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yoga

Meditazioni per non uscire dal mondo

5 Settembre 2016 by Francesco Vignotto Lascia un commento


Contenuti

  • Così lontani, così vicini
  • Palla al centro: sedersi e dimenticare
  • Uno sguardo sul vuoto
  • Consapevolezza e concentrazione, compassione e vacuità
  • Attraverso il corpo o senza il corpo
  • L’io è un pensiero come un altro
  • La vita né attiva, né contemplativa
  • Non meditare!
  • Piccola conclusione: tornare al mercato

Così lontani, così vicini

Puoi tenerti lontano dalle sofferenze del mondo, sta a te deciderlo e corrisponde alla tua natura, ma forse è proprio questo tenertene lontano l’unica sofferenza che potresti evitare.

Franz Kafka

Diverse persone mi hanno descritto esperienze straordinarie vissute durante la meditazione. Non necessariamente fenomeni sovrannaturali, ma la consapevolezza che ogni cosa appariva finalmente per quello che era e al suo posto per come era.

Quello che mi ha sempre colpito è che quasi tutte confessavano l’impossibilità di mantenere quella stessa consapevolezza al di fuori di quelle finestre esperienziali durante la pratica. Quanto al fatto che quelle finestre si fossero aperte, si dimostrava ben presto opera di una folata di vento, invece che merito del meditante. Frustrazione su frustrazione: il ritorno alla “vita comune” risultava ancora più ottusa e deludente.

A dire il vero, confesso che anch’io ho vissuto qualche exploit in cui ho creduto di avere afferrato il bandolo della matassa dell’esistenza, per poi scontrarmi sanguinosamente con la realtà terrena, che per contrasto proprio in quei momenti reclama i propri diritti con aumentata veemenza.

Ritieni di esserti sopraelevato sulle sofferenze del mondo – nello specifico, le tue – e ti sembra di camminare a parecchia distanza da terra, finché il primo sgarbo del vicino o un rifiuto da parte della vita ti richiama alla forza di gravità, con danni proporzionali all’altezza a cui ti sentivi librare.

Non è certo granché, ma con il tempo ho imparato ad accettare una piccola cosa che ritengo molto importante: quello schiaffo in faccia da parte della vita è non solo inevitabile, ma anche benedetto, perché ti ricorda che non è così che funzionano le cose. Non tutti sono così fortunati da riceverlo prima di mettersi in testa idee molto strane.

Vi sono numerosi errori in gioco, primo tra i quali appropriarsi dei meriti di questi exploit e attribuire a cause esterne la colpa delle cadute. Ma il punto fondamentale è che tutti vorremmo vivere in uno straordinario idillio di pace, escludendo la melma della trivialità di tutti i giorni.

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In altre parole, accettiamo i picchi e rinneghiamo le valli, trascurando che nella pace privilegiata dell’alta quota non cresce granché di utile alla sussistenza: proprio per questo siamo condannati come Sisifo a lasciar rotolare giù la pietra e a dover risalire ogni volta la china con gran fatica.

Ora, per quanto ci riguarda l’argomento è delicato, perché alcune tradizioni hanno affermato in modo categorico che la meditazione serve a ritrarsi da un mondo che è pura illusione, e dimorare nell’assoluto. Eppure, finché ne sentiamo gli schiaffi in faccia, con questo mondo e con le sue bollette da pagare dobbiamo giungere a un concordato.

Altre tradizioni più pragmatiche hanno invece osservato che la vetta e la valle sono due poli della stessa realtà, e finché si rifiuta un lato della medaglia si è condannati a rimbalzare da un polo all’altro: la meditazione deve penetrare quindi entrambi gli stati.

Come vedremo in questo articolo, l’opposizione tra queste due visioni è solo relativa, e dipende in gran parte da questioni pedagogiche. Tuttavia, per arrivarvi, dobbiamo intraprendere un viaggio armandoci di un po’ di pazienza prima di giungere a conclusioni affrettate.

O Dio supremo! Tu che ti orni di un tridente e di una ghirlanda di teschi, come raggiungere l’assoluta pienezza della Shakti che trascende tutte le nozioni, tutte le descrizioni e abolisce tempo e spazio? Come realizzare questa non-separazione dall’universo?

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Palla al centro: sedersi e dimenticare

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Intendiamoci innanzitutto su un concetto fondamentale: quando parliamo di meditazione, quasi sempre intendiamo l‘esecuzione formale di una particolare tecnica, ma la meditazione propriamente detta è uno stato che non è necessariamente la conseguenza logica di un atto.

Ciò non significa che la tecnica sia inutile, anzi è una preparazione indispensabile: significa in primo luogo che la meditazione non riguarda soltanto il momento in cui “meditiamo”; in secondo luogo, che non siamo noi a decidere quando si entra in meditazione: è qualcosa che avviene, e accade più spesso spontaneamente e quasi mai per forzature.

Proprio come il Cavaliere Inesistente di Calvino, la mente ha bisogno di esercitare una costante attività per conservare la percezione di esistere in modo autonomo. Solo quando questa attività si dirada si creano le condizioni perché emerga lo strato sottostante, in cui l’idea di una identità congruente si dimostra relativa. In altre parole, ci dimentichiamo almeno per un momento chi siamo, ovvero che il collega ci ha fatto un dispetto, che il padre ci ha cresciuto male, che il coniuge è un idiota: l’idea di essere qualcuno o qualcosa appare insomma in tutta la sua contraddizione.

Siccome abbandonare una dipendenza è molto difficile, occorre più spesso procedere per gradi e quindi esistono diverse tecniche. Potremmo dire che qualsiasi tecnica di meditazione è un modo per tenere occupata la mente (ad esempio, con l’attenzione sul corpo e sul respiro) mentre si preparano le condizioni perché questa “dimenticanza” si verifichi. Ovviamente ogni tecnica ha anche un significato e una funzione peculiare, ma oltre al fare occorre affiancare il ben più importante lasciar fare, finché potremo abbandonare il primo e abbandonarci completamente al secondo.

Pertanto, non ci si deve scoraggiare se, soprattutto inizialmente, la mente è incostante e occorre più volte riportarla all’ordine: non conta la perfezione della tecnica, ma il fatto che nella congestionata trama della sua agitazione comincino a manifestarsi degli spiragli.

Anche quando usciamo a correre o potiamo la vigna incorriamo nella possibilità di “svuotare la mente” e queste stesse attività possono essere trasformate e potenziate in meditazione, in quanto la meditazione riguarda più l’attitudine che la tecnica.

Tuttavia, la tecnica meditativa di base più comune – ma, beninteso, non l’unica – prevede l’immobilità nella postura seduta. Questa pratica è antica come il mondo ed è presente in moltissime tradizioni come mezzo per rivolgere la mente a osservare sé stessa, acquietando qualsiasi attività volontaria sia fisica sia mentale. È un passaggio fondamentale per ridurre al minimo la reattività sia agli stimoli interni che a quelli esterni.

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Il sigillo di Pashupati rappresenta il Signore degli animali, forma primordiale di Shiva, in posizione meditativa seduta. Il reperto è stato trovato nel sito archeologico di Mohenjo-daro è una delle testimonianze della Civiltà della Valle dell’Indo risalente al III secolo a.C.1Da notare che una raffigurazione molto simile è visibile in uno dei reperti del Calderone di Gundestrup (nell’odierna Danimarca), risalente al periodo tra il II secolo a.C. e il III secolo d.C.

Lo zazen, ossia l’interpretazione Zen di questa pratica, vale la pena di essere citato per la sua essenzialità e per il fatto che, a differenza di altre versioni più progressive che prevedono diversi livelli di pratica, mira a un’esperienza immediata della meditazione:

Si siede sul cuscino (detto zafu), nella posizione del loto o del mezzo loto, con le ginocchia premute a terra e la sommità del capo ben eretta verso il cielo; la colonna arcuata con la quinta lombare spinta in avanti; l’addome completamente rilassato, il collo dritto e il mento spinto all’interno. Si è come un arco teso la cui freccia è la mente. Sedendo in questa postura, senza meta o desiderio di guadagno, mantieni gli occhi fissi circa un metro davanti a te; gli occhi guardano il nulla. La mano sinistra è posata nella destra con i palmi verso l’alto, i pollici uniti come l’orizzonte ‘né montagne né valli’, le spalle affondano naturalmente e la punta della lingua è contro il palato: questa è la postura. Il respiro gioca un ruolo primordiale. Concentrandosi sull’esalazione più lunga possibile, mentre l’attenzione è focalizzata sulla postura, l’inalazione avviene naturalmente. Le idee-immagini che passano attraverso la mente e i pensieri inconsci che sorgono non devono essere fermati o conservati durante lo Zazen. 2Daniel Odier, Meditation Techniques of the Buddhist and Taoist Monks, Bear & Co, 2003 https://www.scribd.com/read/230486661/Meditation-Techniques-of-the-Buddhist-and-Taoist-Masters

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Lo Zen (Chan) è una tradizione buddhista sviluppatasi prima in Cina e poi in Giappone. Il nome stesso Chan deriva dal sanscrito dhyana, ossia “meditazione”, che intende come un mezzo per il satori, ossia il riconoscimento spontaneo della realtà, in cui non c’è differenza tra l’io che osserva e ciò che è osservato.

Il richiamo alla spontaneità, del resto, rivela che lo Zen è altrettanto figlio del Taoismo, in cui del resto ricorre la pratica  del “sedersi nell’oblio”:3Per i rapporti tra Taoismo e Buddhismo si veda il nostro articolo Il mondo è un recipiente sacro e non si può governare

“Che cosa intendi dicendo che ti siedi e dimentichi tutto?”
Yan Hui rispose: “Che mi spoglio del mio corpo, cancello i miei sensi, abbandono ogni forma, sopprimo ogni intelligenza, mi unisco con colui che abbraccia tutto, ecco quello che intendo dicendo che mi siedo e dimentico tutto”.
Zhong-ni concluse: “L’unione con il grande tutto esclude ogni particolarità, evolversi incessantemente esclude qualsiasi fissità. Tu sei veramente un saggio. D’ora in poi ti seguirò.

Zhuang-zi (Chuang-tzu), VI

Lo Zen, tuttavia, tenendo fede alla sua natura irriverente e iconoclasta, ha molte volte irriso la pratica stessa della meditazione seduta con la quale viene spesso identificato, perché ancora troppo carico di intenzione e di formalità. Del resto, la confusione tra il mezzo e il fine è il tema espresso dalla famosa rana del maestro Sengai Gibon (1750-1830):

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Se un uomo diviene un Buddha sedendo in meditazione…
(io, anche se sono una rana, avrei dovuto diventarlo molto tempo fa)

Zhuang-zi (Chuang-tzu), VI

Daisetz T. Suzuki commenta questo Haiga4L’haiga è una forma espressiva giapponese che combina la pittura con la poesia haiku.: “Se lo zen si fonda soltanto sulla postura della meditazione, allora è certo che la rana raggiungerà la buddhità. Ma lo zen non è semplicemente stare a sedere. Essenziale è il risveglio dell’inconscio o mente.”5Il maestro zen Sengai: poesie e disegni a china, a cura di Daisetz T. Suzuki, Guanda, 1988

Ma allora, cos’è questo qualcosa che può accadere durante la meditazione, ma non è garantito che accada?

Uno sguardo sul vuoto

Grazie alla vibrazione, l’oggetto della percezione vibra nel cuore del vasaio poiché esso è tutt’uno con la coscienza del sé di quest’ultimo.

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Zhuangzi contempla una cascata

Riguardo alla meditazione si parla spesso di uno “stato naturale“. In un certo senso,  meditare è regredire al di qua del pensiero analitico e discorsivo e dell’autocoscienza.

In altre parole, potremmo dire che la meditazione si verifica quando la mente è sufficientemente calma da entrare in risonanza con la sua essenza, il ‘recipiente’ che la contiene, che spesso è descritto in termini di Vacuità, Mente, Tao, Sé.

Questo “recipiente” non è afflitto dai continui mutamenti dei fenomeni né ai processi psicologici: è il presupposto grazie a cui essi si manifestano come lo spazio è il presupposto necessario per il movimento, solo che non esiste reale distinzione tra lo spazio stesso e ciò che vi si muove. È la Coscienza stessa che prescinde dai contenuti e dal senso di un “io” (ma su quest’ultimo punto torneremo più avanti).

Attenzione: come ogni metafora, anche il termine “recipiente” è imperfetto, in quanto suggerisce un limite che in realtà non c’è. Ogni parola, del resto, segna una linea di confine che non ha valore assoluto, anche se rischia di legare alla forma.

Padmasambhava (VIII sec. d.C.) è il fondatore del Buddhismo Tibetano.
Padmasambhava (VIII sec. d.C.) è il fondatore del Buddhismo Tibetano.

Come avverte Tilopa, maestro del Buddhismo Tantrico vissuto nell’XI secolo:

Si definisce “vuoto” lo spazio, ma lo spazio è indicibile.
Similmente, la propria coscienza è detta “chiara luce”, tuttavia in essa non c’è nulla che possa essere definito dicendo “è così”6Tilopa, Mahamudra (Il Grande Sigillo)

E prima di lui Padmasambhava:

Questa mente unica che penetra ogni vita e ogni liberazione
non è riconosciuta benché sia la nostra natura fondamentale.
Il suo flusso è costante, ma noi lo ignoriamo.
La sua intelligenza luminosa e priva di imperfezioni non è percepita
benché emerga da tutte le cose.
(…)
La Mente, in questa luminosa consapevolezza assoluta,
esiste e non esiste contemporaneamente!
È la fonte del piacere, del dolore e della libertà.
Gli insegnamenti la chiamano Realtà della Mente,
Se, o non-Sé,
Mente innata,
Natura assoluta,
Grande Sigillo,
Liberazione naturale,
Perla luminosa,
la Base e l’Ordinario.
Questa realizzazione ha tre porte:
l’assenza di tracce, la chiarezza e lo spazio7Padmashambava, La liberazione attraverso la visione nuda della natura dello spirito

In qualsiasi caso, entrare in meditazione (sempre che “vi si entri”) non implica che le cose in noi o attorno a noi cambino, ma che cambi il nostro stato di coscienza riguardo ad esse e a noi stessi.

Consapevolezza e concentrazione, compassione e vacuità

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Come abbiamo visto in un articolo di un paio di anni fa, il Buddhismo ha una visione apparentemente molto negativa dell’esistenza, di cui considera soprattutto la sofferenza che la affligge. Anche la felicità, essendo soggetta a decadenza, è sua volta fonte di dolore.

In realtà, a uno sguardo più approfondito, il problema fondamentale si rivela l’attaccamento agli oggetti dei desideri, perché anche quando vengono ottenuti sono destinati necessariamente a decadenza.

La meditazione è quindi uno dei mezzi sviluppare un atteggiamento compassionevole ma distaccato e privo di aspettative verso i fenomeni normalmente vissuti con totale identificazione, rinunciando a qualsiasi punto di appoggio tranne che nella vacuità.

Per questo la meditazione è il culmine dell’ottuplice sentiero che racchiude l’insegnamento originario del Buddha Siddharta Gautama: retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retto modo di vivere, retto sforzo, retta consapevolezza (sati), retta concentrazione (samadhi).

Sati e samadhi riguardano propriamente la pratica meditativa e, come si può notare dalla progressione, devono essere accompagnati da una solida disciplina morale e psicologia. Consapevolezza significa osservazione senza giudizio del corpo e del respiro, delle sensazioni fisiche e dei processi interni, dei pensieri e delle emozioni, degli elementi che compongono la mente e il corpo.

La concentrazione consiste nel focalizzare la mente  su un oggetto, fino a che soggetto e oggetto non si fondono. Perché ciò avvenga, la concentrazione dev’essere duratura e stabile: è un processo che richiede costanza e un’incrollabile determinazione, perché la mente tende per sua natura a vagare.

La consapevolezza e la concentrazione sono dei mezzi per deframmentare una mente che allo stato normale è dispersa in mille rivoli spesso in conflitto tra loro, anticipando il futuro in base alle esperienze passate, ma incapace di cogliere il presente che scorre sotto i suoi occhi.

Il maestro indiano Tilopa (988 – 1069), è considerato il primo patriarca della tradizione Kagyu del Buddhismo Tibetano. A lui si deve il celebre Mahamudra, ossia un metodo immediato per conseguire l'illuminazione.
Il maestro indiano Tilopa (988 – 1069), è considerato il primo patriarca della tradizione Kagyu del Buddhismo Tibetano. A lui si deve il celebre Mahamudra, la non-via immediata di conseguimento dell’illuminazione.

Dissolvendo il dualismo della relazione soggetto-oggetto, la meditazione permette di risalire alle cause e realizzare la vacuità al tempo stesso dell’ego del soggetto e dell’oggetto, liberando dalla dualità fondamentale dell’essere e del non essere: dobbiamo ricordare che per il Buddhismo tutto è impermanente.

L’oggetto della concentrazione può essere anche un sasso, o la fiamma di una candela, un concetto astratto, oppure la visualizzazione di un’immagine o di un simbolo. L’esercizio della concentrazione può vertere al tempo stesso sul respiro naturale o sul respiro ‘guidato’, sulla vacuità sostanziale della mente, escludendo sistematicamente ogni pensiero alla radice nel momento stesso in cui sorge; o, ancora, sulla recitazione di mantra o sulla visualizzazione molto elaborate di mandala o di divinità tanto care al Buddhismo tantrico: il repertorio delle tecniche nella meditazione buddhista è pressoché sterminato.

Tuttavia, il Buddhismo ha molte anime, e come abbiamo già visto nei riguardi dello Zen, accanto a metodologie progressive contempla anche anche istanze più dirette, secondo le quali l’esercizio stesso della concentrazione può risultare un artificio.

Per questo, Tilopa ammoniva non solo di non pensare, né di analizzare, né di anticipare, ma anche di non meditare, mantenendo la mente nel suo stato naturale: la meditazione, insomma, deve presentarsi spontaneamente e non-intenzionalmente, “senza cercare di creare artificialmente l’esperienza stessa del vuoto mentale e senza cercare “di afferrare la meditazione come fosse un qualche oggetto solido”.8Khenchen Thrangu Rinpoche, An Ocean of the Ultimate Meaning: Teachings on Mahamudra

Attraverso il corpo o senza il corpo

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Gli Yoga Sutra di Patanjali prevedono l’arresto (nirodah) delle fluttuazioni della mente, intese qui come schemi circolari ripetitivi che ne celano lo stato naturale. Il processo per ottenere questo risultato è per ascesi: prevede di ritirarsi progressivamente dalle esperienze esterne e man mano di abbandonare anche i contenuti della conoscenza che derivano dalla meditazione stessa per giungere alla pura Coscienza o Purusha.

