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hathayoga

Lo yoga visto dai sadhu: intervista a Daniela Bevilacqua

7 Giugno 2018 by Zénon 1 commento

Foto di Daniela Bevilacqua

[English version here]

Daniela Bevilacqua è un’indianista che sta svolgendo una importante e per molti versi inedita ricerca etnografica presso gli ordini ascetici più anticamente legati alla pratica dello yoga. Prima di addentrarci nell’intervista vale la pena spendere alcune parole sul contesto entro cui la sua ricerca si sta svolgendo, ovvero Haṭha Yoga Project.

Da sinistra: James Mallinson, Daniela Bevilacqua e Mark Singleton

HYP è un progetto di ricerca quinquennale finanziato dal Consiglio europeo della ricerca e con sede alla School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra. Il suo scopo è di documentare la storia della pratica fisica dello yoga attraverso lo studio filologico dei testi e la ricerca etnografica tra i praticanti di yoga tradizionale, per studiarne i rapporti con la pratica contemporanea.

Tra i ricercatori di haṭhayoga Project figurano studiosi quali James Mallinson e Mark Singleton, autori di due importanti testi che hanno contribuito a ridefinire in modo radicale quanto oggi sappiamo sullo yoga: il più recente, Roots of Yoga, co-curato da entrambi, ha messo a disposizione un centinaio di testi in gran parte mai tradotti prima, rivelando aspetti inediti dello yoga premoderno (come, ad esempio, lo stretto legame con il buddhismo tantrico); The Yoga Body di Singleton, invece, aveva ricostruito la nascita dello yoga moderno globalizzato portandone alla luce gli aspetti creativi rispetto alla tradizione e i complessi rapporti con la cultura fisica tra Otto e Novecento.

Il team comprende, anche Jason Birch (storico di Hatha e Raja Yoga e autore del blog The Luminescent) e S V B K V Gupta, entrambi al lavoro sulla traduzione di testi inediti. E, naturalmente, Daniela, che si occupa della ricerca ‘sul campo’ e che  è stata così gentile dal voler rispondere ad alcune delle nostre domande mentre si trovava in viaggio per le sue indagini.

Al cospetto dei lavori dei membri di HYP, viene spontanea una domanda: come è possibile, a fronte della enorme popolarità dello yoga globalizzato, che in realtà gli studi sulle fonti dirette delle sue origini e nel campo etnografico siano territori così poco esplorati? Te lo chiedo perché in molte pubblicazioni e in molti corsi per insegnanti vengono tutt’ora trasmesse parecchie certezze, che in realtà si basano su debolissime evidenze. Insomma, com’è possibile che non solo non sapessimo, ma non sapessimo di non sapere?

Daniela Bevilacqua

Non dirlo a me! Quando ho iniziato questo progetto la prima cosa che ho fatto è stata una ricerca bibliografica sui lavori etnografici già presenti sul tema, e con mio enorme stupore, a parte alcuni articoli di James (James Mallinson) e di Ramdas Lamb – entrambi studiosi connessi con l’ordine Vaiṣṇava dei Rāmānandī – e alcuni riferimenti sparsi in sotto-paragrafi di monografie – non ho trovato nulla di specifico. Il mondo accademico, o meglio l’etnografia, ha lasciato completamente da parte gli yogi indiani “tradizionali”.

Ci sono diversi libri scritti da yogi moderni, o da occidentali che hanno trascorso del tempo e studiato con alcuni yogi, tuttavia, fino ad ora, un lavoro etnografico accademico incentrato esclusivamente sulla pratica dello yoga di yogi appartenenti a ordini ascetici tradizionali non è mai stato fatto. Il perché, non ne sono sicura. Forse perché si dà ancora un credito maggiore ai testi scritti nel passato piuttosto che ai racconti orali del presente. Ma in realtà anche gli studi accademici incentrati sui testi di haṭha yoga sono un’introduzione recente negli studi sanscriti.

La scarsità del lavoro etnografico forse dipende anche dal fatto che una etnografia tra i bābā (asceti) indiani potrebbe non essere congeniale a tutti. James ad esempio mi ha coinvolto nel progetto perché sapeva che “frequentavo” già il mondo ascetico indiano, conosco gli ordini, parlo hindi e in più ho la disposizione d’animo a fare fieldwork intensi in India in situazioni a volte un po’ estreme. In effetti, fare etnografia tra i sādhu significa adattarsi a varie situazioni, anche tenendo in considerazione un’etichetta dovuta al genere, e poi passare del tempo con le persone e attendere che si instauri una certa fiducia reciproca e ci sia così la possibilità di un discorso approfondito anche senza l’iniziazione. Questo è in effetti uno dei problemi dell’etnografo, dato che gli insegnamenti specifici vengono dati solo dopo essere entrati nell’ordine. Cosa che ovviamente io non faccio per un motivo etico: potrei fingere devozione e prendere tante iniziazioni quanti sono gli ordini con cui “lavoro”, ma non reputo questo il modo giusto di procedere. Perciò preferisco dare tempo al tempo e che siano i sādhu a decidere di loro spontanea volontà quanto potermi dire a dare.

Dunque non sto facendo delle scoperte sensazionali (ma se le facessi, non le scriverei e svelerei al mondo!), ma sto raccogliendo tanti tasselli che spero ci aiutino a capire l’evoluzione dell’haṭha yoga fino ad oggi e la posizione dei vari gruppi ascetici in essa.

La tua ricerca etnografica si svolge presso alcuni degli ordini ascetici più anticamente legati all’haṭha yoga. Cosa ci può dire una tradizione a trasmissione orale sul passato dello yoga, che i testi non dicono? Qual è il rapporto tra innovazione e conservazione, se ha senso una distinzione di questo genere?

Jogi Baba pratica nauli

Seguendo i testi e le conoscenze personali, ho rivolto la mia attenzione dapprima ai Rāmānandī, poi ai Nāgā Daśnāmi, ad alcuni Udāsīn e ai Nāth, che sono i gruppi principalmente connessi con la pratica. Cerco quanto possibile di raccogliere informazioni soprattutto dai Nāth dato che, tradizionalmente, la diffusione dell’insegnamento dell’haṭha yoga viene fatto risalire a Gorakhnāth, il quale, insieme a Matsyendranāth, è generalmente ritenuto il “fondatore” dell’ordine dei Nāth.

Cosa ci può dire la trasmissione orale sul passato dello yoga: beh, prima di tutto fa sì che ci poniamo molte domande sullo scopo dei testi, da chi erano scritti e a chi erano rivolti. In effetti, solo una piccolissima parte degli asceti a cui mi rivolgo conosce i testi perché attribuisce loro poca importanza: se qualcosa può essere letto da tutti, ovviamente non rappresenta il vero insegnamento ma solo la sua superficie, per questo non si può prescindere dal guru. Dunque l’unico insegnamento che conta è quello che proviene dalla trasmissione orale. E questo nell’haṭha yoga è ancora più evidente perché essendo una tradizione prettamente esperienziale, basata sulla pratica, la necessità di qualcuno che mostri e spieghi come fare in pratica i vari āsana, kriyā ecc. è di vitale importanza. Ma questo è sottolineato anche nei testi stessi.

Uno degli obiettivi che si propone l’Haṭha Yoga Project è quello di comprendere bene il ruolo di tali testi e la loro audience, e l’unione del lavoro etnografico e testuale sta portando dei buoni risultati.

Quindi, per riassumere, la tradizione orale, rispetto ai testi, ci dice esattamente come fare quelle pratiche che nei testi sono più o meno descritte. Inoltre non bisogna dimenticare che queste pratiche sono anche inserite in un contesto religioso, quindi ci sono tutta una serie di ulteriori conoscenze che bisogna implementare per rendere la pratica fisica spiritualmente effettiva. In più la tradizione orale ci può dare degli spunti per ricostruire contesti, o dare ad alcune parole delle spiegazioni più ampie ricostruendone l’evoluzione storica, o comprenderne il senso da prospettive diverse.

