiederebbe spezzarla.

                  Si potrà dire che stiamo parlando di stato dell’arte, di eventi miracolosi che si verificano solo in momenti di grazia. Ma anche alla grazia occorre preparare il terreno, attraverso la ricerca di una misura che non può essere segnata una volta per tutte con una pietra di confine.

                  L’ira della Dea: fronteggiare il caos

                  Durga uccide Raktabīja mentre Kali beve il sangue di quest'ultimo -Ansia e controllo nello yoga
                  Durga uccide Raktabīja mentre Kali beve il sangue di quest’ultimo.

                  Per andarsene da qui
                  lasciarsi cadere,
                  lasciare cadere a terra
                  ogni possibile liquido

                  Alessandro Ceni

                  Il mostro è là fuori e noi sappiamo che, se ci presentiamo in queste condizioni, avrà il sopravvento. Possiamo svuotare la cassetta dei medicinali, incollarci alla bottiglia o armarci fino ai denti come nelle sceneggiature più scontate: affidarsi a una tecnica di yoga può rientrare nelle fattispecie appena elencate e in questo caso tutto accadrebbe secondo il copione, per il quale la tradizione indiana aveva un termine preciso: samsara. Il fatto è che neanche rifiutando la parte che ci è stata assegnata ci sottraiamo al moto perpetuo del divenire.

                  Non andrà tutto bene. Per esperienza, niente è mai andato bene perché qualcuno lo ha ripetuto come una giaculatoria. Non è una pia menzogna, ma qualcosa forse di più miserabile: è una fuga. Grandi uscite a veder le stelle sono invece avvenute di fronte alla consapevolezza che la situazione volge al peggio, che la fine è una possibilità. Ovviamente, lo è anche la follia. Tuttavia, se non si riconosce che c’è bellezza nel tremendo – a cui non a caso, dalla tragedia greca al tantrismo hindu sono associate virtù catartiche – non è possibile evadere dalla miseria della paura.

                  Le grandi tradizioni, l’idea stessa del Divino, la saggezza più profonda sono solo molto superficialmente dei sostegni per vivere in pace con sé stessi e al riparo da punizioni in questa o in altra vita. A un livello appena più profondo, ci istruiscono su come rapportarci col nostro nulla e con le potenze che abitano nel cosmo come nelle cellule del nostro stesso sangue. Il mostro, ammesso che sia tale, non è detto sia là fuori, ammesso che ci sia un fuori.

                  Come illustrato da Małgorzata Sacha in un bellissimo saggio, l’ira della dea è il mitologema che condensa nella tradizione hindu la complessa questione delle passioni e del loro potenziale distruttivo. Vale la pena quindi ricordare l’incontrollabile danza di Kali, che nella lettura tantrica è anche signora della trasformazione, non solo dell’annichilimento. La sua ira si manifesta ogni qual volta la sua volontà incontra un ostacolo, la sua energia è stata troppo a lungo compressa.

                  Kali calpesta il cadavere di Śiva - Ansia e  controllo nello yoga
                  Kali calpesta il cadavere di Śiva

                  Ancora più pertinenti ai temi qui trattati sono le strategie per fare fronte all’ira della dea, che rischia di distruggere i mondi: propiziazione, attraverso il sacrificio; sfida, attraverso un confronto attivo; o, infine, la resa: Śiva si getta tra i cadaveri o si trasforma in lattante risvegliando in Kali il pudore della moglie nel primo caso, l’istinto della madre nel secondo.

                  È quindi per una pura associazione di idee di cui mi prendo tutta la responsabilità che associo per analogia queste strategie alle tre vie (upāya) dello Sivaismo del Kasmhir medievale: la via dei mezzi (che oggi chiameremo delle tecniche), la via potenziata o dell’energia, e infine la via divina o diretta. Come ogni analogia, è imperfetta, soprattutto per quanto riguarda l’opzione mediana, ma proprio questo imperfetto combaciare arricchisce l’accostamento.