Il cammino, come quello buddhista, è articolato in otto membra e comprende delle osservanze e delle restrizioni morali (Yama e Niyama). Asana e Pranayama, come abbiamo visto in un articolo precedente, sono il superamento stesso della corporeità e dei soffi vitali, mentre Pratyahara è l’introversione dei sensi verso la mente, anziché verso il mondo esteriore.

Anche la fase finale, quella più propriamente meditativa, riecheggia quella buddhista e prevede la concentrazione su un punto (Dharana), la costanza del flusso di coscienza, con l’esclusione dei pensieri estranei (Dhyana) e infine la fusione con l’oggetto (Samadhi). Nonostante queste ultime tre fasi possano essere dirette su oggetti particolari per ottenere poteri psichici, è con l’eliminazione dell’oggetto stesso che si ottiene la totale cessazione degli schemi della mente.

Molto citati quale base teorica dalle scuole di Yoga moderne ma poco praticati e poco praticabili in un contesto come quello contemporaneo, gli Yoga Sutra propongono essenzialmente un percorso di negazione del mondo – senza peraltro la dimensione della compassione centrale nel Buddhismo – che non è condivisa da tutte le tradizioni yogiche. Negando, lascia dietro di sé una “altra parte”.

Eric Baret ha espresso in modo piuttosto colorito le implicazioni di questa visione:

Quando la persona ha purificato il suo psichismo, il suo corpo, può raggiungere questo stato menzionato negli Yoga Sutra, che è il “blank state”.
Questo stato assomiglia un po’ a quello di un asino nella sua cella. Dovunque si gira vede bianco. È spesso il risultato della via progressiva. Vede solo bianco. È sempre un asino. Ha purificato il suo corpo, il suo psichismo. C’è tranquillità. E questa tranquillità è ancora un oggetto. Crede a questo oggetto indipendentemente dal soggetto che lo percepisce, e a causa di questo non può esserci riassorbimento. Bisogna che abbia la grazia d’incontrare un istruttore che si sia stabilito lui stesso al di là del “blank state” per poter rompere questo circolo.9Eric Baret, Lo Yoga tantrico del Kashmir, Om Edizioni, 2016

Matsyendranath, il leggendario fondatore dell'Hatha Yoga, considerato un santo nella tradizione Buddhista e Induista, che emerge dal pesce nel cui ventre, secondo una delle tante versioni, passò numerosi anni apprendendo da Shiva in persona i segreti dello Yoga.
Matsyendranath, il leggendario fondatore dell’Hatha Yoga, considerato un santo anche nella tradizione Buddhista e Induista, che emerge dal pesce nel cui ventre, secondo una delle tante versioni, passò numerosi anni apprendendo da Shiva in persona i segreti dello Yoga.

Sono convinto che i metodi dell’Hatha Yoga non siano semplicemente un segmento preparatorio del percorso descritto dagli Yoga Sutra, come vorrebbero molte vulgate correnti, bensì possano essere considerate un percorso autonomo.

Estraneo alle restrizioni morali di Patanjali (che collocano quest’ultimo in un contesto religioso), nell’Hatha Yoga vige il principio tantrico per cui l’unico modo di superare le restrizioni della conoscenza sensibile e della corporeità è attraverso i sensi e il corpo stesso.

I presupposti della concentrazione sono dunque generati somaticamente. Asana, Pranayama e Mudra (questi ultimi assenti nella trattazione di Patanjali) diventano così molteplici tecniche per decondizionare la mente attraverso il corpo e i soffi vitali.

E sebbene sia il pranayama il principale ponte verso il samadhi, anche la pratica di alcune asana archetipiche, quali ad esempio sarvangasana, sirshasana o paschimottanasana, può già da sé risolversi in meditazione, a patto di una pressoché completa distensione, e un tempo prolungato di mantenimento: condizioni che non sempre sono realizzabili nei contesti moderni di pratica, e non sempre rientrano negli obiettivi di una pratica fisica.

Quanto detto in questo paragrafo, ovviamente, risente della mia personale opinione ed esperienza, conscio che esistono visioni molto differenti in tema.

L’io è un pensiero come un altro

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Comunque stiano le cose, non possiamo evitare una questione fondamentale: il senso dell’io.

Siamo abituati per educazione religiosa e per pregiudizio culturale a considerare l’anima individuale – o, in una prospettiva più laica, un io costante – come la parte più spirituale dell’essere umano.

A questo proposito giova ricordare che, a differenza della psicologia occidentale e di gran parte delle religioni monoteiste, le filosofie orientali attribuiscono al sé individuale un carattere transitorio e interdipendente. Non esiste, in altre parole, alcuna anima da “salvare” e nessun ego da ricomporre.

In questo senso, il Buddhismo è particolarmente drastico, in quanto ritiene che l’individuo sia solamente un composto di cinque aggregati senza alcun sostrato.10A riguardo, si veda questo estratto ben esplicativo Afferma Nagarjuna:

Quando il sé concepito dagli estremisti viene analizzato con logica, non può essere trovato tra gli aggregati (del corpo e della mente) 11Nagarjuna, A Commentary on the Awakening Mind

Sotto la lente della pratica meditativa, insomma, la ‘vita animica’ o le avventure dell’io sono fenomeni del tutto frammentari e relativi. Non bisogna tuttavia cadere nell’estremo opposto e ritenere che occorra mortificare e sopprimere l’io: occorre solo ricondurlo nel contesto della sua fonte, perché la coscienza di essere un individuo è comunque una traccia, un riflesso della sua essenza.

In altre parole, come ha scritto Giorgio Invernizzi ne Il concetto del sacro, “l’uomo non è il proprietario delle risorse mentali, emozionali e materiali che trova dentro e fuori di sé, ma solo l’amministratore”.

Allo stesso tempo, anche le pratiche cosiddette spirituali rischiano di essere un’altra delle tante avventure episodiche dell’io, che proprio grazie a questo rafforza il suo falso senso di separazione e di indipendenza.

Anche per questo, risulta abbastanza evidente come la meditazione si presti male in quanto strumento di “crescita personale” o di “sviluppo del potenziale umano” – per citare alcuni termini oggi di moda – perché queste pratica non “cura” e non “risolve” i problemi della personalità: erode anzi la certezza della chiusura stagna del contenitore (e pertanto non è consigliabile a personalità già particolarmente disgregate).

Ma allora, quando si medita, chi medita? Visto che da un punto di vista ordinario meditare è un’azione come un’altra, allora vale come per qualsiasi altro agire. Avverte Jean Klein:

Quando agisci, sei tutt’uno con l’azione, è soltanto in seguito che l’ego si appropria dell’atto, da cui era assente. Ma l’ego è un pensiero come un altro e quindi non può essere il suo stesso creatore.12Jean Klein, Neither This nor That

È proprio questo il punto: l’io – qualsiasi punto dell’universo dica “io” – è un pensiero come un altro.

La vita né attiva, né contemplativa

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Guarda deh lo stupefacente comportamento della mente! Della mente, dico, che colla rinuncia si afferra agli oggetti, e coll’afferrarli, ci rinuncia e li abbandona!

Bhagavad Gita, II, stanza di riassunto13Il Canto del Beato (Bhagavadgita), commento di Abhinavagupta, a cura di Raniero Gnoli, UTET, 1976 http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/vedanta/gnolibhg.pdf p.80

Si ritiene spesso che la meditazione sia una “pratica” e uno “stato” introspettivi, ma a ben vedere anche questo in ultima analisi non è esatto. Torniamo al dilemma a cui accennavamo in apertura: distinguere tra interno ed esterno significa vivere il “momento” della pratica e il “momento” della vita come fossero distinti. Questo pericolo è del resto sempre stato noto. Per questo è sempre stata idea abbastanza comune che la pratica meditativa riguardi anche la vita attiva.

Se qualcuno ricorda il motto benedettino “ora et labora”, si ricordi anche che in molte sette i sufi conducono una vita del tutto normale, formando una famiglia e svolgendo lavori normalmente considerati umili, e che nello Zen il lavoro manuale è considerato di pari importanza (o in alcuni casi addirittura superiore) alla pratica dello zazen.

Famoso è l’incontro tra il futuro maestro giapponese Dogen con un anziano monaco cinese che svolgeva l’umile mansione di sguattero: alla sorpresa di Dogen per il fatto che a un monaco così anziano non fosse concesso di dedicarsi alla pratica meditativa per progredire nella via, il vecchio monaco rispose che quella stessa mansione era già la Via.14Si veda Dogen Zenji; Uchiyama Roshi Kosho, Istruzioni a un cuoco zen. Ovvero come ottenere l’illuminazione in cucina, Astrolabio

Nella Bhagavad Gita, Krishna invita Arjuna a non ritrarsi dall’agire, ma a gettarsi nella mischia della battaglia, indifferente alla sconfitta o alla vittoria. Nel karma yoga (ossia lo Yoga dell’azione) esposto da Krishna il mezzo di emancipazione non è la rinuncia all’azione, bensì la rinuncia ai frutti dell’azione.

In realtà, lo stato di meditazione compare al punto di confluenza tra introspezione e azione, ed è indipendente anche dalla direzione scelta. Il fatto è che questo stato è un paradosso proprio perché è una “terza via” normalmente non contemplata.

Satyananda ha descritto molto bene questo concetto nei termini dell’Hatha Yoga:

L’epitome della modalità attiva è lo stato di mente e corpo di un tassista che guida durante le ore di punta. L’epitome della modalità recettiva è il rilassamento profondo in Yoga Nidra, o lo stato di introversione della meditazione formale. Il vero stato meditativo, che pochi ricercatori scientifici considerano ma che è il vero obiettivo dello Yoga, è un esempio del terzo modo, ovvero del funzionamento di sushumna, in cui attivo e passivo sono completamente bilanciati. Una persona in questo stato è simultaneamente focalizzata interiormente ed esternamente. Per esempio, potremmo guidare un taxi e nello stesso tempo essere in uno stato di rilassamento o “non agire”. O potremmo sedere assolutamente immobili ed essere riempiti della energia dinamica di shakti in modo tale da essere totalmente svegli e attivi internamente. È uno stato molto difficile da descrivere.15Swami Satyananda, Kundalini Tantra, Yoga Publication Trust

Non meditare!

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Il Vijnanabhairava Tantra è forse il testo più rappresentativo dello shivaismo tantrico del Kashmir. La sua stesura in forma scritta risale al IX secolo d.C., anche se si ritiene che le origini dei suoi contenuti e delle tecniche contenute datino di qualche millennio addietro. Secondo Daniel Odier, si tratta del più antico testo sullo Yoga.

La sua cristallina essenzialità e il suo accento sull’immediatezza riecheggia – per affinità se non per influenza diretta – in tutte quelle tradizioni che hanno posto l’accento sulla realizzazione spontanea dello stato naturale della mente, come il Taoismo, il Buddhismo Chan (Zen), e diverse correnti del Buddhismo Tantrico (il Mahamudra di Tilopa, lo Dzogchen) e persino del Sufismo.

L’assunto principale del Vijnanabhairava è che non vi è alcuna differenza tra la Coscienza e l’Energia, rappresentate rispettivamente nei due amanti Shiva (ovvero Bhairava) e Shakti (Bhairavi), che al termine del dialogo ritornano abbracciati nel loro amplesso.

Mentre le visioni dualiste considerano le creazioni della Shakti come inganno da cui astrarsi con una progressiva purificazione, per il tantrismo monista la vera illusione è soltanto l’esperienza della dualità tra i due principi: dualità che si rivela un gioco in seno alla Coscienza che si specchia in sé stessa celando ora la propria essenza, ora l’aspetto fenomenico.

L’energia delle fiamme non è altro che il fuoco. Qualsiasi distinzione non è che un preludio alla via della vera conoscenza.

Vijnanabhairava Tantra, 19

Afferma Abhinavagupta:

Mi inchino davanti alla non dualità assoluta, totale identità di Paramasiva e dell’energia che prima rivela, fuori della pienezza senza desiderio, l'”Io” che si esprime a sé stesso, poi ha il desiderio di scindere il suo proprio potere in due rami: io e quello.
Allora a partire dall’essenza ultima, si dona al gioco del unmesa-nimesa: se dispiega l’universo, nasconde la sua essenza e se egli rivela la sua essenza, l’universo sparisce.16Abhinavagupta, Pratyabhijnavimarsini

E il suo discepolo Ksemaraja:

La coscienza assoluta tramite il suo movimento libero e spontaneo manifesta, mantiene e riassorbe l’universo.
La coscienza ha il potere di dispiegare la realtà di fronte al suo stesso specchio.
La molteplicità illusoria dell’universo appare attraverso la relazione del soggetto e dell’oggetto.
Il praticante la cui coscienza è contratta percepisce l’universo nella sua forma contratta.
La coscienza assoluta diviene coscienza individuale a causa di questa stessa contrazione provocata dagli oggetti della coscienza.
La coscienza individuale è la coscienza assoluta.17Ksemaraja, Pratyabhijñâhrdayam – Il Cuore Del Riconoscimento

Date queste premesse, il Vijnanabhairava espone 112 metodi di meditazione realizzabili in ogni istante. La particolarità di queste meditazioni (alcune codificate anche all’interno dell’Hatha Yoga o nel Buddhismo) è che abbracciano pressoché l’intero spettro delle possibili esperienze umane.

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Bhairava o Kala Bhairava è l’aspetto più terrifico di Shiva, che rappresenta la distruzione di qualsiasi barriera. Spesso è rappresentato con una testa in una delle sue mani, che secondo una leggenda narrata dai Purana apparterrebbe a Bhrama, il dio della creazione.

Non essendoci dualità con il mondo esterno, anche ciò che sperimentiamo attraverso i sensi può ricondurci alla fonte prima. Le 112 tecniche del Vijnanabhairava addestrano pertanto a penetrare la dimensione dell’assoluto  in ogni momento e in qualunque esperienza: sia durante il godimento dei sensi, sia nel rinunciare all’oggetto del desiderio cogliendo la “spazialità luminosa” (termine chiave nel Vijnanabhairava) da cui esso proviene; sia nell’azione, sia nello spazio tra la risoluzione di agire e l’azione; sia nella concentrazione, sia nella dispersione mentale e nell’esperienza di sentimenti violenti e negativi.

73. Fonditi nella gioia provata durante il godimento della musica o in quello che rapisce gli altri sensi. Se tu sei solo questa gioia, accedi al divino.

E ancora:

96. Quando prendi coscienza di un desiderio, consideralo il tempo di uno schioccar di dita, poi subito abbandonalo. Allora ritorna nello spazio da dove è appena sorto.
97. Prima di desiderare, prima di sapere: «Chi sono io, dove sono?», è questa la vera natura dell’“io”. Questa è la spazialità profonda della realtà.

Non c’è quindi nessuna intenzione di correggere o riformare l’essere umano: tutto ciò che nella vita comune può portare sempre più lontano dalla contemplazione, può essere in realtà penetrato per accedere alla sostanziale identità di Coscienza ed Energia.

Lo Spandakarika, testo della scuola Spanda che esprime l’unità fondamentale in termini di fremito o vibrazione chiarisce questo concetto in maniera molto chiara:

L’energia del fremito che attraversa l’essere ordinario lo rende schiavo, mentre questa stessa energia libera colui che è sulla Via.

Vijnanabhairava Tantra, 19

Proprio per questo, una serie di equivoci accompagna spesso questo approccio, benché il fatalismo (“è tutto già qui”) e la dissolutezza (ossia la totale identificazione nei sensi) sono in realtà del tutto estranei al tantrismo. Tuttavia, questa via è talmente immediata da essere poco praticabile da chi non coltivi un atteggiamento del tutto disinteressato nei confronti della vita e del vantaggio personale: tale è la sua semplicità, tale l’estrema difficoltà di camminare sul filo di una lama.

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Il Vijnanabhairava riconosce, peraltro, che le dottrine dualiste e le vie progressive abbiano uno ruolo propedeutico, per orientare le coscienze individuali che ancora siano eccessivamente identificate nel mondo dei sensi; tutte le sottili distinzioni e progressioni tra mondo materiale e mondo spirituale sono insomma “delle ghiottonerie destinate a incitare gli aspiranti a una condotta etica e a una pratica spirituale, in modo che possano un giorno realizzare che la natura ultima di Bhairava non è separata dal loro proprio Sé”.18Vijnanabhairava Tantra, 13

Chi invece si avventuri per la via esposta dal Vijnanabhairava dev’essere in grado sia di immergersi nei piaceri sensoriali, sia di abbandonarli in qualsiasi momento con la stessa equanimità; del resto, se l’assoluto è ovunque e il praticante può riconoscere la sua stessa coscienza in qualsiasi manifestazione della realtà, la soddisfazione o non soddisfazione dei propri desideri è un concetto molto relativo.

63. Contempla le forme indivise del tuo corpo e quelle dell’intero universo come appartenenti alla stessa natura, così, il tuo essere onnipresente e la tua forma riposeranno nell’unità e raggiungerai la natura della coscienza.

Riformuliamo quindi la domanda posta molte righe più sopra: quando si medita, chi medita? Ma soprattutto: medita?

Piccola conclusione: tornare al mercato

Scalzo e col petto nudo, mi mescolo alla gente del mondo. Le mie vesti sono lacere e impolverate, e io sono sempre colmo di beatitudine. Non uso magie per prolungare la mia vita; Ora, davanti a me, gli alberi morti diventano vivi.

Kakuan, 10 Tori19Contenuto in Mumon, La porta senza porta: seguito da 10 Tori di Kakuan e da Trovare il centro, Adelphi. È degno di nota che questa edizione di due classici dello Zen includa in appendice un condensato del Vijnanabhairava.

I 10 Tori sono un classico della letteratura Zen e descrivono altrettanti stadi di consapevolezza. Il toro smarrito e cercato dal pastore è il principio eterno della vita. In realtà, il toro non è mai stato perso, ma è soltanto la confusione circa la propria natura a generare questo smarrimento. Il pastore lo rintraccerà attraverso le sue orme e lo catturerà. Una volta domato con frusta e corda, potrà ritornare a casa sul suo dorso e infine riposarsi.

La serie classica antica terminava con l’ottava tavola, che rappresenta il Vuoto, in cui non vi è più distinzione tra il pastore, il toro, la frusta e la corda.