Per quanto riguarda innovazione e conservazione, la realtà indiana, sia testuale che orale, sebbene punti a conservare, presenta varie possibilità d’innovazione grazie all’importanza che si dà al guru: il guru è una fonte costante (sia nel presente che nel passato) di innovazione. Per questo tra gli asceti si trovano tante variazioni e tante “storie” diverse: ognuno trasmette l’insegnamento che arriva dal guru di una specifica tradizione, e per tradizione mi riferisco non all’ordine in generale ma anche a quella di un tempio o monastero specifico. La sādhanā (disciplina) yogica, ribadisco, è esperienziale, quindi si basa sull’esperienza di un guru che, provando e sperimentando, riesce a trovare un percorso che permette la realizzazione dello yoga. Una volta trovata la modalità, essa viene insegnata. Questo implica anche la possibilità di una continua ricerca, da parte dello yogi, da fonti diverse. Un asceta passa i primi anni della sua vita da rinunciante non solo con il proprio guru, ma vagando tra vari centri di pellegrinaggio, trascorrendo del tempo con altri asceti, a volte anche di altri ordini, e così crea il suo bagaglio personale di esperienza e conoscenza su cui baserà la propria disciplina. Da una tale dinamica si comprende l’alta possibilità d’innovazione.

Qual è l’atteggiamento che hai riscontrato nei confronti dello yoga globalizzato e qual è il loro rapporto con esso?

Da un certo punto di vista c’è una particolare noncuranza: gli āsana e il prāṇāyāma fa bene a tutti, quindi se questo tipo di yoga, che è poi quello che oggi in India Baba Ramdev insegna e pubblicizza come un ossesso, si diffonde, ben venga per l’umanità. Ovviamente ci sono anche asceti che supportano questo tipo di yoga perché puntano all’occidente, per curiosità, per modernità, ma anche per diventare famosi yoga guru e accumulare discepoli, fama e soprattutto denaro.

Tuttavia, per la maggior parte degli asceti, lo yoga globalizzato pubblicizzato è una forma di ginnastica, completamente svincolata dal significato e dall’obiettivo spirituale che lo yoga si prefigge. Per gli asceti lo yoga non è qualcosa da fare a giorni alterni o una volta a settimana, ma è una precisa disciplina individuale che prevede il seguire regole e precetti precisi e il focalizzarsi su un unico obiettivo e, così facendo, ottenere la vera conoscenza del sé, della realtà, l’unione con il Paramātmā e via dicendo.

Per questo, come mi ha detto una yogini, la via dello yoga deve essere intrapresa quando uno ha davvero l’intenzione di rispondere alle domande alla base dell’io. Allora, essendo la ricerca una necessità, tutto viene messo da parte, e l’unica attenzione è rivolta all’ottenimento di queste risposte.

Nel tuo paper “Let the sadhus talk” rilevi che, presso la maggior parte degli asceti che hai intervistato, il termine haṭha yoga è inteso come un’attitudine mentale più che un corpus di pratiche fisiche, che sono spesso considerate propedeutiche e di secondaria importanza. È possibile che questo sia il principale elemento di discontinuità da parte dello yoga globalizzato, così preoccupato dell’aspetto tecnico?

Sì, la maggior parte degli asceti intervistati ha definito lo haṭha yoga come un’intenzione precisa, uno sforzo specifico volto ad un obiettivo specifico. Il motivo è da collegare al fatto che yoga significa anche “metodo, mezzo” quindi, quando un asceta dice “haṭha yoga se hota hai” vuol dire “avviene per mezzo dell’haṭha”, e quindi haṭha yoga è quel metodo che, come dico nell’articolo, si basa su un’intenzione talmente forte che porta al compimento dell’obiettivo.

Per tale motivo, la maggior parte degli asceti associa l’haṭha yoga al tapasyā. Questa connessione tra haṭha yoga e tapasyā non è una scoperta particolare, dato che, come Mark Singleton insegna nel suo Yoga Body, negli ultimi secoli haṭha yogi era sinonimo di tapasvin, colui in grado di eseguire austerità incredibili. E in effetti anche oggi, tra gli asceti, coloro che fanno tali pratiche -come stare con il braccio alzato o rimanere in piedi, ecc.- vengono definiti haṭha yogi.

Ci sono però sādhu che, oltre a dare questa definizione di haṭha yoga, elencano anche le pratiche dell’haṭha yoga: āsana, prāṇāyāma, ṣaṭ karma (che raramente vengono definiti così, ma elencati come nauli, basti ecc.) e kriyā (usando spesso questa parola in generale per indicare mudrā e bandha).

Queste due spiegazioni non sono in antitesi perché la stessa intenzione del tapasyā è anche necessaria per rendere siddh, ossia perfette, le varie pratiche fisiche dello yoga. Il raggiungimento di una tale perfezione si ottiene tramite una rigida disciplina.

Asceti dell’ordine dei Naga durante una dimostrazione in Assam per la Giornata Internazionale dello Yoga del 2017

È interessante notare che coloro che hanno il pieno controllo delle pratiche fisiche, quali āsana, ṣaṭkarma, bandha ecc. sono chiamati Yogi Raj tra gli asceti.

Ovviamente tale disciplina non è solo incentrata sugli āsana, ma anche sul seguire le regole (yama e nyama) necessarie per aiutare la mente a disciplinarsi ed essere pronta per la pratica non fisica. Coloro che focalizzano e ottengono la perfezione nel dhyana/samadhi sono chiamati yogi.

Per sussumere, da parte degli asceti che intraprendono la yoga sādhanā c’è un’attenzione alla parte fisica necessaria, soprattutto inizialmente, per disciplinare il corpo e di conseguenza insegnare alla mente a focalizzarsi sull’obiettivo. In più aiuta il corpo a resistere alla pratica meditativa senza la distrazione della tensione fisica.

Ma a differenza dello yoga globalizzato, c’è la consapevolezza che una volta che gli āsana sono perfezionati, bisogna “lasciarli andare” e focalizzarsi sulla parte importante dello yoga, le varie sādhanā che portano al samādhi. Ovviamente, āsana e prāṇāyāma purificatori e altre tecniche continuano ad essere usate quando necessario, un paio di minuti al giorno, due o tre posizioni necessarie.

Nello yoga globalizzato invece non credo sia evidente questo stacco o distacco, molti si affannano sulla tecnica perché permette di vedere risultati tangibili e mostrabili, cosa che la pratica spirituale ovviamente non fa. Poi ci sono anche molti insegnanti che seguono in maniera individuale anche la pratica spirituale, ma se si parla della moltitudine di persone che fanno yoga a mo’ di sport, ossia solo āsana e respirazione, allora sì, la discontinuità è un abisso, ma semplicemente perché manca di questa consapevolezza. L’asceta fa le posizioni per lo stesso motivo di un occidentale che va a fare yoga: per avere un corpo sano. Solo che l’asceta sa che quello non è altro che una goccia nel mare, e solo una componente fisica limitata e limitante, mentre l’occidentale no, pensa, nella maggior parte dei casi, di fare qualcosa di particolare. Un asceta una volta mi ha detto: “io facevo gli āsana nelle pause di meditazione per rilassare il corpo, facevo āsana perché ero in una grotta, altrimenti una corsetta avrebbe avuto lo stesso effetto”.

Puoi parlarci della presenza di donne che praticano haṭha yoga? Si tratta di un elemento innovativo rispetto al passato?

Scultura dal Mahudi Gate a Dabhoi nel Gujarat, risalente al XIII secolo. Foto di James Mallinson e Daniela Bevilacqua.

Prima di tutto bisogna considerare che le donne che riescono a diventare ascete all’interno degli ordini tradizionali sono in realtà poche e spesso lo diventano in tarda età. Però mi è capitato di incontrare una yogini che all’età di 12 anni aveva completato il suo apprendimento degli āsana, ṣaṭkarma ecc. Lei però non descrive le sue pratiche come haṭha yoga, ma le interpreta come uno step dello yoga in generale, essendo poi praticante anche di austerità la sua idea di haṭha yoga è molto connessa al tapasyā.