                  Vista sotto la luce della prima strategia, la più a portata di mano, la tecnica non cerca di controllare l’incontrollabile, ma attraverso di essa cedo una parte di me, concretamente o simbolicamente, in cambio della benevolenza della potenza distruttrice, e chiedo di rinascere (è interessante come già nel Vedanta il pranayama fosse a volte narrato in termini di rito sacrificale, in cui la mente ricopre il ruolo di officiante). Se volessimo disporre queste tre strategie su una scala gerarchica o temporale, ciò conduce quindi alla possibilità di assistere da spettatore all’onda dello sconvolgimento emotivo trovandovi il suo nucleo di pace e infine di arrendersi ad esso.

                  Anche se è la strategia più azzardata e impervia – ogni esitazione sarebbe fatale – la resa incondizionata provoca l’immediata cessazione del conflitto per il venir meno di ogni parte in causa: ma allora chi o cosa deve essere sacrificato, e a chi?

                  Congedo

                  Il dramma si scioglie non quando il mostro viene ucciso, perché sappiamo che ne arriveranno altri, e perché dobbiamo riconoscere che la lotta è impari; il dramma, in verità, si scioglie quando l’eroe acconsente a sacrificare il suo ruolo. Le pratiche servono in tempo di pace, perché si arrivi al giorno fatale che è ogni giorno a mani nude.

                  Dopo tutto questo parlare, però, manca la risposta alla domanda con cui si è concluso il paragrafo precedente, che potremmo anche riformulare: chi ha paura? e di chi o cosa ha paura? Per rispondere, ci vuole un vecchio rompiscatole come Jiddu Krishnamurti:

                  Mentre osservate, vi rendete conto che l’osservatore è semplicemente un fascio di idee e di ricordi senza alcuna validità o sostanza, ma vi rendete anche conto che la paura è una realtà e che voi tentate di comprendere un fatto reale con una astrazione, cosa che, naturalmente, non potete fare. Ma, in realtà, l’osservatore che dice “Ho paura” è separato dalla cosa osservata cioè dalla paura? L’osservatore è la paura e quando lo si comprende non c’è più alcuno spreco di energia nel tentativo di sbarazzarsene e l’intervallo spazio-tempo tra l’osservatore e la paura scompare. Quando vedete che siete parte della paura, che non ne siete separati che voi siete la paura allora non potete farci più niente; allora la paura giunge totalmente alla fine.

                  J. Krishnamurti, Libertà dal conosciuto, Astrolabio

                  “Respiro solo dimenticandomi di me” scriveva molto più sinteticamente l’immenso Philippe Jaccottet, poeta recentemente scomparso, in Passeggiata sotto gli alberi, un libro che è in sé una cura proprio perché non si propone di medicare nulla: e non c’è forse migliore indicazione su come accostarsi a una pratica Yoga.

                  Bibliografia

                  • Hervé Clerc, A Dio per la parete Nord, Adelphi, 2016
                  • Gioia Lussana, I significati dell’Asana nello Yoga, 2012
                  • Alessandro Ceni, Mattoni per l’altare del fuoco, Jaca Book, 2002
                  • Małgorzata Sacha, “L’ira della dea”, in Passioni d’Oriente, a cura di Raffaele Torella e Giuliano Boccali, Einaudi, 2007
                  • Jiddu Krishnamurti, Libertà dal conosciuto, Astrolabio-Ubaldini, 1973
                  • Philippe Jaccottet, Passeggiata sotto gli alberi, Marcos y Marcos, 2021
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                  Archiviato in:Articoli, filosofia, Poesia Contrassegnato con: Alessandro Ceni, ansia, Gioia Lussana, hathayoga, Hervé Clerc, Jiddu Krishnamurti, Kali, Philippe Jaccottet, tantra, yoga, yoga Novara

                  Non siamo più in grado di fare molte posizioni di yoga, e forse non è un male

                  15 Dicembre 2022 by Francesco Vignotto 2 commenti

                  Le posizioni di yoga più iconiche, come sirsasana, paschimottanasana, per non parlare delle ambitissime capovolte sulle mani, sono oggi impraticabili per la maggior parte delle persone che si rivolgono a questa disciplina, a meno di non scendere a significativi compromessi e adattamenti. Ci dobbiamo stupire di questo scollamento tra ciò che appare sui social e ciò che è nella realtà? Ovviamente no, ma questo ci offre lo spunto per una riflessione su come il vero problema non sia raggiungere un obiettivo, ma orientare le proprie energie in una direzione, e percorrerla.