Tuttavia, nel XIII secolo, il maestro Zen cinese Kakuan Zenji ne volle aggiungere altre due. La nona tavola rappresenta il ritorno alla fonte, in cui il protagonista contempla “le forme dell’integrazione e della disintegrazione”, conscio che “chi non è legato alla forma non ha bisogno di essere riformato”.

La decima tavola, il cui testo è citato più sopra, riguarda il ritorno nel mondo. Non vi è più alcuna opposizione allo scorrere della vita, ma proprio per questo, visitando la bettola o il mercato, chiunque il protagonista guardi “diventa illuminato”.

I 10 Tori di Kakuan
I 10 Tori di Kakuan

Abbiamo esaminato molte strade in questo articolo, e molti punti di vista differenti. La morale di questa storia è che se tutto si risolvesse nel nulla dell’ottava tavola, rimarrebbe irrisolto il mistero fondamentale: perché tanta confusione, per ritrovare ciò che non era mai stato perduto.

Per questo, qualunque realizzazione e qualunque altissimo stadio di consapevolezza si possa (o si ritenga) conseguire tramite la meditazione – che non è soltanto stare seduti o eseguire una tecnica – è del tutto inutile se non si completa il quadro tornando del mondo, che è semplicemente l’altra faccia, per quanto possa apparire deformata, dell’assoluto tanto cercato.

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Note[+]

Note
↑1 Da notare che una raffigurazione molto simile è visibile in uno dei reperti del Calderone di Gundestrup (nell’odierna Danimarca), risalente al periodo tra il II secolo a.C. e il III secolo d.C.
↑2 Daniel Odier, Meditation Techniques of the Buddhist and Taoist Monks, Bear & Co, 2003 https://www.scribd.com/read/230486661/Meditation-Techniques-of-the-Buddhist-and-Taoist-Masters
↑3 Per i rapporti tra Taoismo e Buddhismo si veda il nostro articolo Il mondo è un recipiente sacro e non si può governare
↑4 L’haiga è una forma espressiva giapponese che combina la pittura con la poesia haiku.
↑5 Il maestro zen Sengai: poesie e disegni a china, a cura di Daisetz T. Suzuki, Guanda, 1988
↑6 Tilopa, Mahamudra (Il Grande Sigillo)
↑7 Padmashambava, La liberazione attraverso la visione nuda della natura dello spirito
↑8 Khenchen Thrangu Rinpoche, An Ocean of the Ultimate Meaning: Teachings on Mahamudra
↑9 Eric Baret, Lo Yoga tantrico del Kashmir, Om Edizioni, 2016
↑10 A riguardo, si veda questo estratto ben esplicativo
↑11 Nagarjuna, A Commentary on the Awakening Mind
↑12 Jean Klein, Neither This nor That
↑13 Il Canto del Beato (Bhagavadgita), commento di Abhinavagupta, a cura di Raniero Gnoli, UTET, 1976 http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/vedanta/gnolibhg.pdf p.80
↑14 Si veda Dogen Zenji; Uchiyama Roshi Kosho, Istruzioni a un cuoco zen. Ovvero come ottenere l’illuminazione in cucina, Astrolabio
↑15 Swami Satyananda, Kundalini Tantra, Yoga Publication Trust
↑16 Abhinavagupta, Pratyabhijnavimarsini
↑17 Ksemaraja, Pratyabhijñâhrdayam – Il Cuore Del Riconoscimento
↑18 Vijnanabhairava Tantra, 13
↑19 Contenuto in Mumon, La porta senza porta: seguito da 10 Tori di Kakuan e da Trovare il centro, Adelphi. È degno di nota che questa edizione di due classici dello Zen includa in appendice un condensato del Vijnanabhairava.
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Lo Zen e l’arte di spaccarsi le palle con la meditazione

31 Maggio 2016 by Francesco Vignotto 5 commenti


Su internet circolano ormai moltissime infografiche che illustrano i benefici del meditare sotto l’aspetto fisiologico e mentale. Lo fanno spesso con qualche immagine stereotipata di tramonti o di cascate, volti sorridenti e corredandolo con qualche nuovo studio ‘scientifico’ sull’attività cerebrale dei meditanti – abbiamo visto, del resto, quanto gli studi scientifici raramente siano compresi per quello che vogliono dire e arrivino spesso di terza o quarta mano al lettore medio.

Leggo inoltre che grandi aziende hanno inserito la meditazione nelle attività per i dipendenti, in modo da ridurre i livelli di stress in azienda e aumentare la produttività. I maligni del Guardian sostengono che si tratti di un escamotage per non affrontare le reali cause dello stress sul posto di lavoro, ma tant’è.

Dopo qualche secolo di esaltazione dell’iperattività, di abusi alimentari e di sostanze eccitanti, sembra insomma che sedersi immobili e concentrarsi (o semplicemente pensare di non pensare) sia qualcosa di altrettanto cool quanto la dieta vegana e i rave salutisti, e che la sua immagine abbia perso le tinte austere con cui, ad esempio, l’ho conosciuta io.

Non rimpiango certo quelle tinte, che oggi appaiono un po’ bacchettone e scoraggianti. Tuttavia c’è qualcosa di caricaturale nell’euforia odierna, e cercherò di spiegarmi in questo articolo, conscio che la mia è solo una opinione tra le tante possibili.

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Innanzitutto, come per lo Yoga – qui inteso per comodità “merceologica” come disciplina che comprende anche la pratica psicofisica – la gente vuole sapere se la meditazione fa male o la meditazione fa bene. Il problema è che la meditazione, come lo yoga, non fa nessuna delle due cose. Anzi, non fa proprio. Per lungo tempo – e forse in senso assoluto – la meditazione si occupa di dis-fare, e mi si perdoni il terribile gioco di parole.

Anche per questo mi trovo a volte in imbarazzo nel rispondere a persone che chiedono di partecipare alle lezioni di meditazione qui a Zénon. Spesso non sanno di cosa si tratti esattamente, ma sulla base delle notizie in loro possesso ritengono che possa risolvere i loro problemi. Qualcuno si sente ansioso, qualcuno è depresso, alcuni pensano di pensare troppo (e già questo è un doppio problema), e a volte la pratica meditativa viene suggerita loro dal medico – e d’altro canto non sempre, lo dico al di sopra di ogni sospetto (qui a Zénon ci sono dei medici), la prescrizione è effettuata con cognizione di causa.

Ebbene, di fronte a queste aspettative mi sento in tutta sincerità di invitare a provare prima con lo Yoga, o con il Qi Gong o con il Tai Chi (potrebbe essere anche altro, ma mi limito a quello che può offrire la casa), specificando che queste pratiche, per noi, significano anche meditazione. Il “rodaggio” con queste pratiche che contemplano una maggior integrazione degli aspetti corporei è anzi ormai una regola fissa qui a Zénon per accedere alle ore di meditazione, anche a costo di scontentare qualcuno.

Il motivo è che, a mio parere, iniziare con una pratica volta a disciplinare la mente per mezzo della mente significa spesso cercare di costruire una casa partendo dal tetto, con risultati a volte disastrosi, anche se in altri casi, in presenza di venditori particolarmente abili e incuranti, si riesce a convincere l’acquirente che le fondamenta non servono a niente.

Tuttavia, quanto abbiamo appena detto non è del tutto esatto: nella meditazione non si utilizza solo la mente, come potrebbe sembrare, perché la meditazione richiede dei prerequisiti psicofisici, tra cui la capacità di trovarsi a proprio agio in una (relativa) immobilità corporea rimanendo al tempo stesso rilassati.

Alcune tradizioni prescrivono la postura del loto o altre posture sedute tutt’altro che naturali per noi occidentali, che devono diventare “comode e stabili” (tale è la celebre definizione yogica della postura seduta). Altre forme di meditazione dinamica richiedono una certa scioltezza fisica che è profondamente diversa da quella di un ginnasta, perché deriva non dalla semplice flessibilità muscolare ma richiedono lo stesso stato di disponibilità mentale della meditazione “statica”.

Ma anche sedendo su una sedia senza troppe formalità, il punto più difficile è gestire il naturale dinamismo della mente, di cui il dinamismo corporeo è un sottoprodotto, così come la tendenza a saltare di pensiero in pensiero: tutto ciò può costituire un ostacolo insormontabile senza un’adeguata preparazione.

Scriveva Aurobindo:

L’attività normale della nostra mente è fatta in gran parte di un’agitazione disordinata, piena di sperpero e di energie sprecate in frettolosi tentativi, di cui appena una piccolissima parte è utile alle operazioni di una volontà padrona di sé stessa (si tratta, ben inteso, di sperpero dal nostro punto di vista, non secondo quello della Natura universale in cui tutto ciò che a noi sembra spreco serve gli scopi della sua economia). L’attività del nostro corpo è fatta di questa agitazione. 1Aurobindo, La sintesi dello Yoga, Ubaldini

Proprio per questo, prosegue Aurobindo nello stesso scritto, l’haṭhayoga 2A scanso di equivoci, con questo termine intendiamo qui – e lo intendeva Aurobindo – lo Yoga che prevede l’utilizzo di tecniche psicofisiche quali le principali sono āsana e prāṇāyāma. Quasi ogni forma di Yoga oggi praticato nelle palestre, a dispetto della varietà di etichette e delle varie elaborazioni didattiche, è riconducibile a questa tradizione, anche se a volte con profonde differenze che solo in parte abbiamo visto in Lo Yoga in una posizione. può essere una solida base di partenza, perché comincia ad affrontare il problema dall’altro bandolo della matassa, quello più facile da disciplinare.

Da notare anche che Aurobindo, la cui prospettiva di Yoga Integrale è molto vasta e articolata, non era esattamente un grandissimo estimatore dell’haṭhayoga, così come della meditazione, che riteneva mezzi utili solo temporaneamente, laddove in molte tradizioni sono considerate delle vie autosufficienti che possono condurre sulle più alte vette.

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Illustrazione di Nick Lowndes per il Guardian

Mentre l’haṭhayoga permette infatti di drenare preliminarmente parecchie tensioni mentali attraverso il corpo in modo graduale e senza cadere nelle varie trappole della mente, la meditazione è molto più spesso una “cura da cavallo” che rischia di essere troppo drastica – o inutile- se affrontata da sola.

Durante la meditazione la mente si comporta infatti come un organismo sottoposto a un digiuno: ridotta o sospesa l’alimentazione (è il primo cibo disciplinato sono gli stimoli sensoriali), comincia a fare pulizia interna rigurgitando anche i contenuti sedimentati molto in profondità. Ammesso che la mente riesca a disciplinarsi in tale dieta, il rischio è che la mente finisca più spesso per ubriacarsi di sé stessa, piuttosto che smaltire la sbornia da iperattività a cui è normalmente soggetta.

Il problema non è tanto la quantità di materiale da smaltire, che paradossalmente potrebbe essere eliminato in un istante, ma la capacità di lasciare esaurire la sua produzione, dacché la mente non solo “contiene” ma “crea” in continuazione, allentando la reattività a agli stimoli (ne avevo parlato riguardo al concetto di rilassamento profondo in Dormire col demone che grida).

In questo bisogna arrivare già preparati quando ci si siede a meditare, altrimenti il gradino rischia di essere troppo alto. La mia, ripeto, è un’opinione, mentre altrettanto autorevoli fonti ritengono che basti la meditazione in sé (si veda ancora Lo Yoga in una posizione). Anche se questa contrapposizione è in ultima analisi relativa, ritengo che a favore della mia tesi ci siano parecchi argomenti troppo spesso sottovalutati.

Anche alla luce di tutto questo, la meditazione è da affrontare con cautela in caso di problematiche che turbano lo stato mentale. Anzi, a maggior ragione sconsiglio di meditare a tutti coloro che riferiscono di problematiche di stress, ansia, depressione o siano semplicemente già troppo inclini a rimuginare. Per questi ultimi, in particolare, la meditazione è l’ultima attività da intraprendere, in quanto li scollegherebbe ancora di più dalla realtà. Il che è ben diverso dal realizzare l’illusorietà del mondo fenomenico come formulato in molte tradizioni: significa anzi rimanere ancora più vittime delle illusioni della propria mente.

Insomma, la meditazione, anche e forse soprattutto nelle sue forme più “semplici” e a dispetto dell’aspetto “sexy” oggi attribuitole, può essere spesso una pratica molto frustrante. In molti casi, terribilmente noiosa. Non di rado, quando si hanno parecchi spettri nella bisaccia (che quasi mai sono noti o evidenti), può scatenare conflitti piuttosto violenti nel praticante.

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Tuttavia, l’incontro con questa noia e con questa frustrazione, anche con questi conflitti, è un segnale in un certo senso positivo ed entro certe dosi è un passaggio necessario, perché significa che la pratica sta agendo il suo effetto. Peggio è ancora quando il praticante fin dall’inizio riferisce di esperienze meravigliose e di una pace intensa, perché spesso è il segnale che nessuna purga può scalfire la costipazione. Ho imparato a dubitare seriamente della salute mentale di chi si delizia dell’olio di ricino come di una prelibatezza, ma tra le varie disfunzioni alimentari esiste oggi di sicuro anche questa. Sempre che, ovviamente, l’amara medicina non sia stata contraffatta e depotenziata, come vedremo tra poco.

In ogni caso, il problema è: come avanzare oltre questa noia e questa frustrazione? Elenco alcune possibili vie pessimistiche. In un primo caso, piuttosto frequente, è molto facile l’abbandono di una strada ritenuta troppo difficile.

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Un caso intermedio, ma non raro in alcune nicchie oggi come un tempo, è che al lassativo si sostituisca qualche sostanza psicotropa o qualche palliativo colorato (app per gli smartphone, palline fluorescenti, santini del guru e suggestioni emotive di varia natura) nell’illusione di tagliare per vie abbreviate.

Purtroppo, come ripeto sempre in questi casi, un somaro in LSD a cui appare lo Spirito Santo in persona rimane pur sempre un somaro, posto che il più delle volte lo Spirito Santo è un’ulteriore proiezione della sua mente più intossicata del consueto. Non si può pensare che l’esperienza abbia efficacia a prescindere dal livello di coscienza di chi la sperimenta, il che lo si conquista con un durissimo lavoro.

Ma spesso anche chi persevera non se la passa molto meglio. Abbiamo visto infatti generazioni di meditanti continuare la pratica senza grandi risultati, nella rassegnazione a rompersi discretamente le scatole, osservando i puntini comparire e scomparire all’orizzonte del loro personale Deserto dei Tartari, credendo di scorgervi ogni giorno i segnali di una svolta che non arriverà mai.

In quest’ultimo caso, la meditazione diventa come le famose cinque razioni di frutta e verdura da mangiare ogni giorno o la messa per il cristiano svogliato. E spesso questa noia è percepita quale giusta dose di sofferenza da accollarsi per salvarsi l’anima (o, nel gergo, per bruciare un po’ di karma), siccome ogni cosa che salvi l’anima è dolorosa (così almeno ci hanno detto).

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Non manca chi suggerisce di aiutare la meditazione tramite l’utilizzo di cannabis, per “aiutare ad allentare le resistenze”.

Il primo e l’ultimo caso sono tipici – anche se non sempre –  di quel particolare profilo di praticante che si dedica alla sola meditazione “seduta” ritenendo che le magagne del proprio corpo possano essere separate da quelle della propria mente (a onor del vero un giorno parleremo anche dei praticanti “esperti” di yoga che dopo molti anni non riescono a tollerare anche solo pochi istanti di inattività: è l’altro lato di una medaglia che si tenta sempre di scindere).

Insomma, la meditazione molto spesso e per molto tempo sembra accumulare sul tavolo i problemi, invece di risolverli.

Ma siamo sicuri di aver capito cosa sia la meditazione? A dire il vero, più passano gli anni e più confesso di avere idee felicemente sempre meno definite e sempre più sfocate sulla questione. È anche per questo che scrivere questo articolo mi ha creato parecchio imbarazzo, in quanto per necessità espressiva so di aver usato alcuni stereotipi e dando parecchio per scontato.

Le persone che si informano su un corso di meditazione vogliono sapere quale tipo di meditazione si faccia, se è “statica” o “dinamica”, sciamanica, cristiana, buddhista, laica o trascendentale, insomma vogliono sapere che cosa aspettarsi da quell’oretta alla settimana e di poterlo inquadrare in base alle etichette correnti. Il che, in un certo senso, è del tutto comprensibile dal punto di vista di un acquirente che poco si fida della scatola chiusa, e in molti casi fa bene.

Ma qui si rivela quanto la meditazione poco si concili con le categorie merceologiche. Il più grande equivoco è infatti dare per scontato che la meditazione sia quel qualcosa che “si fa” quando si “decide” di meditare, il che, come vedremo nel seguito di questo articolo, non è per nulla scontato, dacché pensare di fare e di decidere, o connotare con qualche colorante folkloristico significa rimanere ancora intrappolati ben prima del nodo da sciogliere.

Moltissime tradizioni che hanno tenuto in gran conto la meditazione, del resto, hanno anche detto che meditare è inutile. Non soltanto nel senso che non dev’esserci aspettativa di vantaggio alcuno – il che poco di concilia con la meditazione per aumentare la produttività, o anche per migliorare la concentrazione o ridurre lo stress. Molte tradizioni affermano infatti da un lato che meditare è la via, dall’altro che meditare è controproducente.

Ma allora cos’è la meditazione e perché tutte queste contraddizioni?  Per amor di sintesi, e per non aggiungere per ora troppa carne al fuoco, affronteremo l’argomento nel prossimo articolo.

Note[+]

Note
↑1 Aurobindo, La sintesi dello Yoga, Ubaldini
↑2 A scanso di equivoci, con questo termine intendiamo qui – e lo intendeva Aurobindo – lo Yoga che prevede l’utilizzo di tecniche psicofisiche quali le principali sono āsana e prāṇāyāma. Quasi ogni forma di Yoga oggi praticato nelle palestre, a dispetto della varietà di etichette e delle varie elaborazioni didattiche, è riconducibile a questa tradizione, anche se a volte con profonde differenze che solo in parte abbiamo visto in Lo Yoga in una posizione.
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Ipocondria di uno yogi

5 Ottobre 2015 by Francesco Vignotto 1 commento


Allagare il campo, o fare la pipì a letto

Patanjali paragona l’azione dello Yogi a quella di un contadino che rimuove gli ostacoli, permettendo così che il campo si allaghi. Come abbiamo visto, gli Yoga Sutra attribuiti al saggio indiano non indicano alcuna tecnica – anzi, affermano che qualsiasi tecnica agisce solo indirettamente: “La causa strumentale non determina le diverse tendenze naturali”1Yoga Sutra, 4,3).