Poi ho incontrato un’altra yogini che ha preso l’iniziazione da adulta-anziana, dopo aver cresciuto i figli. Lei viene chiamata Yogi dal suo ordine perché ha passato diversi anni a meditare nella jungla. Però fa anche le posture per il corpo. In questi anni ho incontrato solo loro due nel mondo ascetico come praticanti. Sicuramente ce ne sono molte di più, ma spesso rimangono nascoste.

Se consideriamo la parte “laica”, non ho avuto riscontri diversi. Ho incontrato alcune famiglie in cui si pratica e viene trasmesso lo yoga in modo tradizionale in famiglia, ma solo a chi è ritenuto degno e capace di portare a termine completamente il percorso per permettere l’ulteriore trasmissione. Anche in questo caso non è insegnato alle donne (questo almeno nel nord dell’India e secondo la mia limitata esperienza).

Quindi sì, una pratica estremamente diffusa tra le donne è un elemento innovativo rispetto al passato, almeno come possiamo immaginarlo se guardiamo alla situazione presente e per come la conosciamo dai testi. I testi ci parlano del praticante uomo, e molte tecniche si incentrano su un corpo maschile. Sicuramente c’erano yogini in passato e ancora oggi ci sono, soprattutto in correnti tantriche che non prevedono la rinuncia. Tuttavia non ci sono arrivate tradizioni “haṭha yoga” scritte da donne, sebbene non sia raro trovare miniature che rappresentano donne praticanti, soprattutto dell’ordine dei Nāth, mentre svolgono austerità.

Purtroppo la società indiana era ed è ancora ostica in molti ambienti tradizionali verso lo sviluppo individuale di una donna, sia nell’ambito laico che religioso.

Sei anche tu una praticante di yoga, come altri membri di HYP? Se sì, puoi parlarci del tuo rapporto con questa disciplina?

La prima volta che mi sono avvicinata allo yoga in maniera pratica è stato nel 2006 a Rishikesh: avevo iniziato un corso e seguivo lezioni due volte al giorno, più una sessione di meditazione serale. Tornata in Italia ho cercato degli insegnanti simili a quello di Rishikesh ma sono rimasta profondamente delusa. Ho ricominciato con lo yoga nel 2010 a Varanasi, da un fantastico insegnante che faceva solo lezioni individuali. Con lui ho ripreso a fare āsana e prāṇāyāma, ma non ho mai trovato un insegnante che fosse in grado di andare aldilà di questi.

Devo dire che, sebbene altamente utile per il corpo e per produrre uno stato di rilassatezza, trovavo a volte le lezioni di yoga moderno noiose o, quando intrise di “chiacchiere” inutili, irritanti. Perciò ho iniziato a fare yogāsana, non sapendolo, come fanno molti sādhu, ossia faccio le posizioni che mi servono quando ne ho bisogno, e se ho tempo, per prendermi un minimo cura del corpo soprattutto quando sono in India. Le cose che mi dicono gli asceti o mi mostrano, cerco di metterle in pratica all’occorrenza. Non posso dire di praticare lo yoga perché vedendo cosa è lo yoga per gli asceti, mi rendo conto che una tale parola, io che ho passato con loro del tempo, non posso usarla: non seguo né yama né nyama, e non ho la fede necessaria per renderla la mia disciplina spirituale. Dunque rimango con lo yoga in un rapporto molto amichevole: ci conosciamo, lo stretto necessario a mantenere il corpo sthir (saldo).

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Lo yoga in gravidanza: un seminario a Ostetricia

24 Maggio 2018 by Zénon Lascia un commento

Il 18 e il 22 maggio abbiamo partecipato (con Marco Invernizzi ed Erika Pizzo, ospiti del prof. Claudio Molinari), al seminario “Lo Yoga in Gravidanza: tra corpo e respiro, un percorso per aiutare la donna a scoprire la sua innata capacità di partorire” presso il Corso di Studio in Ostetricia dell’Università del Piemonte Orientale.

È stata un’occasione per introdurre ai benefici dello yoga durante la gravidanza, con diversi momenti di pratica dedicati alla respirazione e al lavoro posturale. Ma, soprattutto, abbiamo colto l’occasione per definire una prospettiva chiara con cui accostarsi a questa disciplina.

Lo yoga in gravidanza rischia spesso di finire nel calderone delle tante attività ludico motorie, con un tocco di spiritualità e chakra attivati, con cui si intrattiene la donna durante la gestazione. Per comprenderne il significato più profondo, dobbiamo tuttavia risalire all’essenza dello yoga, nata in ambienti molto differenti da quelli odierni e occidentali.

Nelle società tradizionali, la nascita è da sempre vissuta come un momento sacro: qualcosa che in precedenza non c’era ora viene alla luce. È il momento di passaggio tra il non manifesto e il manifesto, tra il mare indifferenziato delle possibilità e ciò che si caratterizzerà in una forma specifica.

Secondo questa prospettiva, non è possibile affrontare il tema della gravidanza considerando solo il lato manifesto ed evidente, perché in questo periodo la donna partecipa di entrambe le dimensioni: fisicamente, energeticamente, emotivamente. Per questo, durante la gestazione vive sensazioni, acquisisce gusti e repulsioni e spesso anche abilità molto diverse da quelle che aveva in precedenza e che tornerà ad avere dopo la nascita.

Un’esperienza che può essere bellissima ma anche sconvolgente, e non di rado il momento più difficile sarà il ritorno alla ‘normalità’ (se così si può definire, visto l’arrivo di un nuovo nato) dopo il parto.

Pertanto, oltre a offrire benefici psicofisici alle gestanti, lo yoga è soprattutto uno strumento che può aiutare la donna a sintonizzarsi su questa nuova frequenza senza disconnettersi dagli aspetti concreti, guidandola in un ascolto profondo dei punti di contatto delle due dimensioni. Un ascolto che – per evitare di perdersi – parte dal corpo e dal respiro, e che per naturale decorso risale a strati sempre più rarefatti e silenziosi.

Questo ascoltare – libero il più possibile dalle aspettative, e anche da protocolli rigidamente predefiniti – è l’unico vero principio attivo dello yoga, senza il quale ci sono solo una serie di esercizi ginnici e aerobici che, applicati con scarsa consapevolezza e senza prospettiva, potranno anzi produrre disorientamento.

E forse in nessun caso come nella gravidanza, lo yoga ci insegna come occorra accostarsi con il massimo rispetto e delicatezza a quel ‘non sapere’ che riguarda ciò che ancora non è.

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Se nello yoga cerchi l’onnipotenza

17 Maggio 2018 by Francesco Vignotto Lascia un commento

Sono alto 6 metri e tutto è importante
Sono alto 9 metri e tutto è più che importante
Sono alto 12 metri e tutto è inconcepibile
Nutri il mio ego!
Nutri il mio ego!
Nutri il mio ego!
Nutri il mio ego a go go

Einstürzende Neubauten, Yu Gung

Qualche anno fa, una persona mi confessò di aver abbandonato lo yoga quando la sua insegnante morì di cancro, perché non riusciva ad accettare che una persona così devota alla pratica e così attenta a un’alimentazione sana avesse potuto soccombere alla malattia.

Le aspettative nello yoga possono essere molto alte – anche se non sempre così alte – in particolar modo riguardo alla salute, ma in generale alla capacità di andare oltre i limiti, che viene sempre esaltata.

Quando si intrecciano con poca chiarezza aspirazioni spirituali e tensione verso il benessere, slanci morali e istanze igieniche, è facile cedere alla suggestione che ci si possa sottrarre al normale decorso della vita, così come alle regole di comune convivenza o alle leggi della fisica. La delusione di tali aspettative implica spesso una vera e propria perdita di fede, o, specularmente, il rifiuto dell’evidenza. Come alla morte dello Starec Zosima nei Karamazov, si domanda al proprio cadavere di non puzzare.