                  “Qual è lo scopo di tutto questo?”
                  “Che io possa conoscere il prāṇa.”

                  da Krishnamacharya in His Own Words, a cura di A. G. Mohan e Ganesh Mohan

                  Esisterà ancora, come sembra da certi annunci, qualcuno che si iscrive a un corso di yoga per togliersi la soddisfazione di fare la spaccata a quarant’anni suonati. La realtà dei fatti, però, è ben diversa, e chi insegna questa disciplina potrà riconoscersi in quanto segue con la sua statistica, personale ma a suo modo significativa: per la gran parte delle persone che si rivolgono allo yoga, oggi, molte delle posizioni più iconiche non sono realizzabili né lo saranno dopo uno, cinque, dieci anni di pratica se non con molti adattamenti e molta fantasia.

                  Se vogliamo essere proprio onesti, tali posizioni – almeno nella loro rappresentazione comune, ‘instagrammabile’ – non sono spesso nemmeno auspicabili, dato che potremmo anche portare a casa il risultato con qualche forzatura in apparenza innocente ma non priva di conseguenze.

                  Potrebbe apparire una considerazione scoraggiante e già sembra di avvertire il retropensiero di molti praticanti di lunga data: che un tempo lo yoga… che una volta… che la gente non è più disposta… 

                  In realtà, è vero che i praticanti di venti-trenta anni fa, molto meno numerosi, erano il risultato di una selezione a monte, basata in parte sulla determinazione (per fare yoga dovevo percorrere parecchi chilometri dopo una giornata di lavoro, tornare tardissimo e spesso saltare la cena; oggi è sufficiente colmare la distanza che separa il mio pollice dalla miniatura del video su Youtube). Non possiamo tuttavia nasconderci che, data la scarsa flessibilità degli stili allora più diffusi e degli insegnanti forgiati in quella disciplina, spesso la selezione avveniva anche su criteri di abilità. Non pochi rimanevano tagliati fuori per semplici motivi di conformazione fisica, o si dovevano adattare a un vestito molto scomodo con pochissime possibilità di adattamenti, con scarsa soddisfazione e magari qualche danno collaterale; non pochi, di conseguenza, concludevano di non essere tagliati per lo yoga perché non erano in grado di eseguire una posizione, o perché la propria colonna vertebrale non poteva subire certe sollecitazioni.  

                  Ora che lo yoga invece è o dovrebbe essere per tutti, nel male (leggi: massificazione e spesso banalizzazione) e nel bene (leggi: accessibilità a insegnamenti alternativi e possibilità di maggior approfondimento), ci accorgiamo che poche persone sono in grado di eseguire il loto e farne una postura stabile, poche, pochissime, sia per ragioni strutturali muscolo-scheletriche, sia di attitudine mentale, hanno i requisiti per eseguire la posizione sulla testa, e quasi nessuno le ambitissime capovolte sulle braccia. 

                  Ma l’eventualità di inserire una di queste posizioni in una lezione ‘per tutti’ è comunque remota. La realtà è che per molte persone anche posizioni considerate di livello base, come il piegamento in avanti di paschimottanasana, richiederà qualche adattamento, a volte anche a prescindere dall’età e dallo stato di salute generale. 

                  Ebbene, secondo i criteri ‘tradizionali’ basati sull’abilità (e per tradizionali intendo non secoli, ma i pochi decenni in cui lo yoga è diventato globale, ripetiamo: nel male e nel bene), i molti appena descritti si troverebbero su un gradino inferiore a guardare con ammirazione i pochi abili eletti. Ma, ironia della sorte, di quei pochi eletti, una buona parte molto spesso non sarà in grado di andare oltre il risultato fisico. Insomma, è molto raro – parlo per esperienza personale – che un impeccabile praticante di āsana sia anche un allievo interessante, perché come il bambino non abituato a ricevere dei ‘no’, non incontrando alcun limite significativo dal proprio corpo, non può superarlo (che poi il problema sia più spesso che non ci si accorge del limite, è un discorso affrontato altrove). Per questo, accade anzi che una postura accomodata e parziale diventi il supporto per scoperte molto più stimolanti: chi sa arrendersi al proprio limite, proprio per questo non ha limite.