Badiamo bene: rimuovere gli ostacoli, non crearli. Liberare, non limitare.

Ebbene, nella mia esperienza ho riscontrato che i soggetti con le maggiori difficoltà a rimuovere gli argini, sono proprio i praticanti – spesso veterani – di yoga e di discipline che si trovano sotto il cappello oggi piuttosto affollato dell’”olismo”.

Ma forse sarebbe meglio dire che i soggetti dediti a tali pratiche siano generalmente convinti – non “più consapevoli” – di avere dei problemi, indipendentemente dal fatto di averli veramente. Ad esempio, di avere problemi posturali o difficoltà respiratorie e che questi difetti siano veri e propri handicap invalidanti.

Questo perché molto spesso l’impostazione della pratica – e forse anche lo zelo dell’insegnante e una certa cultura del perfezionismo psicofisico – porta a enumerare i difetti particolari ma non a risolverli e anzi a esacerbarli sempre di più in una lotta del corpo contro il corpo, più che a sfruttarli invece come leve per ri-armonizzare il complesso.

Insomma, se James Hillman rimproverava alle teorie psicanalitiche la predilezione per i traumi, a volte ho l’impressione che questo Yoga for dummies condivida la stessa tendenza trasferendola non solo alla psiche ma anche al corpo.

Ma nel sutra citato più sopra Patanjali non si riferisce a un traguardo che si raggiungerà solo in corpo perfetto al parossismo della tecnica. Si riferisce all’irrompere, a un certo punto del percorso, di un evento straordinario all’interno di un quadro ordinario. Un evento il cui accadere non si può controllare: si può soltanto preparare il campo in modo tale che possa accoglierlo. Un’eventualità che può ricorrere a numerosi livelli.

Quello che vedo verificarsi molto spesso, invece, è uno stallo di cui la pratica stessa è la principale responsabile o, perlomeno, l’agente collante. Una sorta di ipnosi che, come nel brano che segue, perdura finché un evento straordinario non spezza l’incantesimo.

E allora raccontiamola questa storia.

Storia di P.

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Una delle prime mattine dell’anno duemila-e-qualcosa, il trentenne Paolo A. si svegliò con un versamento e un edema reattivo al ginocchio destro, che divenne una palla di carne dolorante e molto suscettibile agli sforzi.

Paolo non ricordava di aver subito un particolare trauma fisico tale da giustificare il risultato. Risparmiamo qui le dietrologie che dovette subire riguardo al periodo di cambiamento che stava attraversando e sui conflitti irrisolti somatizzati. Stando ai fatti, il referto della risonanza magnetica risultò compatibile con una lesione “a secchio” ai menischi e fu unanimemente consigliato di farlo operare.

Ora, Paolo sapeva che un’artroscopia era ormai un’operazione di routine, ma per lui che non era mai finito sotto i ferri rimaneva una sorta di dramma. Inoltre, il seppur breve periodo di riposo fisico forzato non era compatibile con i suoi impegni lavorativi.

Ma c’era di più: questo infortunio era un affronto, perché Paolo praticava Yoga. Era un affronto perché significava che inconsapevolmente Paolo aveva perseverato in abitudini posturali deleterie che avevano condotto a quel patatrac nella sua articolazione. Si convinse che evidentemente c’era qualcosa che non andava nel modo in cui aveva camminato fino ad allora.

“È naturale quello che ti è successo, gli confermò un osservatore esperto, perché hai sempre avuto un’anca più alta dell’altra”. Quella rivelazione fu come per il protagonista di Uno, nessuno e centomila il difetto al naso fatto notare con nonchalance dalla moglie: tutta la sua vita fino ad allora apparve come una menzogna ovattata.

Camminare divenne allora una complicatissima occasione per assestamenti e ribilanciamenti del peso corporeo, in cerca di una nuova ‘quadra’, con lo stesso tormento di un insonne in cerca del lato giusto per dormire. Ma proprio come l’insonne, con i suoi continui aggiustamenti, allontana il sonno invece di favorirlo, il nostro Paolo A. accumulava sempre più impedimenti alla sua tranquillità posturale. Camminava, letteralmente, sulle uova.

E proprio quando gli sembrava di aver trovato l’assetto corretto, non di rado capitava qualche importuno collega di lavoro si avvicinasse con evidente falsa premura e lo schiaffeggiasse con la domanda: “Ancora male al ginocchio? Vedo che zoppichi di nuovo”. In momenti come quello poteva letteralmente sentire le schegge di cartilagine conficcarsi nella carne.

Per la prima volta in vita sua scoprì cosa significasse avere dolori ovunque e per la prima volta soffrì di mal di schiena, di sciatica e di tutti i problemi che compongono il classico rosario di chi “sta male” ma è un non-so-che di male, una fiacchezza costante, un bordone dissonante che non si disperdeva mai nel silenzio.

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Infine, dopo diversi mesi e all’apice del disagio, Paolo si fece dare il numero di un Luminare dell’ortopedia e si presentò dallo specialista nello stesso stato d’animo in cui un criminale si presenta in questura per costituirsi.

Il medico guardò l’esito della risonanza di alcuni mesi prima e annuì: bisogna operare. Ma quando lo fece salire sul lettino e gli prese la gamba movimentandola in ogni direzione, con enorme sconcerto Paolo udì il Luminare esclamare che non poteva operare il suo ginocchio, perché era completamente sano.

Paolo gli indicò il referto sulla sua scrivania, che fino a un attimo prima provava il contrario: il Luminare fu inamovibile, il ginocchio era sano. Può darsi, commentò, che si fosse mosso durante la risonanza, o semplicemente Paolo era tra i pochi fortunati a cui il menisco guarisce da sé. Citò persino il caso di un oscuro calciatore che tornò a giocare ai massimi livelli dopo un infortunio proprio come il suo che con estrema saggezza dei medici non fu risolto chirurgicamente. “In ogni caso,” concluse “un menisco rotto fa male”.

In quel momento Paolo si accorse che da ormai parecchi mesi non sentiva più alcun dolore: si era arrovellato fino all’impazzire, ma dolore no, non ne aveva sentito se non nelle prime settimane. Si spezzò allora l’incantesimo, che non affliggeva direttamente la sua forma fisica, ma il suo stato di coscienza: l’involucro del malato immaginario si decompose come neve al sole.

Uscì dallo studio libero dal peso che lo aveva accompagnato fino a lì, senza più alcun pensiero di doversi correggere, di volersi riformare. La sua postura poteva dirsi dritta, sì, forse con qualche difetto, ma con una percezione immediata, globale, della propria stabilità, che non aveva bisogno di altre parole. Da allora saltò per molti sassi sulle montagne, e fece molte altre cose che un meniscopatico quale si era creduto fino a quel giorno non potrebbe fare; ma il suo corpo non se lo ricordava e quindi non patì alcun dolore.

Spezzare l’incantesimo

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Avrai letto da qualche parte che in molti casi la sentenza definitiva giunge all’improvviso, per bocca di uno qualsiasi, in un momento qualsiasi.

Franz Kafka, Il processo

Dobbiamo precisare che Paolo A., oltre a tormentarsi molto per trovare di  nuovo il modo corretto di camminare, era anche uno sgobbone, e in quegli stessi mesi si era anche molto impegnato nell’esercizio delle āsana, e questo – oltre a il  suo essere nato sotto una buona stella – probabilmente coadiuvò la sua misteriosa guarigione (naturalmente, quale “effetto collaterale” della pratica stessa).

Tuttavia, il punto cruciale non era risolvere il nodo fisico, ma la sua consapevolezza, e non sempre il momento dello spezzarsi dell’incantesimo arriva. Soprattutto perché il ravvedimento di Paolo A. implicava l’accettazione di un prezzo che non sempre si è disposti a pagare: non solo rinunciare ad essere menomato, ma addirittura rinunciare a esserlo mai stato. 

Molte altre volte, invece, non si esce dallo stallo.

Ogni giorno ho a che fare con praticanti di yoga convinti – a volte da parecchi anni – di non poter eseguire correttamente determinate posizioni a causa della conformazione del bacino o di altri difetti dell’apparato muscolo-scheletrico, martiri delle naturali asimmetrie del proprio corpo; di soffrire di blocchi psicosomatici e problemi respiratori la cui consapevolezza è ormai la causa stessa del problema; di non poter fare a meno di sostegni, mattonelle e tappeti antiscivolo senza i quali non sono in grado di sostenersi sui propri piedi, perché qui nasce anche un mercato di rimedi distribuiti (o meglio rivenduti) con enorme facilità anche ai sani: e, come direbbe Marco Invernizzi, se dài a una persona sana un bastone, dopo qualche tempo userà una stampella; poi due, poi un deambulatore, per finire in carrozzina.

Intendiamoci: tutti questi problemi esistono, a volte, anche come mere cause meccaniche. Ma in molti casi il problema non è tanto avere un problema: il problema è che qualcuno ti ha detto che hai un problema, e la sentenza è in sé stessa invalidante.

Spesso, infatti, la (sotto)cultura del “benessere” – anche perché è un mercato ormai di notevole importanza – tende a ridondare la percezione del difetto, e non del contenitore entro cui il problema va collocato e risolto. Non solo problemi con il corpo, ma anche problemi a non finire con i corpi celesti, il karma, l’anima e persino con parenti e affini di cui non sospettavamo l’esistenza. La logica, spiace dirlo, è quella che spesso i sostenitori di terapie alternative rimproverano alla medicina ufficiale: crea la percezione del problema, offri soluzioni che non curano alla radice, crea la dipendenza. 

Allo stesso modo, sentirsi dire ogni giorno che il proprio corpo è un campo di battaglia che reca la memoria di tutte le carneficine che vi sono state perpetrate dall’alba dei tempi crea più problemi – e il peggiore è l’autocommiserazione – di quanti ne risolva.

Avendo per alcuni anni esercitato la nobile arte dell’agricoltura, da parte mia preferisco continuare a pensarlo come un campo fertile proprio perché la terra accoglie tutto e riassorbe a sé meticolosamente i cadaveri e il sangue sparso, facendone concime, terra fertile.

Naturalmente, occorre la volontà di rimuovere gli ostacoli e le sovrastrutture, non costruirne di nuove. E per questo occorre molto spesso scompaginare gli schemi inveterati della pratica stessa.

Che cosa fa allora lo Yoga? Lo Yoga, in realtà, non ha in sé nulla a che vedere con il raddrizzamento delle spine dorsali. Non ha nulla a che vedere con allineamenti e con schematiche simmetrie del corpo da ripristinare.

Lo Yoga spezza l’incantesimo.

Note[+]

Note
↑1 Yoga Sutra, 4,3
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Lo Yoga in una posizione: la storia improbabile degli āsana

8 Settembre 2015 by Francesco Vignotto 1 commento


La maggior parte delle discipline nascondono effetti negativi, essendo concepite non per liberare, bensì per limitare. Non chiedete “perché?” e siate cauti col “come?”. “Perché?” conduce inesorabilmente al paradosso. “Come?” v’intrappola in un universo di causa ed effetto. Entrambi negano l’infinito.

Gli eretici di Dune, Frank Herbert

L’argomento di questo articolo è la pratica delle posture nello Yoga, ovvero, per chi non lo sapesse, degli āsana.

Per diverse ragioni, gli āsana sono divenuti l’elemento più iconico e rappresentativo dello Yoga, con un certo scorno da parte di chi sostiene che lo Yoga è molto altro ancora. Negli ultimi anni, gli āsana sono anche diventati una sorta di fenomeno di costume, pose da esibire e soggetto prediletto dai praticanti per i propri selfie e per delimitare il proprio territorio di appartenenza sub-culturale.

Oggi gli āsana costituiscono spesso buona parte – se non la totalità – di ciò che nella pratica si fa nei luoghi deputati a questa disciplina. Questo almeno a una visione esterna, se si prescinde naturalmente da ciò che succede nella sfera interiore – oltreché, come vedremo, nelle interiora.

Yogi amanti del Sé o Yogi amanti di sé?
Yogi amanti del Sé o Yogi amanti di sé?

Anche se con un leggero senso di colpa, gli āsana sembrano aver preso tutto. E, a giudicare da quanto mi riferiscono i praticanti che giungono qui a Zénon, è addirittura una rarità che vengano insegnati anche solo i rudimenti di una respirazione consapevole (non dico prāṇāyāma: semplice consapevolezza del respiro). Le “fasi” o dimensioni ulteriori dello yoga vengono rimandate a un secondo o terzo anno che spesso non arriverà mai nemmeno dopo una vita parcheggiati in una palestra.

Eppure, malgrado ci si ripeta che l’āsana è ben più di una semplice postura, la sua odierna predominanza rimane controversa e nasconde in fondo il dubbio e l’insicurezza di molti praticanti e insegnanti: che lo yoga sia degradato a pratica meramente ginnica, tagliando i legami con le sue basi soteriologiche, ovvero abbia perso l’obiettivo – o la capacità – di guidare al di fuori di una situazione indesiderata, ovvero la sofferenza che appare inevitabile compagna all’esistenza umana.

A ciò si aggiunge la consapevolezza oggi crescente, come vedremo, che molte delle pratiche fisiche un tempo introdotte all’Occidente come estremamente antiche, sarebbero in realtà molto più recenti di quanto potessimo pensare, o addirittura moderne. Di più: forse l’elemento che suscita ancora più sconcerto è che l’antichissima scienza dello Yoga sia stata e sia soggetta a mutamenti.

Ma che cosa sono questi āsana e perché dovremmo considerarli diversi da una pratica ginnica? Perché vengono praticati all’interno di una disciplina così strettamente legata alla sfera spirituale? E come andrebbero praticati?

Ci è stato ammonito, all’inizio di questo articolo, di andare cauti con i perché e con i come. Anche per questo, come al solito avverto che quanto segue è del tutto arbitrario nell’esposizione e frammentario. È una spiegazione a cui per necessità si è data una parvenza di forma coerente, nella speranza che possa essere utile, ma non definitiva.

Contenuti

  • Stare seduti
  • Austerità e ardore
  • Alchimia
  • Otto milioni di āsana
  • Capovolgimenti e dissolvimenti
  • Ma allora, che cos’è un āsana?
  • Tempi postmoderni
  • Per concludere

Stare seduti

Tentiamo di rintracciare un seppur tenue filo storico, consapevoli che è impresa ardua e ingrata cercare di tracciare l’indocumentabile.

Assumere posizioni in relazione a particolari stati psichici è un atto con ogni probabilità molto più antico dello stesso yoga, se con questo termine intendiamo “qualcosa” che sia stato sottoposto a un minimo di sistematizzazione.

Ad esempio, alcune terrecotte ritrovate nei siti di Harappa e  di Mohenjo Daro, nell’attuale Pakistan, raffigurano esseri umani in varie posizioni. Le civiltà che hanno prodotto questi manufatti risalgono III millennio a.C. e sono antecedenti alle invasioni indoeuropee:

namaskar-mudra-big

Quale osservazione collaterale, noteremo che esistono raffigurazioni anche nell’antico Egitto e diversi manufatti delle civiltà precolombiane che rappresentano posture molto simili gli āsana praticati nello Yoga, ma ciò ci porterebbe molto lontano non solo geograficamente.

Ora però dobbiamo notare che il termine sanscrito āsana significa “stare seduti” e sembra che in principio indicasse le sole posizioni sedute di meditazione. È molto probabile che Patanjali negli Yoga Sutra (III secolo a.C.- IV secolo d.C.) intendesse la parola āsana in questo senso. Nonostante sia quasi unanimemente considerato la massima autorità yogica, Patanjali peraltro non descrive alcuna postura, ma dedica all’āsana tre sutra molto significativi anche nei riguardi della pratica moderna:

La postura deve essere comoda e stabile
Grazie al rilassamento dello sforzo e all’incontro con l’infinito
Così da non esser più colpiti dalla coppia di opposti

Yoga Sutra II, 46-48

Con il senno di poi, da questi sutra ricaviamo alcune informazioni importanti, tra le quali:

  • che l’āsana è inteso per una pratica prolungata e statica (“comoda e stabile”, in modo da non disturbare la pratica), o meglio ancora che l’atteggiamento del praticante debba prescindere da una durata temporale;
  • che non contempla l’impiego della forza fisica, o meglio della contrazione muscolare;
  • che la sua pratica bilancia gli impulsi nervosi, neutralizzando gli effetti dei dvandva (coppie di opposti) sia fisici (caldo/freddo, piacere/dolore) sia mentali (felicità/sofferenza ecc.): in altre parole, la pratica degli āsana sviluppa il controllo sugli impulsi consci e inconsci.

L’āsana, secondo la visione offerta da Patanjali è parte di un quadro sistematico composto da otto membra. L’āsana è il terzo membro, preceduto dalle restrizioni (yama)  e dalle osservanze (nyama) e sono seguite dal prāṇāyāma e dai quattro stadi via via più meditativi: pratyhara (ritrazione dei sensi), dharana (concentrazione su un punto), dhyana (meditazione) e infine samadhi, il completo assorbimento e fusione con l’oggetto di meditazione che è l’obiettivo il senso ultimo della parola Yoga (“unione”) e coincide con la definizione stessa di Yoga formulata da Patanjali, ovvero la “cessazione delle modificazioni della mente”.1Yoga Sutra, I, II

L’āsana, dunque, fornisce il supporto fisico agli stadi successivi, che però sembrano quasi simultanei. Ed è per questo che i sutra precedenti andrebbero letti in prospettiva dei cinque seguenti:

realizzando questo, si ha il prāṇāyāma che è la cessazione del movimento d’inspirazione e d’espirazione.
[Esso] è interno, esterno o stabile; è regolato dallo spazio, dal tempo e dal numero, è prolungato o breve.
Un quarto [stadio] va al di là di quello interno ed esterno.
Grazie ad esso si dissolve lo schermo della luce.
E [si ottiene] la possibilità della concentrazione.

Letti in questo senso, āsana, prāṇāyāma (nelle sue fasi) e la (possibilità della) concentrazione sembrano generarsi uno dall’altro. È da notare che mentre Patanjali tratteggia āsana nelle sue generalità, senza nominarne alcuna, riguardo a prāṇāyāma, pur definendolo nella sua perfezione (la cessazione del movimento di inspirazione e d’espirazione), ne descrive almeno quattro tipi diversi.