L’idea che lo yoga comporti una superdotazione, come vedremo, è probabilmente antica come lo yoga stesso. Certo, oggi in pochi pretendono miracoli eclatanti come l’ubiquità o la possibilità di attraversare i le pareti. Ma poco cambia che si tratti della felicità che tanta iconografia giuliva suggerisce, del successo materiale o della potenza sessuale, della liberazione dei potenziali umani e del superamento dei propri limiti, o ancora, come accennato, della guarigione fisica o spirituale: il calcolo che la benedizione valga bene una messa è inevitabile, ma non è la questione cruciale.

Il problema, a monte, è stabilire se l’oggetto di ricerca dello yogi possa essere considerato un oggetto. Alzando leggermente il livello, anche la ricerca di autorealizzazione – qualunque cosa si inserisca in questo contenitore: santità, unione con l’assoluto, successo personale e sbandamento dei nemici – non muta i termini della questione, se non si rimette in discussione grammaticalmente il soggetto che cerca.

In altre parole, se l’obiettivo è qualcosa, fosse anche la dissoluzione stessa dell’ego, si finisce per dare per acquisita e prendere troppo sul serio la sostanza del chi, rinforzandone anche i tratti patologici in proporzione all’investimento di energie. Alcune possibili conseguenze sono ben descritte in un articolo di Christopher Wallis dal titolo molto eloquente: How yoga can turn a jerk into an even bigger jerk.

In altri termini, se l’obiettivo è qualcosa di oggettivabile, lo yoga può essere strumentalizzato indipendentemente dall’orientamento – e per orientamento si intende qui la chiarezza di una direzione, non garantita dalle chiacchiere su osservanze e astinenze di cui ci si ama ornare come di un ciondolo di Ganesha o di un tatuaggio della sillaba OM.

Il tema è arduo in un’epoca che non contempla ciò che non produce e non è impugnabile come strumento di autoaffermazione. Si ricorre spesso nel paradosso dell’attore di successo che folgorato dalla non dualità concede interviste in cui afferma di non esistere, diventando l’idolo della sempre più vasta nicchia degli intenditori di spiritualità.

Le esigenze e le manifestazioni dello yoga globalizzato potranno quindi sembrare forse triviali e prosaiche rispetto a quanto esposto di seguito, che riguarda prevalentemente la tradizione premoderna, da cui ci separa un contesto socioculturale del tutto diverso e, probabilmente, una tempra non comparabile.

Eppure, il dilemma che emerge è lo stesso, stessa è la tentazione o l’abbaglio di reificare e di appropriarsi dei risultati dello yoga, e non sempre, come giustamente osserva Wallis nell’articolo citato più sopra, i testi hathayogici esprimono una posizione chiara sull’orientamento, concentrandosi sull’esposizione di tecniche e su compensi iperbolici, quasi si trattasse per il singolo praticante di conquistare o di distruggere il mondo a proprio piacere premendo i tasti giusti.

È perciò proprio in questa ambiguità che ci muoveremo, un’ombra che cammina da lungo tempo accanto allo yoga, ad avvertirci che non c’è nessuna tecnica che in sé può chiarificare e integrare le oscurità che ognuno reca in sé. Nessuna pillola può aiutarci in questo, nessuna mudra e nessuna ripetizione di mantra, finché c’è qualcuno che dà se stesso per scontato.

Contenuti

  • Le siddhi, ovvero, a un passo dall’onnipotenza
  • L’ardore
  • Esibire le siddhi
  • La perfezione del corpo, lo yoga come spettacolo
  • Conclusioni

Le siddhi, ovvero, a un passo dall’onnipotenza

Il termine siddhi indica etimologicamente un conseguimento, uno stato di perfezione. La siddhi suprema è la realizzazione dello yoga e in alcuni casi essa coincide con l’abbandono volontario del corpo. In termini più ristretti, siddhi può indicare la perfezione di una tecnica, oppure uno dei tanti poteri sovrannaturali che emergono dalla pratica.

Ma quando sono assorti nello yoga (yukta), gli yogi, che sono superiori a noi, che ricevono la grazia di una qualità prodotta dallo yoga, assumono la capacità di vedere correttamente la natura del proprio sé e degli altri, etere, spazio, tempo, aria, atomi e menti, di qualità, azioni, universali e particolari che sono inerenti in queste cose, e dell’inerenza.

Inoltre, gli yogi che sono eccezionalmente impegnati nello yoga (viyukta), come risultato di una capacità che sorge grazie a una qualità prodotta dallo yoga dopo il disegno di quattro fattori, possono percepire cose che sono sottili, nascoste o lontane.1Praśastapāda’s Padārthadharmasaṃgraha commentary on Vaiśeṣikasūtra 8.12.2.1. 24, in J. Mallinson – M. Singleton, Roots of Yoga, Penguin, 2017

È tuttavia riduttivo relegare le siddhi nell’ambito dei poteri magici o della capacità di compiere miracoli. Al di là delle credenze popolari e degli elementi fantastici in cui sono immerse le figure leggendarie degli yogin, le siddhi rientrano nel loro particolare modo di integrarsi nel mondo e di conoscerlo,2Vedi Gioia Lussana, ‘Come lo yogi conosce il mondo’, in La dea che scorre: la matrice femminile nello Yoga tantrico, OM edizioni, 2017 di farsi compendio vivente di macrocosmo e microcosmo, trascendendo le normali leggi naturali.

In ogni caso, nella letteratura yogica premoderna, è raro che si metta in discussione che lo yoga comporti l’insorgere di qualità straordinarie. È una tuttavia una preoccupazione ben più costante stabilire se tali qualità siano un obiettivo plausibile della pratica dello yoga, o una loro premessa, oppure un loro sottoprodotto più o meno desiderato e desiderabile.

Patanjali, ad esempio, pur elencando ampiamente nel libro III degli Yoga Sutra numerose siddhi che insorgono dalla concentrazione su svariati oggetti, nel sutra 37 avverte che i poteri sono tali solo quando insorgono in una mente attiva, mentre sono ostacoli quando lo yogi è assorbito nel samadhi.

In ambito tantrico, del resto, è comune la distinzione tra coloro che cercano i poteri – anche per la soddisfazione di desideri personali – e coloro che cercano la liberazione. I primi generalmente sono asceti, mentre i secondi sono laici. Non deve stupire che la maggior parte dei testi tantrici siano rivolti a questi ultimi e contengano descrizioni estese di metodi diretti per ottenere poteri sovrannaturali. Come afferma Abhinavagupta nel Tantraloka:

Coloro dunque che hanno dedicato i loro esercizi ai vari principi come la terra, ecc., conseguono soltanto i vari poteri ( siddhi ) [ad essi collegati]. La frequentazione dei luoghi sacri serve invece alla liberazione.

L’ardore

Le più antiche testimonianze sulle siddhi non possono essere scisse dalla nozione tapas (letteralmente, ‘ardore’), ovvero dalle pratiche di austerità di cui offrono testimonianze il Mahabharata, il Ramayana e i purana, e grazie alle quali gli asceti si avvicinano agli dèi e talvolta destano in questi ultimi preoccupazione.

Queste pratiche possono contemplare tanto il voto del silenzio, quanto mantenere un braccio sollevato anche per diversi anni (perdendone l’uso), trascorrere molte ore al giorno in acqua o in posizioni complesse sotto il sole, digiunare o cibarsi di sola frutta. Le austerità, come rilevano gli studi etnografici in corso di Daniela Bevilacqua per lo haṭhayoga Project,3Daniela Bevilacqua, Let the Sādhus Talk. Ascetic practitioners of yoga in northern India sono tutt’oggi un elemento fondante dello haṭhayoga presso i sadhu appartenenti alle tradizioni più antiche.

Il concetto di tapas non si riferisce solamente alla prassi in sé, ma anche all’attitudine di offrirsi interamente alla pratica, mossi dalla volontà di bruciare le impurità e l’ignoranza a qualsiasi costo. Pertanto, il tapas può essere trasposto anche nella ritenzione del respiro o nella meditazione. Queste pratiche sono altrettanto foriere di siddhi.