                  Non è quindi detto che sia un peccato che certe posizioni siano ormai quasi sempre fuori portata, per lo meno nella versione standard, o che non si riesca a farle affatto. Può anzi darsi che sia invece un’occasione per indagare su ciò che è davvero essenziale nel fare un āsana, e nello yoga in generale: già, ma cosa?  

                  Lasciamo per il momento in sospeso la domanda e, nel frattempo, mi soffermerei su un dato, non irrilevante per quanto detto più sopra: la gran parte di chi si rivolge allo yoga, oggi, soffre. Soffre di una o più patologie, o di una sindrome, o di un malessere non ancora nominato, che magari non lo ucciderà nel breve periodo, ma che ha trasformato la sua vita un combattimento ininterrotto. E, quando si rivolge allo yoga, non è solo perché – come sempre più spesso accade – glielo ha consigliato il medico o lo psicologo: è perché intuisce – consciamente o meno – che qui può trovare un modo per deporre le armi. 

                  Lo yoga serve a conoscere il nostro funzionamento, non in teoria, non con una spiegazione, ma in presa diretta. Come reagiamo alle situazioni, al cibo, alle paure, come il corpo anticipa o subisce la scia di ciò che temiamo o avversiamo. Come il precipitarsi verso ciò che desideriamo – fosse anche un āsana – porta molto spesso alla perdita del godimento più vero, oltre a causarci spesso qualche grattacapo. È imparare ad agire, o non agire, di conseguenza, lasciando uno spiraglio a quell’imponderabile che, pur non avendo alcun significato, rende significativa l’esistenza.

                  E a proposito dell’imponderabile e della domanda che abbiamo lasciato in sospeso: è da poco uscito un piccolo volume dal titolo Krishnamacharya in his own words, una selezione degli appunti che A. G. Mohan prese durante la quasi ventennale frequentazione del suo maestro, di cui fu allievo dal 1970 fino alla di lui morte avvenuta nel 1989. Forse a chi conosce i discepoli del tardo Krishnamacharya questo libretto non dirà nulla di nuovo, eppure si tratta di un documento molto interessante per comprendere ancora meglio quanto già si sapeva: che colui che è oggi celebrato come ‘il maestro dei maestri’, per avere formato negli anni ’30 gli insegnanti che hanno di fatto inventato lo yoga moderno globalizzato, appartenesse in realtà a un altro mondo. Sia per erudizione, che per spessore e per sensibilità.

                  “Gli āsana dovrebbero essere praticati a seconda delle condizioni fisiche di ognuno […] Non tutti devono fare tutti gli āsana, né tutti gli āsana devono essere sempre eseguiti” leggiamo a pagina 15, e già basterebbe. Ma più che le maniacali elucubrazioni sugli allineamenti corporei dei suoi primi e molto più famosi allievi, al centro degli insegnamenti di Krishnamacharya sullo yoga c’è il prāṇa. Ma che cos’è prāṇa? È il fondamento della vita che nasce dalla coscienza, è ciò che non si vede, ma “protegge l’universo”, che se vogliamo è anche il nostro corpo. Attraverso la pratica dello yoga, prāṇa diventa oggetto di esperienza e, chissà, contribuire a diradare le nebbie che avvolgono il vero soggetto dell’esperienza. Per cui potremmo dire che lo Yoga parte dal visibile ma per rivelare l’invisibile, per restituire la vista a occhi atrofizzati e abbagliati.

                  Saper andare oltre il visibile sarà sicuramente la sfida per lo yoga nei prossimi anni, almeno per quello che saprà – e sono sicuro che lo saprà – non farsi soppiantare da qualcosa di più smart e alla moda. Intanto, se lo pratichiamo o cerchiamo di insegnarlo, ricordiamoci di questo: stabilire le fondamenta della pratica in ciò che non si vede.

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