Austerità e ardore

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Quando sentiamo affermare che lo yoga vanta origini antichissime, spesso immaginiamo che vi sia una tradizione uniforme tramandata più o meno immutata attraverso migliaia di anni (per poi, magari, accapigliarci su chi detenga la palma della più vicina alla fonte originaria).

In realtà, le sue prassi e i suoi fondamenti filosofici sono molteplici e non sempre istituzionalizzati o sistematizzati in modo coerente. Accanto al mainstream, ci sono stati e ci sono miriadi di rivoli che a volte divergono, altre confluiscono e in alcuni casi colorano indelebilmente la corrente principale.

Così, le prime descrizioni di āsana non seduti nello Yoga risalgono al Medioevo. Ma come James Mallinson ha giustamente osservato, “l’apparizione di descrizioni testuali di pratiche fisiche nello yoga non significa che quelle pratiche fossero state inventate in quel momento”. E in realtà nella letteratura antecedente abbiamo diverse testimonianze di queste posture, ad esempio nel poema epico del Mahabharata (III secolo a.C.- II secolo d.C.) oppure nei purana (II sec. a.C. – X sec. d.C.); tuttavia, queste pratiche non erano considerate āsana e non erano nemmeno contemplate nell’ambito istituzionale dello yoga (nota per i praticanti: le posture nominate nella citazione seguente non corrispondono necessariamente a quelle, omonime, praticate oggi).

… gli asceti sono descritti seduti in virāsana, una non identificata ma scomoda posizione seduta, e utkatāsana, una posizione accovacciata. Si dice inoltre che trascorrano lunghi periodi capovolti, o in piedi su due gambe o su una sola, o con le braccia in aria. Malgrado gli asceti che utilizzassero queste tecniche fossero associati alla pratica dello yoga, le tecniche fisiche in sé non lo erano. Sono tecniche di tapas, di ascetismo, e l’antico haṭhayoga è una codificazione delle pratiche fisiche di questi asceti pratiche il cui principale scopo era di aiutare la sublimazione del bindu, il seme, l’essenza vitale del corpo la cui preservazione era la chiave per coltivare il potere ascetico.2J. Mallinson, A Response to Mark Singleton’s Yoga Body

Il termine tapas, utilizzato sin dall’antichità vedica, significa letteralmente “ardore”. Tale ardore, che si manifesta anche come calore fisico, è sprigionato dall’asceta come sottoprodotto delle enormi energie liberate dal potere purificante dell’austerità, che viene esercitata al di là di ogni senso del limite; e proprio la rinuncia a ogni senso della misura pare essere il principio attivo del tapas. Sembra ad esempio che gli dèi dovettero supplicare Shiva di sposare Paravati, poiché quest’ultima, per guadagnarsi il suo amore, aveva intrapreso la pratica di austerità – tra le quali rimanere su una gamba sola per molti anni – accumulando tremendi poteri.

Straordinari poteri attribuiti alla pratica delle austerità. ndia, Himachal Pradesh, Mandi, 1725–50
Un asceta acquisisce straordinari poteri attraverso la pratica delle austerità. India, Himachal Pradesh, Mandi, 1725–50

Il digiuno è una delle austerità per eccellenza e fu praticato in maniera estrema anche dal Buddha Siddharta prima della realizzazione e prima di scartare gli eccessi delle austerità in favore della “via di mezzo”.

Patanjali, dal canto suo, annoverava il tapas tra i Niyama quale disciplina di autocontrollo, che tuttavia anticipa anche qualcosa che ritroveremo gli āsana nello haṭhayoga, ovvero il principio di purificazione:

Praticando le austerità si distruggono le impurità e sopraggiungono la perfezione nel corpo e negli organi di senso

Yoga Sutra, II, 43

Per chiudere il cerchio sul tapas, è significativo che una delle penitenze di Arjuna, intraprese dall’eroe del poema epico Mahabharata per far sì che Shiva (ancora Shiva) gli concedesse il suo terribile arco, consistesse, manco a dirlo, nello stare su una gamba sola (ancora su una gamba sola) in una tipica posizione che oggi consideriamo parte dello Yoga:

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E, per curiosità, possiamo notare nello stesso altorilievo un gatto che imita la posa di Arjuna, forse in spregio della sua penitenza:

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Alchimia

Come un recipiente di terra non cotta gettato nell’acqua, il corpo va presto in rovina (in questo mondo). Cuocilo bene nel fuoco dello Yoga in modo da fortificare e purificare il corpo.

Gheranda Samhita, 1,8

Quelle che un tempo erano considerate austerità, pratiche immuni da ogni senso della misura, divengono i mezzi per purificare e fortificare il corpo in modo sistematico con l’haṭhayoga.

Il termine sanscrito hatha significa “forza” e alcuni ravvisano un riferimento non tanto all’impegno fisico che le sue tecniche richiedono, quanto all’energia che queste ultime mirano a liberare; un’altra lettura, più esoterica ma probabilmente meno corretta dal punto di vista filologico, scompone il termine nelle sillabe Ha, riferita al Sole, ovvero il principio vitale, e Tha che corrisponde alla Luna, l’energia mentale, due principi che, come abbiamo visto, l’haṭhayoga mira a equilibrare. 3The Meaning of haṭha in Early Haṭhayoga, Jason Birch, Journal of the American Oriental Society ,Vol. 131, No. 4 (October-December 2011) , pp. 527-554 Published by: American Oriental Society Stable URL: http://www.jstor.org/stable/41440511

Mentre lo Yoga di Patanjali è uno dei sei sistemi filosofici ortodossi dell’induismo, i testi dell’haṭhayoga provengono dalla tradizione eterodossa dei Nath, che si considera sorta attorno al VII secolo d.C. Tuttavia, essi non sembrano essere stati i “padri” dell’haṭhayoga, ma sembra che abbiano codificato delle tecniche che erano state tramandate per secoli oralmente in ambito ascetico, offrendole quindi a un pubblico molto più vasto.

I maestri Matsyendra (X secolo) e Goraksha (IX-XII secolo) sono capostipiti dei Nath e ritenuti i fondatori dell’haṭhayoga. Le loro vite sono intrise di leggende ed entrambi sono identificati con Siva. Ad essi sono dedicate due āsana. Delle due, matsyendrāsana è quella oggi più celebre.

L’haṭhayoga ha influenzato fortemente pressoché tutti gli stili di yoga moderno di tipo posturale. Tuttavia, mentre oggi è popolarmente considerato sinonimo di “yoga degli āsana”, nell’haṭhayoga le posture fisiche sono parte di un percorso articolato di tecniche diverse, che oltre agli āsana comprendono anche gli shatkarma (le sei tecniche di purificazione quali il lavaggio dei seni nasali, clisteri ecc.), i prāṇāyāma, i bandha (tecniche di contrazione dell’area pelvica, di quella addominale e della gola) e i mudra (circuiti pischici a cui accenneremo brevemente più avanti).

Intendiamoci: l’obiettivo dell’haṭhayoga è sempre il samadhi (qui chiamato anche stato di unmani, o assenza di mente), comune allo yoga di Patanjali. Tuttavia decadono le restrizioni e le osservanze etico-morali e agli āsana spetta il compito di ‘primo gradino’ nel percorso dello Yoga.

Prima di tutto, gli āsana sono detti la prima parte dell’haṭhayoga. Avendo eseguito le āsana, si ottiene stabilità del corpo e della mente, libertà dalla malattia e leggerezza delle membra

haṭhayoga Pradipika, 1, 17

La pratica degli āsana ha il compito di raffinare il corpo, rimuovendo le impurità e i blocchi energetici che impediscono al prana di circolare. Stabilità, libertà dalla malattia, leggerezza dell membra: qualità già nominate da Patanjali sotto la voce tapas. Tuttavia l‘haṭhayoga affonda le mani nella materia densa, in cui la stabilità della mente è minata da eccessi di muco, malattie e deformità e descrivendo con dettaglio fino ad allora inaudito tecniche pratiche e fisiche.

La meditazione è uno stato a cui è necessario essere preparati fisicamente ed energeticamente. Riplasmare il corpo e regolare i flussi energetici significa fissare la mente. Intendiamoci: lo Yoga di Patanjali e l’haṭhayoga non sono in contrasto e descrivono lo stesso soggetto, solo che gli accenti cadono in punti differenti. Potremmo anche affermare che Patanjali descrive la meta mentre l’haṭhayoga descrive una delle vie.4È del resto suggestiva l’ipotesi secondo cui l’apparire dell’haṭhayoga sarebbe correlato alla decadenza del Buddhismo in India. Il Buddhismo classico, infatti, predilige  un approccio principalmente etico e psicologico alla dimensione spirituale. A questo influsso sembra non sia sfuggito nemmeno Patanjali: “As a result of Buddha’s popularity, meditation became the main form of spiritual practice on the entire subcontinent. However, the preparatory practices were ignored. Ethics and morality were very much overemphasized. It was at this time that the thinkers of India began to reassess Buddha’s system.
Indians believe that meditation is the highest path, but they disagree on one point – that one can start meditation immediately. Instead they believe one has to prepare oneself.[…]
It was at this time that Matsyendranath founded the Nath cult which believed that, before taking to the practices of meditation, you must purify the body and its elements. This is the theme of haṭhayoga.” Swami Muktibodhananda, haṭhayoga Pradipika (introduzione), Yoga Publications Trust, Munger, Bihar, India

L’haṭhayoga, in definitiva, è un’operazione alchemica che procede dal grossolano al sempre più sottile.

Otto milioni di āsana

Un Nath yogi che esegue mayurāsana, dipinto nel tempio di Maha Mandir, Jodpur, XIX secolo (fonte). Mayurāsana sembra del resto essere la più antica āsana non seduta a essere citata in un testo.

Il numero di āsana, per l’haṭhayoga, è sterminato: addirittura 84 lakh, misura che corrisponde a centomila unità. Tale, afferma ad esempio la Gheranda Samitha, è il numero delle creature viventi, in una sorta di percorso che ritraccerebbe l’evoluzione stessa della vita. Il numero delle posizioni descritte o anche solo nominate nei testi è tuttavia molto minore: 84 sono dette quelle più importanti, e la Gheranda Samhita ne descrive 32, mentre l’haṭhayoga Pradipika 16. Il più tardo Hatharatnavali (XVII secolo) elenca le 84 posizioni fondamentali, anche se i nomi spesso si discostano da quelli utilizzati oggi.

Nei testi dell’haṭhayoga, accanto alle posizioni meditative sedute, cominciano ad apparire gli āsana che oggi definiremmo correttivi/educativi, ossia che hanno il compito principale di agire sul tronco e sugli organi interni, ma soprattutto sulla colonna vertebrale, agendo sia al punto di vista strettamente posturale e fisico, sia liberando dalle ostruzioni il canali energetici e in special modo sushumna, che scorre proprio in corrispondenza della spina dorsale. 5La posizione che vanta la più antica attestazione sembra essere mayurāsana, la posizione del pavone, che vedremo più avanti: The peacock posture, mayurāsana, has the oldest heritage. Its description in the Light on Hatha is taken from a thirteenth- or fourteenth-century yoga manual composed in a Vaishnava milieu,
i.e., among followers of the Hindu god Vishnu, but can be traced back through other Vaishnava texts to one from approximately the ninth century.” (J. Mallinson – D. Diamond, “Asana”, in Yoga, The Art of Transformation, pp. 150-159)

Oltre alla già citata Matsyendrāsana, nomineremo, tra i più celebri āsana oggi, Paschimottanāsana (la distensione in avanti, nota anche come la pinza), Dhanurāsana (l’arco), Gomukāsana (la mucca), Mayurāsana (il pavone), Shalabāsana (la locusta), Bhujangāsana (il cobra), Garudāsana (l’aquila),  Vrikhāsana, e Savāsana (il cadavere). Quest’ultima, tra l’altro, appartiene a un’altra tipologia ancora di āsana oggi praticati, ossia quelle di rilassamento.

Capovolgimenti e dissolvimenti

Qualcuno ha fatto notare che nei testi classici dell’haṭhayoga mancano del tutto le posizioni capovolte, che sono considerate uno dei pilastri dello yoga contemporaneo. Ciò tuttavia non è del tutto esatto. Infatti, se andiamo a osservare sotto la voce “mudra”, noteremo che Viparita Karani (o Viparitakarana) prevede una posizione invertita.

Mettendo la testa sul terreno, che egli stiri le gambe in alto, muovendole a
rotazione. Questo è Viparitkarana, tenuto segreto in tutti i Tantra.

Shiva Samhita, IV,45

Viparita Karani come è comunemente praticata oggi, sia come āsana sia come mudra, da S. Satyananda, Asana, Pranyama Mudra Bandha
Viparita Karani come è comunemente praticata oggi, sia come āsana distinta da Sarvangāsana, sia come mudra, tratto da S. Satyananda, Asana, Pranyama Mudra Bandha

I mudra sono particolari circuiti psichici i cui effetti possono essere molto sottili e coinvolgere a diversi livelli il complesso umano. Questi circuiti possono essere attivati in svariati modi, tra cui anche la postura corporea. In quest’ultimo caso, la differenza tra āsana e mudra può essere molto labile.

In effetti, da Viparita Karani sembrano discendere gli āsana invertiti di Sarvangāsana (la posizione sulle spalle o della candela) e Sirsāsana, la posizione sulla testa, posizioni che Iyengar ha definito “il re e la regina” dello Yoga. Nello yoga moderno gli effetti fisiologici di queste posizioni sono stati analizzati molto in dettaglio. Giusto per rendere un’idea:

Nelle posizioni capovolte, a causa della posizione rovesciata del corpo, i meccanismi riflessi cardiovascolari vengono stimolati, il ritorno al cuore del sangue venoso diviene quindi molto facile, perché non deve vincere la forza di gravità […] Inoltre il cervello viene irrorato di sangue e così i tessuti nervosi ricevono abbondante apporto di sostanze nutritive. Allo scopo di prevenire un afflusso eccessivamente violento di sangue al cervello, si instaura un nuovo tipo di meccanismo riflesso, riguardante la circolazione nell’estremità superiore del corpo. In questo modo non solo viene tenuta sotto controllo l’intensa circolazione cerebrale durante la postura, ma anche la pressione del sangue viene mantenuta al livello ottimale durante l’attività quotidiana.

M.M. Gore, Anatomia e fisiologia delle tecniche Yoga, Magnanelli, pp. 77,88

Questa particolareggiata descrizione ci rende edotti non solo di alcuni degli effetti delle posizioni invertite mentre vengono praticate, ma anche su come esse siano in grado di riprogrammare e ricalibrare i meccanismi autonomi ben oltre la durata della pratica.

Posizione capovolta tratta dal Bahr-al-Hayt (Oceano di vita) testo in persiano redatto alla fine del XVI secolo e illustrato all'inizio del secolo successivo. http://www.asia.si.edu/explore/yoga/chapter-4-bahr-al-hayat.asp#one
Posizione capovolta tratta dal Bahr-al-Hayt (Oceano di vita) testo in persiano redatto alla fine del XVI secolo e illustrato all’inizio del secolo successivo. Il testo

Nel linguaggio dell’haṭhayoga, questa inversione è descritta come il capovolgimento del normale rapporto tra il Sole (il principio fuoco situato nell’ombelico, ovvero la forza vitale) e la Luna (la coscienza, situata nel capo), impedendo che la secrezione di quest’ultima, il nettare Amrita, venga bruciato nel fuoco vitale come avviene in condizioni normali. L’inversione di questo processo permetterebbe anche di arrestare il decadimento fisico.

Il caso di Viparita Karani, mudra ‘asanizzato’ è inoltre esemplare di come il termine “āsana”, in realtà, tenda con il tempo ad inglobare pratiche di diversa natura. Del resto, già nei testi sopra citati dell’haṭhayoga, viene annoverata tra gli āsana anche Mritāsana o Savāsana, ovvero la posizione del “cadavere”, che appartiene a una tecnica del Laya Yoga (un altro sistema coevo all’haṭhayoga, che mira dissolvere la mente), oltre a fornire in epoca contemporanea il supporto prediletto per la pratica di rilassamento profondo o sonno yogico dello Yoga Nidra.

Ricordiamo inoltre Maha mudra, praticato oggi quasi unicamente come postura, e come tale presentato ad esempio da Iyengar e ancor prima dal suo maestro Krishnamacharya.

Qual è dunque il confine tra l’āsana, la postura fisica e qualcos’altro ancora? È possibile tracciare una linea definitiva?

Ma allora, che cos’è un āsana?

Il termine Hatha, come abbiamo visto, sembra riferirsi a una certa forza o violenza. Tuttavia, perlomeno nell’haṭhayoga delle origini, ciò non sembra riferirsi alla forza fisica. Ma se oggi lo yoga è identificato – a torto o ragione – con la pratica degli āsana, urge allora comprendere in cosa differisce la pratica degli āsana da altri tipi di esercizio fisico. Ecco alcuni punti che marcano le principali differenze:

  1. Mentre l’attività fisica ha come obiettivo il potenziamento e condizionamento muscolare, gli āsana mirano a produrre effetti sugli organi interni e sulla consapevolezza del corpo, ad esempio modificando la pressione nelle cavità interne del tronco, sviluppando la propriocezione e la viscerocezione, regolando l’attività endocrina.
  2. Lo sforzo e la contrazione muscolare sono parte integrante dell’esercizio fisico in quanto sono la base stessa per il potenziamento; nello yoga invece lo sforzo è contemplato solo in misura limitata durante la fase di apprendimento e di assunzione della posizione, mentre nella fase di mantenimento la muscolatura è rilassata (o meglio, in contrazione isometrica).
  3. Metabolismo e catabolismo sono accelerati nell’esercizio fisico, mentre nella pratica degli āsana sono rallentati, così come il consumo di ossigeno.
  4. Durante l’esercizio fisico l’attenzione può non essere richiesta in maniera esclusiva (ad esempio, parlo con il mio vicino mentre corro sul tapis roulant), oppure è diretta a ciò che ‘fa’ il corpo esternamente o all’interazione con altri; durante la pratica di un āsana la consapevolezza è rivolta all’interno, nell’osservazione del respiro e dei processi mentali, quando non si stia eseguendo una precisa tecnica respiratoria o non si stia dirigendo la concentrazione verso un’area specifica.