Esibire le siddhi

Yogi Pullavar levita, 1936

Se da grandi rinunce derivano grandi poteri, da grandi poteri è difficile non essere irretiti. Non solo perché, come abbiamo già visto, le siddhi possono essere una distrazione in relazione agli autentici obiettivi dello yoga; il problema si complica quando il potere è pubblicamente esibito.

Il Dattātreyayogaśāstra, uno dei primi trattati dedicati interamente allo haṭhayoga, raccomanda di evitare la pubblica esibizione delle siddhi, e di mostrarsi tra la gente come una persona semplice.

“Altrimenti, [lo yogi] sicuramente acquisirà molti discepoli, e costoro si sentiranno obbligati a chiedere a quel signore tra gli yogi di risolvere i loro vari problemi. Occupato a risolverli, egli [lo yogi] dimenticherà la propria pratica. Trascurando la sua pratica diventerà un uomo ordinario.”4Dattātreyayogaśāstra 99–107, in J. Mallinson – M. Singleton, Roots of Yoga, Penguin, 2017

Più possibilista, il Pañcārthabhāṣya ammette che le siddhi possano essere utilizzate per attrarre gli allievi, anche se mette in guardia dal diffondere l’idea che possano essere acquistati per denaro.5Pañcārthabhāṣya, 1.20.26

Di quali e quanti avvertimenti possiamo far tesoro oggi, quando la linea tra il mostrare e l’esibire non è mai stata così sottile e la sovraesposizione del corpo degli insegnanti non ha mai avuto così tanti strumenti a disposizione; dove i pericoli di un rapporto disfunzionale tra insegnante e allievi non sono più limitati a ristrette cerchie; e dove, infine, la compravendita di doti straordinarie, di poteri terapeutici e di attestazioni direttamente ‘da antiche conoscenze’ è prassi comune?

Ma per trovare l’anello mancante tra i poteri sovrannaturali delle siddhi e il carisma che emana dalle abilità eminentemente fisiche nello yoga globalizzato occorre procedere per ordine e cogliere un tassello mancante.

La perfezione del corpo, lo yoga come spettacolo

Strana sorte quella degli yogin. Tra il medioevo e il XIX secolo furono noti soprattutto come temibili asceti combattenti che insidiavano le rotte del commercio nell’India del Nord.

Alla fine dell’800, la figura dello hathayogi era popolarmente associata al mendicante che si esibiva in contorsioni e altre stravaganze, come sdraiarsi su un letto di chiodi o farsi seppellire vivo. Tali esibizioni suscitavano sentimenti misti di curiosità e di disprezzo sia da parte degli occidentali, sia da parte della cultura hindu ufficiale.

Era difficile prevedere che, di lì a poco, con il risorgere del sentimento nazionale indiano, la fisicità dello haṭhayoga sarebbe tornata in auge proprio in risposta allo stereotipo coloniale, che rappresentava l’intera popolazione indiana spiritualmente e fisicamente inferiore, e per questo bisognosa della guida britannica.

La nuova siddhi sarebbe diventata la perfezione del corpo: forza fisica, estrema flessibilità, salute. Le influenze di discipline fisiche indigene ed esotiche, di allenamenti militari e della medicina occidentale ebbero un ruolo non secondario in ciò, come documentato da Mark Singleton in The Yoga Body.6Mark Singleton, Yoga Body: The Origins of Modern Posture Practice, Oxford University Press, 2010

Proprio all’alba di questa rinascita, negli anni ‘20 del secolo scorso, troviamo il suo principale protagonista, Tirumalai Krishnamacharya. Il futuro maestro del palazzo di Mysore fatica a trovare studenti ed è impiegato in una piantagione di caffè, ma viaggia di continuo per dare pubbliche dimostrazioni e lezioni di yoga. Fernando Pagéz Ruiz, in un articolo del 2007 su Yoga Journal, rievocò quel periodo:

Krishnamacharaya cercò di popolarizzare lo yoga dimostrando le siddhi, le facoltà supernormali del corpo yogico. Queste dimostrazioni, pensate per stimolare l’interesse verso una tradizione in declino, includevano la sospensione del battito cardiaco, fermare macchine con le mani nude, eseguire āsana complesse e sollevare oggetti con i suoi denti. Per insegnare alla gente lo yoga, Krishnamacharya riteneva di dover prima avere la loro attenzione.

Alla luce degli elementi innovativi e spesso circensi che Krishnamacharya introdurrà negli anni Trenta, Singleton giudica altamente probabile che “l’elevata spettacolarizzazione delle āsana praticata dai suoi allievi maggiori negli anni a seguire avesse una funzione similare e rientrasse nel diffuso tema del ‘moderno uomo forte’.”

Gli ‘allievi maggiori’ di Krishnamacharya furono BKS Iyengar e Pattabhi Jois; mentre Krishnamacharya si dedicò in seguito a una forma di insegnamento più intima e privata, i contributi di Iyengar e Jois sono la matrice di ciò che negli anni a seguire, con un altro colpo di scena imprevedibile, sarebbe diventato lo yoga globalizzato che oggi conosciamo.

Conclusioni

Kino MacGregor, una delle più famose star dello yoga globalizzato.

Ritengo che questa parziale e incompleta panoramica sulle siddhi, vere o presunte, in senso stretto o lato, tenute nascoste o esibite, ci possa aiutare a riflettere. Molti sono gli interrogativi che possono essere attualizzati e trasposti, mutatis mutandis, anche nel contesto della pratica e dell’insegnamento odierno.

Oggi il pubblico dello yoga non è più una selezionatissima platea pronta a tutto, e per questo, sotto diversi aspetti, è più vulnerabile all’idea di affidarsi a scorciatoie che possano risolvere i propri problemi.

Ai complessi e ancora poco esplorati rapporti con le dottrine di origine, si aggiunge una relazione non sempre funzionale con il paradigma medico scientifico e con il principio di autorità (vedi i dettagliati elenchi di effetti terapeutici che i manuali elencano con invidiabile sicurezza, ma con scarse o nulle evidenze), oltre che con i modelli estetici propri della cultura fisica e con le esigenze di pubblicità e di spettacolarizzazione.

Tuttavia, proprio perché lo yoga sfiora oggi tutti questi campi ma è anche – o soprattutto – qualcos’altro, proprio perché, almeno negli intenti, abbraccia trascendenza e immanenza al tempo stesso, l’ideale di superdotazione rimane ancora un sogno mostruosamente inconfessabile, un abbaglio perennemente possibile.

Un sonoro bagno di realtà è sempre una benedizione, finché persiste l’illusione di essere padroni del proprio destino, finché i sogni di onnipotenza non si dissolvono nel riconoscimento della propria impotenza, in cui davvero tutto diviene possibile, ma non come previsto.

Note[+]

Note
↑1 Praśastapāda’s Padārthadharmasaṃgraha commentary on Vaiśeṣikasūtra 8.12.2.1. 24, in J. Mallinson – M. Singleton, Roots of Yoga, Penguin, 2017
↑2 Vedi Gioia Lussana, ‘Come lo yogi conosce il mondo’, in La dea che scorre: la matrice femminile nello Yoga tantrico, OM edizioni, 2017
↑3 Daniela Bevilacqua, Let the Sādhus Talk. Ascetic practitioners of yoga in northern India
↑4 Dattātreyayogaśāstra 99–107, in J. Mallinson – M. Singleton, Roots of Yoga, Penguin, 2017
↑5 Pañcārthabhāṣya, 1.20.26
↑6 Mark Singleton, Yoga Body: The Origins of Modern Posture Practice, Oxford University Press, 2010
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Prāṇāyāma, questo sconosciuto

31 Ottobre 2017 by Francesco Vignotto Lascia un commento


L’inalazione e l’esalazione sono più o meno delle sovrapposizioni a ciò che è costante. Perciò il silenzio, l’intervallo dopo l’espirazione, non è assenza di attività, ma assenza di funzione. È presenza. All’inizio, la nostra attenzione è focalizzata sull’atto di inspirare e di espirare. Ma poi arriva un momento in cui diventiamo indifferenti all’inspiro e all’espiro. È il momento in cui il corpo prende in carico la respirazione, ed enfatizziamo il silenzio, l’intervallo tra le due attività. È un modo spirituale di utilizzare il controllo del respiro e il respiro stesso, ma il controllo del respiro può essere anche utilizzato per dirigere, per orchestrare l’energia in noi.