Il quadro non è certo esaustivo, ma basta per rendere l’idea di una differenza che oggi non sempre è chiara nemmeno agli addetti ai lavori.6Si veda per approfondimenti M.M. Gore, Anatomia e Fisiologia delle tecniche Yoga, Magnanelli e S. Satyananda Saraswati, Asana, Prāṇāyāma, Mudra Bandha, Bihar

Tempi postmoderni

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…non esattamente tapas

Tra la pratica degli āsana nel medioevo e la pratica degli āsana nel ventunesimo secolo sono cambiate molte cose. La madre di tutte le novità è che lo Yoga si è diffuso in tutto il mondo e viene praticato da milioni di persone non solo come disciplina con finalità strettamente spirituali, ma anche e soprattutto per migliorare il benessere, la forma fisica, o come forma di terapia. Discorrere su come e perché ciò sia accaduto sarebbe molto interessante, ma ci porterebbe molto lontano e richiederebbe spazi appositi.

Accontentiamoci per il momento di considerare che è bene esentarsi dall’esprimere giudizi di valore sulle aspirazioni dei suoi praticanti, perché spesso tali aspirazioni non sono quello che sembrano, nel male ma anche e soprattutto nel bene.

Intanto, però, lo yoga è diventato anche un mercato. Più che nuovi sistemi di Yoga, sono sorti innumerevoli ‘stili’, le cui differenze vertono soprattutto sulle modalità di esecuzione degli āsana e sui metodi per arrivare ad eseguirle.

A Trimulai Krishnamacharia si deve gran parte dello yoga contemporaneo, sia per i suoi insegnamenti, sia per essere stato il maestro, tra gli altri, di Patthabi Jois e di B.K.S. Iyengar.
A Tirumalai Krishnamacharya si deve gran parte dello yoga contemporaneo, sia per i suoi insegnamenti, sia per essere stato il maestro, tra gli altri, di Patthabi Jois e di B.K.S. Iyengar.

Si è molto dibattuto negli ultimi vent’anni su quanto la pratica odierna debba a una tradizione yogica “autentica” e quanto invece abbia risentito delle pratiche in uso presso militari, ginnasti e lottatori indiani, oltre che delle pratiche ginniche diffuse in europa e in America tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, le quali condividevano spesso aspirazioni ‘spirituali’. Mark Singleton e il meno noto N.E. Sjoman hanno indagato ampiamente questo argomento, con ricchezza documentale, ma anche questo argomento meriterebbe di essere trattato a parte.7N.E. Sjoman, The Yoga Tradition of the Mysore Palace, Abhinav Publications, 1996

M. Singleton, The Yoga Body: The Origin of Modern Posture Practice, Oxford University Press USA

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Sicuramente, lo Yoga moderno sembra presentare due novità di rilievo rispetto alla pratica degli āsana: la prima è lo sviluppo di diversi āsana rafforzativi, soprattutto a base in piedi; la seconda è l’utilizzo di sequenze in movimento, prima fra tutte il Surya Namaskar (il saluto al Sole), che sarebbe stato inventato nel 1929 dal raja Pratinidhi Pant di Aundh, nell’ambito del suo programma di salute pubblica e di educazione fisica.8S. Reddy, Modern Postural Yoga, in Yoga, The Art of Transformation, pp. 150-159

E proprio il caso del Surya Namaskar sarebbe emblematico: in seguito all’enorme successo della pubblicazione di Pratinidhi Pant illustrava la sequenza, la pratica del “saluto al sole” non solo è entrata nella routine della pratica yogica, ma in alcune scuole è stata associata a un’antica pratica di venerazione del sole attraverso un complesso sistema di recitazione di mantra che risale veramente all’epoca vedica. 9Ad esempio, nel Satyananda Yoga: http://www.yogamag.net/archives/2006/emay06/sn.shtml Per cui, quando ci sentiamo dire che il saluto al sole affonda le radici nell’antichità, si dice qualcosa di vero e di falso allo stesso tempo.

Ma il fatto che lo Yoga sia soggetto a mutamenti è fuori di discussione ed è un falso problema: come abbiamo visto, lo è sempre stato. Se è quindi vero che lo Yoga contemporaneo, nelle sue forme e nei suoi ibridi più commercializzati, possa degradarsi a forme di fitness poco distinguibili da ‘prodotti’ simili presenti sul mercato, al tempo stesso esiste anche la tendenza inversa, ovvero la capacità di trasformare in Yoga anche le pratiche e gli influssi più eterogenei.

Del resto, vorrei concludere con una citazione dello stesso Sjoman. Una tradizione basata sulla performance piuttosto che sull’ortodossia a dei testi, è per forza di cose dinamica, soggetta a trasformazioni, la cui conoscenza

non insegna un contenuto oggetto, ma un metodo di apprendimento, una guida per correggere il pensiero. Nel caso dello yoga, insegna una risposta fisica. In realtà, gli āsana yoga sembrano essere un tipo di risposta fisica talmente potente che è sopravvissuta e ha prosperato anche attraverso enormi follie. […]
Che dire delle origini storiche di alcuni degli āsana – per esempio la viparitacakrāsana, che sembra non avere alcun fondamento nello yoga, ma è stata presa dalla ginnastica? Dal punto di vista yogico di definizione funzionale, niente ha il diritto di essere chiamato un āsana in sé.
Qualcuno che fa un āsana tradizionalmente accettata può eseguirla nel modo in cui la farebbe un sollevatore di pesi “muscolo-contrattore”, o può farla simbolicamente aspettandosi qualche vantaggio spirituale dall’assumere quella forma particolare.
In nessuno dei casi rientra nel campo di applicazione della definizione – abbandono dello sforzo, equilibrio e trascendenza. Il movimento che in origine era ginnico è compiuto in modo diverso da un ginnasta e diversamente da uno studente di yoga che ha lavorato con il suo corpo, i suoi schemi consci e inconsci di movimento muscolare. 10Sjoman, p.61

Per concludere

Abbiamo visto, in questo lungo articolo, la definizione di Patanjali di un unico āsana che al tempo stesso contiene tutte gli altri āsana che furono introdotte in seguito. Abbiamo accennato alle austerità praticate degli asceti, prima che divenissero āsana anch’esse, e il cedere oltre il senso dei propri confini. Abbiamo visto il principio di trasmutazione dell’haṭhayoga delle origini. E, infine, la capacità di trasformazione dello Yoga stesso, attraverso il contatto con il mondo moderno al di là dei confini entro cui si è sviluppato. In modo non sempre riuscito, certo, ma le assurdità e le contraddizioni hanno sempre un potenziale evolutivo.

Lo Yoga, come principio di unione, è al tempo stesso dentro tutto questo e trascende tutto questo. L‘intero può e deve essere trovato in ogni sua parte e al tempo stesso ogni sua parte, se dissezionata e separata, non contiene nulla dell’intero.

Ritengo che gli āsana, insomma, malgrado tutto quello che oggi sappiamo su di esse anche sotto il profilo scientifico, conservino il principio attivo nella misura in cui conservano lati d’ombra, di enigma.  “La conoscenza di ciò non è mai esistita nel passato né esisterà nel futuro”: sono parole contenute nella Yoga Chudamani Upanishad e riferite al mantra del respiro, proprio il respiro in cui occorrerebbe lasciar assorbire la propria consapevolezza durante durante l’esecuzione di āsana.

Qualcosa che non è mai esistita in passato né esisterà nel futuro, ma è solo ora: quale migliore non-definizione di ciò che si può trovare dello Yoga anche, sì, anche in una semplice postura fisica.

Sivananda Saraswati ha avuto grande influenza nella diffusione dello Yoga al di fuori dell'India nella sua dimensione "posturale".
Sivananda Saraswati ha avuto grande influenza nella diffusione dello Yoga nel mondo intero nella sua dimensione “posturale”.  “Il testo della Divine Life Society Sivananda, Biography of a Modern Sage, contiene alcune interessanti fotografie di Sivananda nell’atto di praticare āsana nell’ultimo periodo della sua vita” scrive Peter Connolli (Il pensiero Yoga, Red) “Nessuna può essere definita ‘perfetta’. Il fatto di eseguirle era, pare, più importante del risultato”.

Note[+]

Note
↑1 Yoga Sutra, I, II
↑2 J. Mallinson, A Response to Mark Singleton’s Yoga Body
↑3 The Meaning of haṭha in Early Haṭhayoga, Jason Birch, Journal of the American Oriental Society ,Vol. 131, No. 4 (October-December 2011) , pp. 527-554 Published by: American Oriental Society Stable URL: http://www.jstor.org/stable/41440511
↑4 È del resto suggestiva l’ipotesi secondo cui l’apparire dell’haṭhayoga sarebbe correlato alla decadenza del Buddhismo in India. Il Buddhismo classico, infatti, predilige  un approccio principalmente etico e psicologico alla dimensione spirituale. A questo influsso sembra non sia sfuggito nemmeno Patanjali: “As a result of Buddha’s popularity, meditation became the main form of spiritual practice on the entire subcontinent. However, the preparatory practices were ignored. Ethics and morality were very much overemphasized. It was at this time that the thinkers of India began to reassess Buddha’s system.
Indians believe that meditation is the highest path, but they disagree on one point – that one can start meditation immediately. Instead they believe one has to prepare oneself.[…]
It was at this time that Matsyendranath founded the Nath cult which believed that, before taking to the practices of meditation, you must purify the body and its elements. This is the theme of haṭhayoga.” Swami Muktibodhananda, haṭhayoga Pradipika (introduzione), Yoga Publications Trust, Munger, Bihar, India
↑5 La posizione che vanta la più antica attestazione sembra essere mayurāsana, la posizione del pavone, che vedremo più avanti: The peacock posture, mayurāsana, has the oldest heritage. Its description in the Light on Hatha is taken from a thirteenth- or fourteenth-century yoga manual composed in a Vaishnava milieu,
i.e., among followers of the Hindu god Vishnu, but can be traced back through other Vaishnava texts to one from approximately the ninth century.” (J. Mallinson – D. Diamond, “Asana”, in Yoga, The Art of Transformation, pp. 150-159)
↑6 Si veda per approfondimenti M.M. Gore, Anatomia e Fisiologia delle tecniche Yoga, Magnanelli e S. Satyananda Saraswati, Asana, Prāṇāyāma, Mudra Bandha, Bihar
↑7 N.E. Sjoman, The Yoga Tradition of the Mysore Palace, Abhinav Publications, 1996

M. Singleton, The Yoga Body: The Origin of Modern Posture Practice, Oxford University Press USA

↑8 S. Reddy, Modern Postural Yoga, in Yoga, The Art of Transformation, pp. 150-159
↑9 Ad esempio, nel Satyananda Yoga: http://www.yogamag.net/archives/2006/emay06/sn.shtml
↑10 Sjoman, p.61
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Pranayama: vita, respiro, morte e miracoli

4 Dicembre 2014 by Francesco Vignotto 3 commenti


Contenuti

  • Vita e morte, in un soffio
  • Prana, respiro, energia
  • Ma che cos’è il Pranayama?
  • I cinque soffi vitali o Prana Vayu
    • Prana e Apana, la pulsazione vitale
    • Samana, il fuoco; la mente, il sacrificante
  • Energia e coscienza
    • Nadi e chakra
    • Ha-tha: Ida e Pingala, sole e luna
    • Sushumna o ‘il sentiero di mezzo’
  • Miracoli

Vita e morte, in un soffio

Non avevo realmente idea di cosa fosse il respiro, fino alla morte di mio padre. Praticavo Yoga da alcuni anni, e sicuramente quando mi dicevano di inspirare e di espirare ero convinto di farlo. Ma quel giorno, o meglio in quell’istante, mi accorsi che non ne sapevo in realtà nulla.

Mio padre non morì dopo una lunga malattia debilitante, ma per infarto, nel giro di pochi secondi. Del suo trapasso ricordo solo un intenso e lungo espiro, nel quale tutto si risolse. Qualunque resistenza sarebbe stata inutile al suo passaggio: quel suono, che partiva dalle viscere, tagliò come un rasoio tutti nodi che incontrava. E come da uno strato di sogno si è svegliati a un altro, un attimo prima il corpo era vivo, un attimo dopo era morto.

Al di là dell’estremo shock della circostanza e di tutte le implicazioni personali della vicenda, credo che mio padre – che non praticò mai pratiche respiratorie in vita sua – mi abbia dato al momento della sua morte un insegnamento che difficilmente si può cogliere nei testi.

Numerose tradizioni a Oriente e Occidente parlano della vita – e, se vogliamo – dell’anima insufflata dal respiro divino. Le parole greche pneuma e psiche, così come il sanscrito Atman (il Sé) nascondono nell’etimo il doppio significato di respiro, anima e spirito.
Il primo respiro ci accompagna alla nascita e l’ultimo alla morte. Sarebbe però errato considerare soltanto gli estremi: l’esperienza dello spirare di mio padre innescò la consapevolezza l’intera vita è una pulsazione tra questi due poli, tra affermazione e negazione, a ogni istante e a ogni inspiro ed espiro, e come nel Taijitu taoista lo yin è contenuto il seme dello yang e viceversa.

Nella tradizione yogica indiana, di cui parlerà questo articolo, la pulsazione del respiro è solo l’indizio di una dinamica molto più vasta, sia all’interno del singolo individuo, sia, del fenomeno della vita e dell’energia nell’universo, che qui è chiamata Prana, ossia il legame, l’equazione ritmica tra la materia e la coscienza.

In questo articolo parlerò anche di pranayama, ossia l’insieme di pratiche yogiche dedicate specificamente al controllo del prana, ma non mi addentrerò nella descrizione di particolari tecniche di pranayama: sia perché aggiungerebbe troppa carne al fuoco a un articolo già corposo, sia perché lo scopo è qui di approfondire i principi generali.

Prima di entrare nel vivo, un avvertenza e una preghiera: quanto segue è naturalmente filtrato attraverso un’esperienza individuale – piccola o grande che sia – e anche i testi citati sono filtrati attraverso tutti i limiti di quell’esperienza. Non ha la pretesa quindi di essere esaustiva sull’argomento, né di fornire l’interpretazione autentica di una tradizione che vanta diverse migliaia di anni e altrettante filiazioni e visioni differenti.

In quanto tale, qualunque contributo che ne condivida lo stesso spirito (leggi: senza la presunzione di possedere la verità ultima) sarà accolto a braccia aperte.

Prana, respiro, energia

Invero tutti gli esseri nel prana stesso vanno a riassorbirsi e dal prana emergono

Chandogya Upanishad, I, 11, 5
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Quando si parla di respiro nello Yoga e nella tradizione indiana, è di fatto impossibile scinderlo dal molto più vasto aspetto energetico vitale e universale a cui esso è collegato.

Per questo, il termine Prana ricorre con diversi significati, dei quali uno dei più particolari è il processo respiratorio propriamente detto.

Nella sua accezione più generale, invece, il Prana è l’energia, il principio dinamico, presente illimitatamente e ovunque nello spazio e che sostiene la vita nell’universo. È errato tuttavia ritenere che il Prana sia relativo alla sola vita organica, o alla vita individuale, ma occorre precisare che il concetto di ‘vita’ è qui onnicomprensivo:

Dal punto di vista yogico, l’intero cosmo è vivo, palpitante di prana.
Il Prana è sempre presente in ogni aspetto della creazione. Il prana all’interno di ogni oggetto creato dona esistenza materiale e forma, che si tratti di un pianeta, un asteroide, un filo d’erba o un albero. Se non ci fosse il prana, non ci sarebbe vita. Se il prana si ritraesse dall’universo, ci sarebbero la disintegrazione totale. Tutti gli esseri, viventi o non viventi, esistono a causa del prana. Ogni manifestazione nella creazione fa parte di una matrice infinita di particelle di energia, disposte in diverse densità, combinazioni e variazioni. Il principio universale del prana può essere in una fase statica o dinamica, ma è dietro a ogni esistenza su ogni piano dell’essere dal più alto al più basso. 1Swami Niranjanananda Saraswati, Prana and Pranayama, Yoga Publications Trust, 2009, p.9

In altre parole, il piano fisico sarebbe lo stato più ‘denso’ o statico di un flusso energetico in costante movimento. Interessante a questo proposito l’etimologia della parola prana secondo Gitananda Giri:

La parola prana, a sua volta, può essere scomposta in due parti; pra che sta per “esistere indipendentemente” o “avere un’esistenza precedente”, e ana che è l’abbreviazione di anna, (anu) una cellula. Un atomo o una molecola si chiamano anu di cui tutta la vita è costituita.
Prana esprime quindi l’idea di ciò che esisteva prima della nascita della vita atomica o cellulare. 2Swami Gitananda Giri, La voce del re serpente: saggi sull’Astanga Yoga di Patanjali, Ed. Laksmi, p.86

Socrates Geens: Secrets of the five bodies
Socrates Geens: Secrets of the five bodies

Al Prana cosmico, corrisponde un Prana individuale. La sopravvivenza del corpo fisico umano (annamaya kosha, “corpo fatto di cibo”) dipende direttamente da quella del corpo pranico (pranamaya kosha), alimentato sia dall’aria che respiriamo, ma anche dagli elementi vitali che assorbiamo attraverso il cibo.

Il prana, inoltre, è il legame tra il corpo fisico e gli strati ulteriormente sottili del complesso umano: il corpo mentale (manomaya kosha), il corpo intuitivo (vijnanamaya kosha) e il corpo di beatitudine (anandamaya kosha). Il “contenuto” ultimo di questi involucri è l’Atman o Purusha, il Sé, l’essenza spirituale o pura coscienza individuale che non sempre (non secondo tutte le visioni) è distinta (o ha senso distinguere) da quella universale.

L’uomo è dunque un continuum di corpo fisico, energia, mente, subconscio e inconscio che interagiscono grazie al prana. Agire su questo link energetico per far emergere in ultima istanza il “contenuto” di pura coscienza è lo scopo delle tecniche yogiche in generale, ma soprattutto di quelle che rientrano sotto il nome di Pranayama.

Ma che cos’è il Pranayama?

Il pranayama è un complesso di tecniche yogiche che utilizzano principalmente il respiro per regolare i processi energetici e mentali conducendoli a uno stato di quiete. Nello Yoga vengono normalmente introdotte dopo aver padroneggiato le posture (asana).

La parola pranayama è interpretabile secondo due significati etimologici: prana-ayama e prana-yama. Ayama significa espandere, mentre yama significa controllare, ritenere il respiro.

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Come vedremo, entrambe le interpretazioni sono corrette e, nonostante l’apparente paradosso, conciliabili: attraverso l’espansione del prana si arriva al controllo dei soffi vitali e quindi a ridurre il loro dinamismo fino all’immobilità, così come la pratica delle asana ha l’obiettivo dell’immobilità del corpo; e così come asana e pranayama convergono verso l’immobilità della mente, per condurre a esperire lo stato di pura coscienza.

Ma che cos’è, in pratica, il pranayama? Proviamo a formulare una sintesi dal punto di vista pratico:

  1. Nella fase propedeutica, il pranayama comprende un serie di tecniche per rendere il praticante consapevole della respirazione naturale, per poi rendere gradualmente più ampia la respirazione, coinvolgendo l’apparato muscolo-scheletrico (in particolar modo la colonna vertebrale, la gabbia toracica, la muscolatura relativa e il diaframma) e favorendo il pieno utilizzo dei polmoni; questa fase non è ancora definibile propriamente come pranayama, ma svolge un’importante funzione di igiene respiratoria, oltre ad armonizzare i processi psicofisici e a fornire la base tecnica per le fasi successive.
  2. Il pranayama propriamente detto consiste nella regolazione delle fasi di inspiro ed espiro e delle fasi di ritenzione (a polmoni pieni e a polmoni vuoti), secondo diversi ritmi e combinazioni. In questa fase l’attenzione si sposta gradualmente dalla respirazione ‘fisica’ a quella più puramente pranica: lo scopo principale è la pulizia dei canali energetici e degli ostacoli psichici alla circolazione del Prana.
  3. Il naturale sbocco del pranayama è l’interiorizzazione: il respiro diviene sempre più sottile, fino a divenire quasi impercettibile o cessare completamente. È la fase di ritenzione spontanea, che conduce alle fasi dello Yoga descritte da Patanjali come: ritrazione dei sensi (Pratyahara), concentrazione (Dharana), meditazione (Dhyana) e riassorbimento (Samadhi).

Come vedremo, la respirazione è connessa in modo molto complesso al funzionamento del sistema nervoso autonomo e ai processi psichici. Proprio per questo ogni testo dedicato al pranayama avverte che le tecniche devono essere apprese sotto la sorveglianza di una guida esperta, in quanto l’errata applicazione può provocare seri disturbi.

Ma dopo questa sintesi sommaria, scendiamo nel dettaglio e vediamo come il pranayama agisce, cogliendo l’occasione per approfondire il funzionamento del corpo energetico umano.

I cinque soffi vitali o Prana Vayu

elettrocardiogramma

Nel corpo pranico, il Prana si differenzia in cinque principali soffi o venti vitali, i Prana Vayu, connessi tra loro in modo molto complesso. 3Per la precisione, esisterebbero anche altri 5 soffi sussidiari, di cui qui non parleremo per non rendere il discorso troppo complesso. I Prana Vayu sono da intendere come qualità diverse di un unico Prana, e i punti di localizzazione sono da interpretare come i centri di gravità di energie che in realtà influiscono sull’intero organismo:

Il corpo pranico: Prana, Apana, Samana, Udana e Vyana (quest'ultimo pervade l'intero corpo)
Il corpo pranico: Prana, Apana, Samana, Udana e Vyana (quest’ultimo pervade l’intero corpo)
  • Prana (qui da intendersi come soffio particolare e da non confondere con il Prana corsmico): è situato nel torace, è correlato all’inspiro e più in generale all’assorbimento del Prana non solo dall’aria respirata, ma anche dal cibo e dall’atmosfera.
  • Apana: ha sede nella regione pelvica, governa organi escretori e riproduttivi; è correlato all’espiro e in generale all’escrezione e alla sessualità.
  • Samana: situato nella regione dell’ombelico, è il soffio responsabile della digestione del cibo sotto ogni forma, compresi i pensieri e le emozioni, alimentando quindi Udana.
  • Udana: situato nel capo e negli arti, è il soffio che porta ‘in alto’ il prodotto di Samana, regolando il funzionamento degli organi sensoriali e degli organi dell’azione, alimentando Vyana.
  • Vyana: circola nell’intero corpo, ed è il soffio responsabile della distribuzione dell’energia allo stato più raffinato.

Prana e Apana, la pulsazione vitale

Prana e Apana sono l’input e l’output dell’essere umano e controllano le due funzioni macroscopiche del ciclo energetico e determinano il flusso degli altri tre Prana Vayu. Se Prana e Apana si arrestassero, tutti gli altri soffi vitali cesserebbero di conseguenza e moriremmo nel giro di pochi minuti.

In relazione alla respirazione umana, Prana viene normalmente utilizzato come sinonimo di inspiro, e Apana come sinonimo di espiro.

In altri termini, Apana è l’energia che ci mette in contatto con il mondo fisico, permettendoci di interagire con esso tramite il corpo, di eliminare la materia densa ma anche di generare nuova vita; Prana invece è la spinta ascensionale verso l’energia pranica e ne stimola l’assimilazione: Apana e Prana sono Yin e Yang, espressi nei termini della Tradizione Cinese: vuoto e pieno che contengono l’uno il seme dell’altro, così come il vuoto creato dalla contrazione del diaframma al termine dell’espiro genera l’inspiro. Il loro ritmico alternarsi è la pulsazione di ogni essere vivente, anche se non associato alla respirazione aerobica polmonare.

prana-apana
Prana e Apana

Nelle Upanishad si afferma tuttavia che la parte interiore dell’essere umano, costantemente spinta da queste due forze pulsanti in direzioni opposte, non possa mai emergere. 

La Dhyana Bindu Upanishad descrive l’anima come un uccello che, spiccando continuamente il volo spinto da Prana, viene regolarmente tirato in basso dalla corda Apana, per un principio di azione e reazione, come un pallone che salta in alto proprio perché è stato percosso verso il basso, perché “Prana sempre si trae da Apana”. 4”Lo Jiva [l’anima individuale] che si trova sotto l’influenza di Prana e Apana va su e giù.
Lo Jiva a causa del suo muoversi continuo sul percorso destro e sinistro, non è visibile. Proprio come una palla percossa (sulla terra) salta in alto, così Jiva sempre lanciato da Prana e Apana non è mai a riposo.
Conosce lo Yoga chi sa che Prana sempre si trae da Apana e Apana  trae da Prana, come un uccello (allontanandosi e tuttavia non liberandosi) dalla stringa (a cui è legato).”
Dhyana Bindu Upanishad, 58-61a

Su questo passo vedi anche Swami Muktibodhananda, Swara Yoga: The Tantric Science of Brain Breathing, Yoga Publications Trust, p. 43-45.

In altre parole, questa pulsazione vitale è ambivalente: da un lato ci mantiene in vita, ma al tempo stesso ci comprime in un circolo chiuso, che non permette evoluzione. Avendo penetrato questa dinamica, e nella consapevolezza che non si può ‘tagliare la corda’ di Apana senza recidere anche Prana, lo Yoga utilizza queste due forze normalmente divergenti facendole convergere e generando così un surplus di energia.

Samana, il fuoco; la mente, il sacrificante

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Per questo occorre utilizzare un principio trasmutatore, una terza forza: questa forza è Samana, il fuoco. Come abbiamo visto, Samana è il soffio che ‘digerisce’: aria, cibo, pensieri, emozioni.

Nel Pranayama, l’azione di Samana viene potenziata regolando consapevolmente inspiro ed espiro e invertendo quindi la loro direzione, portando Prana in basso e Apana in alto, ed esercitando la terza fase del respiro, cioè la ritenzione, aumentando quindi il tempo di assimilazione di Prana e Apana.5Swami Muktibodhananda. Swara Yoga: The Tantric Science of Brian Breathing, Yoga Publications Trust, p. 44 Quest’operazione è spesso descritta nei termini del rito sacrificale vedico:

Altri offrono come sacrificio il respiro esalante [Apana] nell’inalante [Prana], e l’inalante nell’espirante, controllando il corso dei respiri esalanti ed inalanti [pranapana-gati], completamente assorbiti nel dominio del respiro.

Bhagavad Gita, IV, 29

Quello che reca equamente queste due oblazioni, che sono l’inspirazione [Prana] e l’espirazione [Apana] è il samana. La mente, in verità, è il sacrificante.

Prasna Upanishad, IV, 4
Pranayama

Oltre a Prana, Apana e Samana, i due passi tratti dalla Bhagavad Gita e dalla Prasna Upanishad aggiungono un elemento in più: nel pranayama è infatti richiesta la presenza del sacrificante, ossia la mente. Non si tratta però di un’operazione meramente concettuale e dobbiamo prescindere dall’accezione di sacrificio come rinuncia o immolazione. Il sacrificio (da sacer facere, letteralmente “rendere sacro”) è, in ultima analisi, compiere consapevolmente ciò che in condizioni normali viene compiuto sotto la pressione degli impulsi.

Quando l’oggetto del sacrificio è il respiro, ciò assume un significato particolare, perché questa è l‘unica funzione autonoma che possiamo alterare volontariamente, a differenza della  del battito cardiaco, della circolazione del sangue o della digestione, che tuttavia dal respiro sono fortemente influenzati.

Il prana, come abbiamo visto, è il nesso tra mente conscia, funzioni autonome, corpo e tutti gli altri ‘strati’ dell’essere umano. Ciò significa anche che regolando volontariamente il respiro possiamo regolare da un lato tutti gli altri processi vegetativi; dall’altro, l’attività della mente stessa.

Recita l’Hata-yoga Pradipika:

Colui che ha controllato il respiro, allo stesso tempo ha controllato la mente. E colui che ha controllato la mente, ha controllato anche il respiro.

Hata-Yoga Pradipika IV, 21

Finché il respiro è continuo, la mente rimane instabile, quando (esso) si arresta, (la mente) diviene calma e lo Yoghi raggiunge l’immobilità assoluta. Per questo si deve ritenere il respiro.

Hata-yoga Pradipika, II, 2

Come abbiamo già evidenziato, la ritenzione spontanea è il fine ultimo delle tecniche di pranayama: il respiro si riduce al minimo, o cessa completamente, ottenendo  il completo controllo sul corpo e l’immobilità della mente, permettendo così di percepire gli ‘strati’ più sottili che in condizioni normali sono offuscati dall’attività corporea e da quella mentale. 6

Significativi sono i pochi sutra dedicati da Patanjali al pranayama:


Realizzato questo [la padronanza del corpo con le asana] si ha il pranayama che è controllo e cessazione del movimento d’inspirazione e d’espirazione.
Questa regolazione della respirazione durante le sue fasi di espirazione, inspirazione e ritenzione, è inoltre soggetta a condizioni di tempo, luogo e numero, ognuna di queste potendo essere lunga o breve.
Vi è una tecnica particolare per regolare la respirazione che è in rapporto sia con quanto detto nel sutra precedente, sia con la sfera interiore del respiro.
Per mezzo di questa regolazione della respirazione l’offuscamento della mente, che è il normale risultato dell’influenza del corpo, è eliminato.
E così la mente si trova pronta per gli atti consapevoli.
Yoga Sutra, II, 49-53

Secondo l’Hata-yoga Pradipika, inoltre, la ritenzione spontanea è il vero pranayama:

Il pranayama è diviso in tre parti: rechaka (espirazione), puraka (inspirazione), e kumbhaka (ritenzione). Si ritiene che vi siano due tipi di kumbhaka: sahita [accompagnato da rechaka e puraka] e kevala [solo, senza rechaka né puraka].
Si deve praticare sahita-kumbhaka, finché non si ottiene il successo in kevala-kumbhaka, che è la semplice ritenzione del respiro, senza recaka né puraka.
Questo kumbhaka, puro, isolato, rappresenta il vero pranayama.
(Yoga Sutra, II, 49-53)

Energia e coscienza

Oltre al dualismo di Prana e Apana, c’è un’altra coppia di opposti che lo Yoga mira a unificare: quella tra l’energia vitale e l’energia mentale, due espressioni della stessa energia a livelli vibratori differenti, simboleggiati da Sole e Luna.

Per comprendere quali sono i termini di questa coppia di opposti dobbiamo fare però almeno un accenno agli ‘organi’ che regolano e distribuiscono il Prana  all’interno del corpo energetico umano.

Nadi e chakra

Le 72.000 nadi
Le nadi: come si può intuire, la questione è molto complessa…

Secondo la fisiologia indiana, il prana scorre attraverso una rete fittissima di canali, detti nadi, e il suo flusso è regolato da diverse centraline, ovvero i chakra, che funzionano da veri e propri ‘server’ nella trasmissione dell’energia.  7
“La generazione e la distribuzione del prana nell’organismo umano possono essere paragonate a quelle dell’energia elettrica. L’energia dell’acqua che cade o del vapore che ascende fa ruotare le turbine entro un campo magnetico per generare l’elettricità. L’elettricità viene poi immagazzinata negli accumulatori, e l’energia viene resa più o meno intensa mediante i trasformatori che regolano il voltaggio o la corrente. Quindi viene trasmessa lungo i cavi per illuminare le città o far funzionare i macchinari. Il prana è come l’acqua che cade o il vapore che ascende. L’area toracica è il campo magnetico. I processi della respirazione, inalazione, esalazione e ritenzione del respiro funzionano come le turbine, mentre i chakra rappresentano gli accumulatori e i trasformatori. L’energia (ojas) generata dal prana è come l’elettricità. Viene resa più o meno intensa dai chakra, e distribuita in tutto l’organismo lungo nadi, dhamani e sira, che sono i cavi di trasmissione. Se l’energia generata non viene debitamente regolata, distrugge il macchinario e l’equipaggiamento. Lo stesso avviene con il prana e l’ojas, perché essi possono distruggere il corpo e la mente del sadhaka.”
B.K.S Iyengar, Teorie e tecniche del pranayama, ed. Mediterranee, p.67

Senza voler entrare in una digressione che ci porterebbe lontano, ci limiteremo a osservare che sia per le nadi sia per i chakra si è tentato di individuare un corrispettivo fisiologico nel sistema circolatorio, nelle ghiandole endocrine e nei plessi nervosi.

Tuttavia, sebbene nadi e chakra trovino spesso delle corrispondenze nel corpo, ritengo che sia un errore voler identificare l’organo fisico con la sua controparte energetica: sarebbe come confondere la mente con la fisiologia del cervello, o, come abbiamo visto più sopra, il ciclo dell’ossigeno nella respirazione grossolana con la circolazione del prana.

Gli organi fisici sono quindi da intendere come i punti di interconnessione, o meglio le interfacce tra le attività fisiologiche e le attività energetiche e psichiche. Queste ultime, peraltro, sono allo stato ordinario espresse perlopiù solo in potenza. Comunque sia, come tutta la geografia sottile, nulla è da prendere  schematicamente alla lettera.

Socrates Geens: Sacred Mirror
Socrates Geens: Sacred Mirror

Si considerano comunemente sette chakra principali, anche se spesso si fa riferimento a numerosi centri secondari, disposti tra il perineo (Muladhara chakra) e la sommità della testa (Sahasrara chakra, che non sempre però è considerato alla stregua degli altri chakra). Queste due estremità rappresentano i poli attraverso cui si sviluppa l’esperienza yogica: l’Energia o Spazio (Shakti) e la Coscienza o Tempo (Shiva) che al culmine di tale esperienza realizzano l’originaria identità.

Tra di essi, vi è il centro sessuale (Svadhisthana), il centro vitale e dinamico (Manipura, nella regione dell’ombelico), il centro cardiaco, sede delle emozioni più raffinate e incondizionate (Anhata), il centro della gola (Vishuddhi) e quello mentale (Ajna, o “centro di controllo” situato in corrispondenza dell’epifisi).

Le nadi, infine, sono state quantificate in diverse decine di migliaia (72.000 o addirittura 350.000 secondo la Shiva Samhita), tuttavia lo Yoga si occupa principalmente delle tre nadi più importanti, che regolano il funzionamento di tutte le altre. In realtà, delle tre soltanto due (Ida e Pingala) sono normalmente attive, mentre la terza (Sushumna) è allo stato normale solo una potenzialità.

Ha-tha: Ida e Pingala, sole e luna

Ida e Pingala scorrono rispettivamente a sinistra e a destra della colonna vertebrale. Originano entrambe nella regione pelvica (sede del chakra mooladhara, centro dell’energia fisica), e terminano nell’Ajna chakra, nel centro del capo. Tra questi due estremi, a voler essere precisi, i tragitti di Ida e Pingala non sono lineari (come indicato simbolicamente dell’immagine qui a fianco) ma formano due sinusoidi che attraversano ogni centro, come in questa figura:

idapingala

Con Ida e Pingala incontriamo un’altra polarità, un’altra coppia di Yin e Yang. Se il dualismo Prana-Apana rappresentano energeticamente alto e basso, cioè la spinta verso la materia (escrezione) e quella verso l’energia più raffinata (assorbimento di Prana), quello di Ida e Pingala rappresenta il polo energetico negativo e quello positivo dell’essere umano, tra energia mentale ed energia vitale. Nell’essere umano, questa polarità si riflette sia nella lateralità corporea, sia a livello di sistema nervoso centrale, sia di quello periferico:

  • Ida è il polo ‘negativo’, regolato dalla respirazione della narice sinistra. È correlata all’attività mentale, emotiva e ricettiva, orientando l’attenzione verso l’interno. Corrisponde al sistema nervoso parasimpatico e all’attività dell’emisfero destro dell’encefalo, che controlla il lato sinistro del corpo.
  • Pingala è il polo ‘positivo’, regolato dalla respirazione nella narice destra. È correlata all’energia vitale fisica e al pensiero lineare, orientando l’attenzione verso il mondo esterno. Corrisponde al sistema nervoso simpatico e all’attività dell’emisfero sinistro del cervello, che controlla il lato destro del corpo.8Swami Niranjanananda Saraswati, Prana and Pranayama, Bihar School of Yoga, p.40-49
La polarità energetica rappresentata in un dipinto alchemico occidentale
La polarità energetica rappresentata in un dipinto alchemico occidentale

In condizioni normali, l’attività delle due narici non è mai omogenea, ma vi è sempre la predominanza di una narice sull’altra, secondo un’alternanza ciclica: nelle ore notturne, ad esempio, Ida è predominante, mentre Pingala domina durante il giorno, ma il discorso è molto complesso e sarà meglio affrontarlo in un articolo dedicato.

Nondimeno, questi due canali, allo stato ‘normale’ dell’essere umano, presentano quasi sempre delle impurità o delle ostruzioni che non solo provocano squilibri nell’intero complesso, e rendono inoltre impossibile attivare la sintesi.

Per questo lo scopo del pranayama, oltre a unire Prana e Apana, è di ‘pulire’ e di equilibrare i due canali laterali. Il termine stesso Hata Yoga indica la fusione di questi due principi, Ha (Sole, Pingala) e Tha (Luna, Ida).