Jean Klein, The Book Of Listening

Con l’essenzialità che gli è propria, in queste poche battute Jean Klein racchiude tutto il prāṇāyāma, ossia quell’area dello yoga che attraverso il respiro persegue un apparente doppio fine: raffinare l’energia vitale e accompagnare la mente verso la meditazione.

Siccome altrove ho accostato l’argomento per i massimi sistemi (Prāṇāyāma, vita, respiro, morte e miracoli) o in relazione al delicato rapporto con il respiro spontaneo (Non saper respirare), mi sembra utile partire proprio da qui per una sintesi che vada al cuore della questione.

Le tecniche yogiche di prāṇāyāma comprendono un certo numero di alterazioni del ritmo, dell’ampiezza, della modalità, e del suono del respiro: respiri come mantici da fucina, ruggiti di leoni e ronzare di calabroni, sibili attraverso la glottide e riconfigurazioni dei flussi tra la narice destra e sinistra. Le fasi respiratorie sono quindi regolate secondo estensioni e proporzioni variabili, e attraverso i tre controlli principali: il diaframma toracico, il diaframma perineale e il reticolo (la contrazione alla base del collo).

Tuttavia, tutto questo estendere e sospendere, intensificare e rendere estremamente sottile, tutto questo disciplinare l’azione del respiro (compresa la sua sospensione) per abbandonare ogni controllo, converge verso il silenzio.

Come spesso viene sottolineato nella letteratura yogica, infatti, il controllo del respiro ha in realtà lo scopo di lasciar emergere ciò che è nello sfondo di questa stessa attività, e che in condizioni normali rimane offuscato da essa.

Lo Jiva [l’anima individuale] che si trova sotto l’influenza di Prana e Apana [l’inspiro e l’espiro] va su e giù. 1Come emerge dal mio precedente articolo Prāṇāyāma…, tradurre i termini Prana e Apana come ‘inspiro’ ed ‘espiro’ è piuttosto approssimativo, ma ai fini di questa esposizione dovremmo sacrificare qualche grammo di precisione alla chiarezza.
Lo Jiva a causa del suo muoversi continuo sul percorso destro e sinistro, non è visibile. Proprio come una palla percossa (sulla terra) salta in alto, così Jiva sempre lanciato da Prana e Apana non è mai a riposo.
Conosce lo Yoga chi sa che Prana sempre si trae da Apana e Apana trae da Prana, come un uccello (allontanandosi e tuttavia non liberandosi) dalla stringa (a cui è legato).

Dhyana Bindu Upanishad, 58-61a

L’inalazione e l’esalazione sono una funzione, che ritma ed è al tempo stesso ritmata dall’attività mentale e dalle funzioni vitali. Come queste ultime, è un’attività transitoria che appare nello sfondo senza di per sé turbarlo, ma celandolo.

Intendiamoci: inspiro ed espiro sono funzionali alla vita, quindi l’oggetto in questione non è tanto l’opportunità di respirare o meno (come a volte iperbolicamente sembrerebbe emergere dalla letteratura yogica), quanto lo slittamento della coscienza dall’atto al campo in cui il ciclo del respiro avviene.

Da Tantra Song, raccolta di dipinti dal Rajasthan a cura di Franck André Jamme.

Ciò che è nello sfondo, d’altro canto, non è attività. Non è funzione. A dire il vero, non si potrebbe nemmeno chiamare “ciò”. Non si tratta di qualcosa che appare e scompare negli intervalli tra un respiro e l’altro: è costantemente presente anche durante l’attività, ma la consapevolezza nell’intervallo è un escamotage che ci permette inizialmente di prenderne coscienza.

Cessando il respiro, tutte le funzioni seguono, più o meno: occorre che ‘stiamo’ con quella presenza.

Ma se l’obiettivo è nello sfondo, perché allora lavorare sul respiro, ossia sulle ‘sovrapposizioni’ e non direttamente su ciò che è costante? Perché non affrontare la questione alla radice invece di sottoporsi a complicati addestramenti respiratori?

Perché il normale groviglio di respiro, mente e funzioni vitali solitamente non ne concede la possibilità: nella maggioranza dei casi ci troviamo avviluppati in una fitta rete senza apparenti spiragli. Come due litiganti che vogliono avere ragione, inspiro ed espiro si sovrappongono senza mai lasciarsi giungere al pieno compimento e senza mai scendere in profondità. Non è pressoché possibile che si verifichino intervalli se non in caso di malfunzionamenti o a costo sforzi che rischiano molto spesso di essere controproducenti.

Le uniche occasioni in cui si può aprire uno spiraglio si verificano in momenti di forte stupore o di shock improvvisi: si tratta però di ‘esperienze di picco’ che non possono essere costanti e che raramente possono essere integrate nella vita ordinaria. Oppure, ancora, in momenti di inerzia come nel sonno profondo, quando però il livello di coscienza è generalmente troppo ottuso perché ve ne sia consapevolezza.

A questo punto, quando nel cielo il sole e la luna scompaiono, l’illuminato
rimane lucido mentre l’essere umano ordinario sprofonda nell’incoscienza.

Spandakarika, 25

Osservare e controllare (o meglio condurre) l’inspiro e l’espiro sono quindi un passaggio obbligato per addomesticare respiro, corpo e mente.

Da Tantra Song, raccolta di dipinti dal Rajasthan a cura di Franck André Jamme.

Il lavoro su inspiro ed espiro, progressivamente, viene integrato con lo sviluppo delle pause. In effetti, l’haṭhayoga ha sempre enfatizzato il prāṇāyāma come ritenzione del respiro (si veda, ancora, Prāṇāyāma…).  Tuttavia, lo sviluppo volontario delle fasi respiratorie è ancora un’attività che prepara il terreno per la ritenzione spontanea, nei cui confronti il termine controllo è del tutto inadeguato: possono arrivare momenti in cui stare nell’intervallo non è più una scelta.

Proprio come la tecnica di meditazione non è di per sé la meditazione, il controllo del respiro non è il prāṇāyāma nel senso più ultimo, ma una preparazione. Almeno fin quando la tecnica di meditazione e il prāṇāyāma – anche nello sviluppo estremo delle pause – rimangono delle funzioni.

Ma poi arriva un momento in cui diventiamo indifferenti all’inspiro e all’espiro. È il momento in cui il corpo prende in carico la respirazione, ed enfatizziamo il silenzio, l’intervallo tra le due attività.

A un certo punto, non è nemmeno importante se si stia respirando o meno. Il respiro torna ad essere quello che è sempre stato, sovrapponendosi a ciò che è costante in perfetta trasparenza, proprio come un rumore che cessa di essere un disturbo e si integra nel silenzio.

Lo scarto tra il punto di partenza e il punto di arrivo, come tutto ciò che è essenziale, è imponderabile. Il silenzio non è una cosa tra le altre.

Note[+]

Note
↑1 Come emerge dal mio precedente articolo Prāṇāyāma…, tradurre i termini Prana e Apana come ‘inspiro’ ed ‘espiro’ è piuttosto approssimativo, ma ai fini di questa esposizione dovremmo sacrificare qualche grammo di precisione alla chiarezza.
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Perché dovremmo bruciare i tappetini da Yoga

18 Luglio 2017 by Francesco Vignotto 15 commenti


A dire il vero, nel titolo ho esagerato. Non ho nessuna intenzione di lanciare una fatwa nei confronti dei tappetini da yoga, anche se personalmente ne faccio spesso e volentieri a meno (ma è una mia abitudine che non intendo imporre a nessuno).

Chiariamo quindi fin da subito che mettere qualcosa sotto il proprio corpo non sembra essere mai stato un sacrilegio nello yoga, e anzi talvolta è caldamente consigliabile: si pensi quando il punto di appoggio è la testa, o qualche articolazione particolarmente delicata.