La tecnica più rappresentativa di questa operazione è nadi sodhana, la respirazione a narici alternate, dove si inspira ciclicamente da una narice e si espira da quella opposta, e viceversa, inserendo poi le fasi di ritenzione.

Questa operazione attiva un terzo canale, ovvero Sushumna.

Sushumna o ‘il sentiero di mezzo’

Socrates Geens: Samadhi
Socrates Geens: Samadhi

Laddove Ida e Pingala rappresentano la polarità  energetica, Sushumna è il “sentiero di mezzo”, che scorre lungo la colonna vertebrale. Sushumna è il canale neutro.

La sua attivazione tramite le pratiche yogiche  di sushumna avviene quando entrambe le narici sono ugualmente attive e il flusso di Ida e Pingala è stato equalizzato. In condizioni normali, ciò avviene solo per pochi secondi nel momento di interscambio tra Ida e Pingala.

Lo Yoga mira a rendere stabile questo equilibrio. Tutte le tecniche dello Hata Yoga mirano a questo obiettivo finale. La stessa fusione di Prana in Apana, descritta più sopra, è finalizzata all’apertura di Sushumna.

Con l’attivazione del terzo canale, si sperimenta uno stato in cui entrambi gli emisferi si attivano contemporaneamente. L’energia vitale (prana shakti) e quella mentale (manas shakti) si bilanciano e si fondono. Ancora una volta, il dinamismo generato dalla dualità viene riassorbito in una sintesi superiore conducendo a stati di coscienza non ordinari:

Il Sole e la Luna sono i fattori del tempo, che è formato dal giorno e dalla notte. Sushumna divora il tempo: questo è considerato un segreto.

Hata-yoga Pradipika, IV, 17

Qui, lo Hata-Yoga Pradipika descrive due fenomeni, che in realtà sono due aspetti dell’attivazione di Sushumna: il riassorbimento (laya) dell’energia individuale e della mente individuale nella mente e nell’energia universali; e, dall’altro lato, il risveglio dell’energia cosmica all’interno dell’essere umano – la famosa Kundalini, il Mahaprana (prana cosmico) che giace dormiente alla base della colonna vertebrale: è l’unione del centro sacrale e di quello della sommità del capo, l’accoppiamento di Shakti e Shiva.

Ma qui siamo giunti molto lontano nel nostro percorso…

Miracoli

Miracoli termodinamici… eventi così improbabili da essere impossibili, come l’ossigeno che si trasforma spontaneamente in oro.

Alan Moore, Watchmen
La pratica del Tummo tra gli yogin tibetani
La pratica del Tummo tra gli yogin tibetani

Cosa sono dunque i miracoli? Nei testi antichi spesso si descrivono le siddhi, i poteri miracolosi che derivano dalle pratiche yogiche, come l’ubiquità o la facoltà di divenire infinitamente piccoli o infinitamente grandi.

Anche la pratica del pranayama, da sola, pare dispensi una buona dose di poteri extra-ordinari. Tuttavia, normalmente le siddhi vengono enumerate proprio per avvertire il praticante di non lasciarsi distrarre dai fuochi d’artificio.

Il vero miracolo, la magia operata dallo yoga è invece un’altra, e il pranayama ne è un esempio: è il procedimento tipicamente  tantrico attraverso cui una condizione limitante viene superata utilizzando i termini stessi di quella condizione, facendo lavorare insieme due forze normalmente opposte e generando un’enorme surplus di energia.

Senza comprendere questo, ripetere che Yoga significa unione (con il divino) rischia di rimanere lettera morta, una vuota formula-contenitore che può essere riempita da tutto e niente.

Ciò che spero sia emerso con questo articolo, è che l’unione significa conciliare il dualismo in un essere umano fondamentalmente scisso, in continuo movimento nel ciclo tra opposti che non permettono alle componenti più profonde di emergere e di risolversi, né di evolvere.

yoga exhibit2

Al di là delle esperienze descritte nei testi – inaccessibili per i più, e sulle quali si è molto fantasticato – ritengo che lo Yoga attraverso il pranayama offra uno strumento potenzialmente dirompente per penetrare e risolvere i processi fisici, psichici e mentali aggirando la trappola dell’intellettualizzazione da un lato, e della riduzione a puro esercizio fisico dall’altro.

È inoltre un veicolo perfetto per giungere stati di meditazione, portando alla quiete della mente attraverso la regolazione del Prana, laddove le tecniche di meditazione propriamente dette agiscono in senso opposto e complementare, giungendo all’immobilità dei soffi vitali attraverso l’immobilità della mente: entrambi gli approcci sono validi e anzi ricevono un enorme potenziamento se abbinati.

I grandi traguardi, tuttavia, sono contenuti nei piccoli traguardi. La chiave, appunto, è ciò che accomuna coscienza e corpo, e che può condurre all’unità di entrambi: l’energia, in ogni espiro e in ogni inspiro, sotto la testimonianza vigile della mente.

Note[+]

Note
↑1 Swami Niranjanananda Saraswati, Prana and Pranayama, Yoga Publications Trust, 2009, p.9
↑2 Swami Gitananda Giri, La voce del re serpente: saggi sull’Astanga Yoga di Patanjali, Ed. Laksmi, p.86
↑3 Per la precisione, esisterebbero anche altri 5 soffi sussidiari, di cui qui non parleremo per non rendere il discorso troppo complesso.
↑4 ”Lo Jiva [l’anima individuale] che si trova sotto l’influenza di Prana e Apana va su e giù.
Lo Jiva a causa del suo muoversi continuo sul percorso destro e sinistro, non è visibile. Proprio come una palla percossa (sulla terra) salta in alto, così Jiva sempre lanciato da Prana e Apana non è mai a riposo.
Conosce lo Yoga chi sa che Prana sempre si trae da Apana e Apana  trae da Prana, come un uccello (allontanandosi e tuttavia non liberandosi) dalla stringa (a cui è legato).”
Dhyana Bindu Upanishad, 58-61a

Su questo passo vedi anche Swami Muktibodhananda, Swara Yoga: The Tantric Science of Brain Breathing, Yoga Publications Trust, p. 43-45.

↑5 Swami Muktibodhananda. Swara Yoga: The Tantric Science of Brian Breathing, Yoga Publications Trust, p. 44
↑6

Significativi sono i pochi sutra dedicati da Patanjali al pranayama:

Realizzato questo [la padronanza del corpo con le asana] si ha il pranayama che è controllo e cessazione del movimento d’inspirazione e d’espirazione.
Questa regolazione della respirazione durante le sue fasi di espirazione, inspirazione e ritenzione, è inoltre soggetta a condizioni di tempo, luogo e numero, ognuna di queste potendo essere lunga o breve.
Vi è una tecnica particolare per regolare la respirazione che è in rapporto sia con quanto detto nel sutra precedente, sia con la sfera interiore del respiro.
Per mezzo di questa regolazione della respirazione l’offuscamento della mente, che è il normale risultato dell’influenza del corpo, è eliminato.
E così la mente si trova pronta per gli atti consapevoli.

Yoga Sutra, II, 49-53

Secondo l’Hata-yoga Pradipika, inoltre, la ritenzione spontanea è il vero pranayama:

Il pranayama è diviso in tre parti: rechaka (espirazione), puraka (inspirazione), e kumbhaka (ritenzione). Si ritiene che vi siano due tipi di kumbhaka: sahita [accompagnato da rechaka e puraka] e kevala [solo, senza rechaka né puraka].
Si deve praticare sahita-kumbhaka, finché non si ottiene il successo in kevala-kumbhaka, che è la semplice ritenzione del respiro, senza recaka né puraka.
Questo kumbhaka, puro, isolato, rappresenta il vero pranayama.

(Yoga Sutra, II, 49-53)

↑7
“La generazione e la distribuzione del prana nell’organismo umano possono essere paragonate a quelle dell’energia elettrica. L’energia dell’acqua che cade o del vapore che ascende fa ruotare le turbine entro un campo magnetico per generare l’elettricità. L’elettricità viene poi immagazzinata negli accumulatori, e l’energia viene resa più o meno intensa mediante i trasformatori che regolano il voltaggio o la corrente. Quindi viene trasmessa lungo i cavi per illuminare le città o far funzionare i macchinari. Il prana è come l’acqua che cade o il vapore che ascende. L’area toracica è il campo magnetico. I processi della respirazione, inalazione, esalazione e ritenzione del respiro funzionano come le turbine, mentre i chakra rappresentano gli accumulatori e i trasformatori. L’energia (ojas) generata dal prana è come l’elettricità. Viene resa più o meno intensa dai chakra, e distribuita in tutto l’organismo lungo nadi, dhamani e sira, che sono i cavi di trasmissione. Se l’energia generata non viene debitamente regolata, distrugge il macchinario e l’equipaggiamento. Lo stesso avviene con il prana e l’ojas, perché essi possono distruggere il corpo e la mente del sadhaka.”
B.K.S Iyengar, Teorie e tecniche del pranayama, ed. Mediterranee, p.67
↑8 Swami Niranjanananda Saraswati, Prana and Pranayama, Bihar School of Yoga, p.40-49
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Un’idea di (auto)guarigione

27 Agosto 2014 by Francesco Vignotto Lascia un commento


“Ha mai provato a lavorare con un bambino tra i piedi?” continuò lei.
Will pensò al suo piccolo vicino di casa che si era offerto di aiutarlo a verniciare i mobili della sala da pranzo, e rise ricordando la propria esasperazione.
“Povero tesoro!” esclamò Susila. “È così bene intenzionato, così ansioso di aiutare.”
“Ma la vernice finisce sul tappeto, e ci sono impronte digitali su tutte le pareti…”
“Per cui, alla fine, deve sbarazzarsi di lui. ‘Fila via, bimbo. Va’ a giocare in giardino!'”
Ci fu un silenzio.
“Ebbene?” egli domandò alla fine.
“Non capisce?” Will scosse il capo.
“Che cosa succede quando è malato, quando è ferito? Chi ripara i danni? Chi guarisce le infezioni? È lei?”
“E chi allora?”
“Lei allora?” ella insistette. “Lei? La persona che sente il dolore e si preoccupa, e pensa al peccato e al denaro e all’avvenire! È capace, questo suo io, di fare quello che va fatto?”
“Oh, adesso capisco a che cosa mira.”
“Finalmente!” lo burlò Susila.
“Mi manda a giocare in giardino in modo che gli adulti possano fare in pace il loro lavoro. Ma chi sono gli adulti?”
“Questo non lo domandi a me” rispose “È una domanda da porre a un neuroteologo.”
“Che significa?” domandò Will.
“Significa esattamente quello che dice la parola. Qualcuno che pensa agli individui in termini, simultaneamente, della Chiara Luce del Vuoto e del sistema nervoso vegetativo. Gli adulti sono un misto di intelletto e di fisiologia.”
“E i bambini?”
“I bambini sono gli ometti che pensano di saperla più lunga degli adulti. “E quindi bisogna dir loro di correre fuori a giocare.”

Huxley-isola

Ci sarebbe poco da aggiungere a questo brano tratto da L’isola di Aldous Huxley1Aldous Huxley, L’isola, Mondadori. Un romanzo che racconta l’utopia di una società ideale (la comunità dell’isola immaginaria di Pala), ma anche il percorso di guarigione del protagonista Will Farnaby, che ha come causa scatenante il trauma e le ferite causate dal naufragio di cui è stato vittima, ma che andrà a investire le cause profonde di un malessere preesistente.

Accanto all’intervento medico, Will riceve un altro tipo di supporto da parte di Susila, la nuora del dottor MacPhail, che lo guiderà, appunto, a “mandare fuori i bambini a giocare”.

Ritengo che il brano riportato valga molto di più di moltissime (e spesso troppo superficiali) parole spese sulla guarigione e soprattutto sull’autoguarigione, due lati della stessa medaglia la cui complementarità andrebbe compresa non solo con l’intelletto, ma appunto mettendo in moto la fisiologia. O meglio, lasciando che quest’ultima faccia il suo corso assieme alla parte più profonda del primo.

Questo brano fornisce inoltre una risposta anche alla domanda: come possono discipline come lo Yoga o il Tai Chi Chuan, oppure le tecniche di meditazione, al di là degli aspetti puramente biomeccanici o in apparenza palliativi, favorire un processo di guarigione o prevenire disturbi (vedi le già citate ‘Tecniche di lunga vita’ nella tradizione cinese)?

Siegfried Zademack: Interpretation of the 4th dimension
Siegfried Zademack:
Interpretation of the 4th dimension

Molto spesso ci sono troppi fraintendimenti su questo aspetto, perché, come ho osservato riguardo allo Yoga, queste pratiche non sono medicine. Quando vengono presentate come tali, l’equivoco nasce perché abbiamo un’idea di cosa sia una medicamento, sappiamo cosa voglia dire andare da un dottore e sottoporsi al suo intervento: significa far sì che una persona e/o una sostanza esterne intervengano sul nostro disturbo.

Ci manca tuttavia totalmente l’idea di cosa significhi far uscire i bambini a giocare. I bambini, o meglio “gli ometti che pensano di saperla più lunga degli adulti”. Una pratica che andrebbe coltivata ben prima di dover ricorrere a cure mediche e non solo per prevenirle, ma per migliorare la propria vita (e, se si vuole, anche qualcosa di più).

Non si tratta semplicemente di prendersi qualche distrazione, rilassarsi o fare un po’ di moto per svuotare la mente, sebbene tutto ciò sia sicuramente utile. Si tratta invece di educare quest’ultima – la mente, o meglio la parte più superficiale di essa – a cessare di interferire con i normali processi su cui non ha alcun controllo (il sistema nervoso vegetativo), ma sui quali ha di certo il potere di agitare notevolmente le acque e di intralciare il lavoro degli “adulti” (un esempio che potrà sembrare terra-terra ma che rende molto bene l’idea: assillarsi perché non si va di corpo è il metodo più sicuro per ritardare il momento in cui ciò avverrà naturalmente, a meno che non sussistano cause di forza maggiore).

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Tutto questo ha anche ben poco a che vedere con il pensare positivo che ci ha lasciato in eredità la new age e qualche sostanza psicotropa assunta come fosse una caramella (con buona pace di Huxley stesso). Potrà infatti sembrare controintuitivo, ma anche la volontà di guarire (da una malattia, da un ossessione, da un lutto), così come di avere successo in qualsiasi attività umana, può essere un enorme intralcio.

Non perché si voglia negare l’efficacia della volontà, ma solo di un certo tipo di volontà e di desiderio, quelle appunto di chi pensa di saperla più lunga degli adulti e di intervenire secondo logica ma senza considerare l’interezza delle forze – evidenti e non evidenti – in campo. Perché troppo spesso si dimentica questo: ogni azione provoca, per legge fisica, una reazione.

Bisogna infatti contemplare la possibilità della sconfitta. Far rientrare nel campo di osservazione questa eventualità senza contrapporvisi, ma accettare che la risoluzione di un conflitto possa non essere quella desiderata, e accettarla. Qualsiasi altro modo di agire – o di non agire – significa per il soggetto diventare parte stessa del problema.

“Considerando uguali piacere e dolore, profitto e perdita, vittoria e disfatta, raccogli le tue energie per il combattimento; così non patirai alcun male”: sono parole della Bhagavadgita, e non trovo alcuna contraddizione nel fatto che si riferiscano a una battaglia.2Bhagavadgita, II, 38, a cura di Anne-Marie Esnoul, Adelphi. La Bhagavadgita è parte del poema epico indiano Mahabharata, ed è un testo fondamentale per la filosofia indiana e per lo Yoga. È un dialogo tra Krishna e Arjuna, che si trova di fronte al campo di battaglia dove sono schierati contro di lui i suoi stessi parenti. Non volendo più combattere, Krishna lo esorta a riprendere le armi, spiegandogli – tra le molte altre cose – che non è l’azione (karma) in sé a provocare sofferenza, ma l’attaccamento ai frutti dell’azione. Una sintesi della Bhagavadgita è presente nel Mahabharata di Peter Brook del 1989 (con Vittorio Mezzogiorno nella parte di Arjuna), sicuramente non esaustiva ma molto suggestiva (il video è in inglese): Più avanti, il testo prosegue:

Colui che sa vedere nell’agire il non-agire e nel non-agire l’azione, questi fra tutti gli uomini possiede la vigilanza della mente, quegli è unificato nello yoga, quegli assolve tutti i suoi compiti.3Bhagavadgita, IV, 18, a cura di Anne-Marie Esnoul, Adelphi

In fondo, anche il Taoismo aveva un termine per questo, che riassume un concetto cardine di questa tradizione: wei wu wei, letteralmente “agire senza agire”. Naturalmente, si tratta di un paradosso, e naturalmente questa conoscenza sembra l’esatto opposto della conoscenza, questa azione sembra l’esatto opposto dell’agire secondo il pensiero ordinario.

Ma se il paradosso non fosse tale, gli ometti che sanno pensare solo in direzione lineare la saprebbero davvero più lunga degli adulti. Ed è per questo che ogni tanto è necessario farli uscire a giocare.

PS: ringrazio i dottori Marco e Giorgio Invernizzi per aver letto questo articolo prima che venisse pubblicato.

Foto di Sahil Lodha. Alcuni ragazzi giocano tra i pomodori schiacciati durante la celebrazione dell'Holi Festival nell'Uttar Pradesh, in India.
Foto di Sahil Lodha. Alcuni ragazzi giocano tra i pomodori schiacciati durante la celebrazione dell’Holi Festival nell’Uttar Pradesh, in India.

Note[+]

Note
↑1 Aldous Huxley, L’isola, Mondadori
↑2 Bhagavadgita, II, 38, a cura di Anne-Marie Esnoul, Adelphi. La Bhagavadgita è parte del poema epico indiano Mahabharata, ed è un testo fondamentale per la filosofia indiana e per lo Yoga. È un dialogo tra Krishna e Arjuna, che si trova di fronte al campo di battaglia dove sono schierati contro di lui i suoi stessi parenti. Non volendo più combattere, Krishna lo esorta a riprendere le armi, spiegandogli – tra le molte altre cose – che non è l’azione (karma) in sé a provocare sofferenza, ma l’attaccamento ai frutti dell’azione. Una sintesi della Bhagavadgita è presente nel Mahabharata di Peter Brook del 1989 (con Vittorio Mezzogiorno nella parte di Arjuna), sicuramente non esaustiva ma molto suggestiva (il video è in inglese):
↑3 Bhagavadgita, IV, 18, a cura di Anne-Marie Esnoul, Adelphi
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