Nel commento agli Yoga Sutra attribuito a Shankara, si raccomanda di sedere “su un tappeto confortevole coperto di stoffa, di pelle di antilope e di erba kuśa”.1Pātañjalayogaśāstravivaraṇa 2.46–8, citato in J. Mallinson, M. Singleton, Roots of Yoga, Penguin, 2017. L’erba kuśa è la Desmostachya bipinnata, erba considerata sacra nella tradizione brahmanica ed utilizzata nei rituali per ricoprire l’ara. Le istruzioni sembrano essere prese di pari passo dal sesto capitolo della Bahgavadgita, con la differenza che qui viene nello specifico indicata la pratica di alcune āsana.

Tra i rudi Yogi che frequentano il Kumbh Mela, quando non è preferita la nuda terra, l’uso di stuoie è abbastanza comune. Vi è a volte però la delimitazione rituale dello spazio tramite un anello di pietre o delle braci accese, attraverso cui lo yogi simbolicamente offre sé stesso in sacrificio.2Nello specifico, l’austerità dei cinque fuochi è praticata attraverso diversi stadi, in cui lo yogi comincia col circondarsi di cinque fuochi, per aumentarli gradualmente fino a formare un anello continuo di innumerevoli fuochi. Fonte Ma si tratta di altri mondi.

Foto di Jim Mallinson

Per venire alle origini dello yoga transnazionale, nelle foto d’epoca di Krishnamacharya, uno dei padri dello yoga contemporaneo,3Tiumalai Krishnamachaya (1888-1989) è noto soprattutto per essere stato negli anni Trenta del ‘900 il maestro di BKS Iyengar e K. Pattabhi Jois (padre dell’Ashtanga Vinyasa Yoga) durante il suo periodo a Mysore. Krishnamacharya fu una figura molto complessa, oltre a essere molto dotto, e il rapporto tra innovazione e tradizione nel suo insegnamento è ancora oggetto di discussioni. Finito il periodo di Mysore, i suoi insegnamenti si staccarono parecchio dallo stile marziale e severo impartito ai due allievi più famosi (che lo ricordano anche per le punizioni corporali), dedicandosi esclusivamente all’insegnamento individuale. Suo figlio TKV Desikachar, recentemente scomparso, è colui che meglio rappresenta l’eredità di questa seconda fase. compare di volta in volta un tappeto, una coperta, una folkloristica pelle di tigre (topos abbastanza comune), o il semplice pavimento, a seconda delle occasioni.

Tutto questo però non ha molto a che fare con il tappetino da yoga come prodotto industriale, progettato per rendere sempre più confortevole la pratica e soprattutto per eliminare qualsiasi incertezza nel contatto al suolo. Il tappetino ha peraltro creato un notevole mercato, con accessori annessi, garanzie di ecosostenibilità, testimonial famosi e ‘prove su strada’, ma questo non è un gran problema.

Il problema è quando il tappetino è vissuto da un lato come elemento invalidante quando manca o non possiede caratteristiche ideali: non posso praticare perché il pavimento è scivoloso, o perché la stuoia non me lo permette, mettendomi il cuore in pace dall’indagare le naturali dinamiche del radicamento a terra e dell’equilibrio.

Ma, d’altro canto, in questo articolo esploreremo anche come il tappetino abbia un ruolo di potenziamento della performance, a volte con un prezzo da pagare per l’apparato muscolo-scheletrico: grazie alla speciale aderenza del tappetino posso oltrepassare i normali limiti di flessibilità, senza tener conto che i limiti a volte esistono per un motivo strutturale ben preciso e che, non di rado, servono anche a proteggere.

Complice l’iconografia che rende il praticante riconoscibile fin dalla strada grazie al tappetino arrotolato in spalla, questo accessorio diventa spesso una sorta di simbolo e di stampella psicofisica. 

Molto interessante è quindi individuare il paziente alfa del tappetino da yoga come oggi lo conosciamo. Il termine paziente non è scelto a caso, perché come vedremo tra breve il moderno tappetino  nacque alla fine degli anni ’60 come intervento terapeutico per una condizione molto particolare.

Contenuti

  • Il tappetino come cura
  • Il debole della flessibilità
  • A quale costo?
  • Dissacrare lo spazio sacro

Il tappetino come cura

Alcuni anni fa, il docente di Kinesiologia Colin Hall tracciò la storia del tappetino da yoga in un articolo molto interessante su Yoga international.

Secondo la ricostruzione di Hall, il moderno tappetino fu inventato dall’insegnante di yoga londinese Angela Farmer. A causa di un intervento chirurgico subito in giovane età, Farmer era del tutto incapace di sudare da mani e piedi. Questa condizione la privava dell’aderenza che la normale sudorazione garantisce alle estremità, rendendole molto difficile eseguire numerose posizioni in piedi o che comportano l’appoggio coordinato sulle mani.

Angela Farmer era allieva di BKS Iyengar, il quale le proibì di umettarsi le estremità o di usare un materassino di schiuma. Un giorno, però, trovandosi a insegnare a Monaco, l’insegnante riuscì a trovare presso una fabbrica di tappeti un sottile campione di stuoia con la viscosità ideale per ovviare il suo problema.

Adho Mukha Svanāsana, ovvero il cane a testa in giù, posizione che in condizioni normali richiede un certo sforzo per evitare che mani e piedi si allontanino.

Tornata a insegnare a Londra, il suo tappetino divenne talmente popolare tra i suoi allievi, che dovette rimettersi in contatto con l’azienda tedesca per procurarsene in grandi quantità. Ironia della sorte, una ventina di anni dopo, Angela Farmer registrò in una nota di aver visto il suo maestro BKS Iyengar esibirsi in una dimostrazione utilizzando uno dei suoi tappetini.

Osserva Hall:

Il tappetino da yoga, come sviluppato da Angela Farmer, era un intervento terapeutico. La vischiosità del tappetino alleviava una condizione medica.(…) Ma cosa succede quando un attrezzo yogico progettato da e per qualcuno che soffriva di un problema medico diventa uno standard per gli yogi di tutto il mondo?

Angela Farmer con un allievo e il suo tappetino

Hall paragona questa circostanza all’utilizzo dei carrelli motorizzati: mentre in situazioni di degenza questi veicoli sono indispensabili per deambulare, quando diventano un’alternativa a camminare per persone sane finiscono per “enfatizzare e rinforzare alcuni dei nostri peggiori tratti”.

Del resto, abbiamo già citato su queste pagine un principio non scritto della riabilitazione: se dài a una persona sana un bastone, dopo qualche tempo userà una stampella; poi passerà a due stampelle; quindi a un deambulatore; alla fine, avrà bisogno di una carrozzina.

Il debole della flessibilità

Da un punto di vista fisico, il principale problema dei tappetini aderenti riguarda soprattutto le posizioni in piedi ed è quello che Colin Hall chiama stretchificazione dello yoga (mi si perdoni il mostro linguistico, intraducibile altrimenti).

In altre parole, la presenza di un tappetino antiscivolo sposterebbe eccessivamente l’accento dalla forza alla flessibilità, due requisiti che nello yoga dovrebbero controbilanciarsi.

Secondo Hall, nell’eseguire le posizioni in piedi, una certa instabilità nel contatto al suolo e il relativo sforzo per evitare che mani e piedi scivolino via hanno un ruolo positivo. La contrazione isometrica necessaria per stabilizzarci rende infatti possibile un allungamento entro limiti fisiologicamente accettabili per le nostre articolazioni.

Quando però mani e piedi sono “incollati” a priori ai tappetini, le cose cambiano: siccome l’allungamento non è più limitato dalla contrazione, il risultato è una eccessiva sollecitazione delle articolazioni di ginocchia, anche, gomiti e spalle.

Un esempio è la posizione di trikonāsana (la posizione triangolare). In assenza del tappetino, il piede su cui scendo lateralmente (nella foto sotto, il destro) tenderà a muoversi. Per limitarne la mobilità, dovrò radicarlo tendendo leggermente la gamba e stabilizzando il ginocchio: andrò quindi a creare una linea di forza verso l’alto, che controbilancerà il peso stesso del corpo e, particolare molto spesso trascurato, coinvolgendo il bacino mi permetterà di attivare la gamba opposta e di distribuire il peso su entrambi i piedi.

Se però il piede è tenuto fermo a priori dall’aderenza del tappetino, in mancanza della stabilizzazione appena descritta, il peso verrà caricato sulle articolazioni del ginocchio e dell’anca della gamba interessata (ovvero, tenendo a riferimento ancora la foto, sempre la destra).

A mio parere, c’è un’altra conseguenza da non trascurare, oltre a quella evidenziata da Hall: la posizione non ha più un centro. Cadendo sulla gamba iperestesa e lasciando ‘vuota’ la gamba opposta, mancherò del radicamento a terra necessario per coinvolgere il bacino in una rotazione che arriverà ad aprire il torace, in un’unica ondata dai piedi all’apertura delle braccia.

In altre parole, senza il meccanismo di radicamento dei piedi perdo la leva attraverso cui il corpo può ruotare su sé stesso attraverso sé stesso, e di risolvere l’āsana in un solo gesto. Al contrario, l’onda del movimento si ferma alla gamba destra, sovraccaricandone le articolazioni.

La differenza è abbastanza evidente se confrontiamo la foto precedente con l’esecuzione di Krishnamacharya 4La foto, come quella successiva dello stesso, è tratta da T. Krishnamacharya, Il nettare dello Yoga (Yoga-Makaranda), Ubaldini, 2013

La posizione è più raccolta, più involuta, forse anche meno precisa rispetto alla precedente: qualcuno oggi faticherebbe a definirla un’esecuzione di livello intermedio. Eppure è un’unico movimento di apertura che con estrema sintesi riesce a dire quello che l’esecuzione precedente balbetta con prolissità: così come nulla viene mai esplicitato del tutto a parole, non tutto dev’essere espresso fisicamente nell’āsana.

Un’altro esempio di stretch-ificazione è visibile nella tendenza ad accentuare la flessibilità delle articolazioni delle spalle in adho mukha svanāsana (il cane a testa in giù), creando una curva molto marcata verso il basso nella parte alta della schiena. Questo fenomeno sembra aumentare tra i praticanti con il passare degli anni, forse per un meccanismo di emulazione e competizione:

Confrontiamola ora con l’esecuzione di Krishnamacharya:

Anche in questa posizione, nel primo caso abbiamo un bacino che sembra sul punto di collassare sulle mani. Nel secondo caso, pur con meno affinità rispetto al gusto odierno, la posizione sembra reggersi da sola: le linee di forza sono equilibrate e nessuna parte del corpo appare più sollecitata di altre.

A quale costo?

Alcuni anni fa, in seguito a numerosi casi di usura di anche e ginocchia rilevati tra praticanti di yoga negli Stati Uniti, il giornalista scientifico William J. Board dichiarò in un famoso articolo sul New York Times che la flessibilità è uno dei punti deboli dello yoga: ma, secondo Hall, il problema non sarebbe la flessibilità in sé, sono più probabilmente gli effetti dei tappetini.

Che su questo ultimo punto Hall abbia ragione o no (naturalmente ha un ruolo fondamentale anche chi sta sul tappetino), le sue considerazioni sollevano alcune riflessioni. Il tappetino che elimina la possibilità di scivolare crea un ambiente falsamente protetto, offre un trampolino per arricchire le possibilità di allungamento ma indebolisce le fondamenta.

Che ruolo ha tutto questo nello slittamento dello yoga posturale verso un ideale di perfezione fotogenica, di mania del particolare, soffocando gli spazi di ascolto del corpo e dei suoi equilibri a favore di obiettivi da raggiungere?

Il contatto al suolo, con la sua dose di imprevisti e di accidenti, con le sue limitazioni, è fondamentale per risalire dalle estremità al centro. Allo stesso modo, è il contatto con la realtà, con la giusta dose di precauzioni, che ci permette di risalire alla sua origine.

Ma c’è ancora spazio per questo, quando ci si guarda bene dall’appoggiare il piede al di fuori di un rettangolo di gomma, per evitare la spiacevole sensazione che il pavimento si riveli freddo, duro, scivoloso e disabilitante?

Molto spesso, quel che ci restituisce il contatto al suolo non è colpa del pavimento: siamo noi. È quello con cui dobbiamo stare, se vogliamo sentirci.

Dissacrare lo spazio sacro

Per concludere, riprendo un’interessante e ulteriore considerazione dell’articolo di Hall: l’introduzione dei tappetini ha generato la privatizzazione dello spazio nelle sale di pratica.

Siamo molto gelosi dei nostri tappetini. Mentre il pavimento è suolo pubblico, il perimetro rettangolare ci confina in uno spazio riservato in cui all’estraneo è proibito entrare senza il nostro permesso. Un po’ come lo spazio dell’abitacolo della nostra auto, che ci permette di viaggiare per il mondo ma al tempo di portarci appresso un surrogato della nostra proprietà privata.

L’ironia è impressionante, vero? Pratichiamo per allentare i confini del sé e per sperimentare l’espansione, anziché rimanere intrappolati in una comprensione del sé restrittiva e limitata dalla pelle. E lo stiamo facendo dai confini dei nostri spazi yoga rettangolari personalizzati, vivaci e colorati.

Ho iniziato a praticare yoga in un periodo in cui le scuole non erano così tante, e generalmente molto più affollate. Il contatto fortuito non era un problema: era abbastanza inevitabile. Quello che osservo oggi, in spazi sempre più ampi ed efficienti, è un crescente terrore di sfiorarsi, ancor prima che fisicamente, di entrare in collisione con lo spazio vitale dell’altro.

Va bene delimitare il proprio spazio con anelli di pietre, un gesto rituale, una coperta ti Linus o bio-tappetini da 70 euro. Ma quello spazio non è ‘mio’ o ‘tuo’. Quando stiamo praticando tutti insieme, lo spazio in cui si entra non può essere ripartito tra i partecipanti.

Il ritmo e la profondità del respiro, il modo in cui ci muoviamo spazio, la risposta alle difficoltà, l’interferenza dei pensieri e la capacità di essere concentrati: tutto questo, e non solo, varia e dipende da coloro con cui stiamo condividendo il viaggio. Essere trainati o trainanti è un altro capitolo ancora.

Eppure osservo molto spesso l’aula e gli equilibri che si configurano tra persone che probabilmente nemmeno si accorgono consciamente l’uno della presenza dell’altra. E ancora pensano con un rettangolo di gomma di aver chiuso fuori il mondo.

Note[+]

Note
↑1 Pātañjalayogaśāstravivaraṇa 2.46–8, citato in J. Mallinson, M. Singleton, Roots of Yoga, Penguin, 2017. L’erba kuśa è la Desmostachya bipinnata, erba considerata sacra nella tradizione brahmanica ed utilizzata nei rituali per ricoprire l’ara.
↑2 Nello specifico, l’austerità dei cinque fuochi è praticata attraverso diversi stadi, in cui lo yogi comincia col circondarsi di cinque fuochi, per aumentarli gradualmente fino a formare un anello continuo di innumerevoli fuochi. Fonte
↑3 Tiumalai Krishnamachaya (1888-1989) è noto soprattutto per essere stato negli anni Trenta del ‘900 il maestro di BKS Iyengar e K. Pattabhi Jois (padre dell’Ashtanga Vinyasa Yoga) durante il suo periodo a Mysore. Krishnamacharya fu una figura molto complessa, oltre a essere molto dotto, e il rapporto tra innovazione e tradizione nel suo insegnamento è ancora oggetto di discussioni. Finito il periodo di Mysore, i suoi insegnamenti si staccarono parecchio dallo stile marziale e severo impartito ai due allievi più famosi (che lo ricordano anche per le punizioni corporali), dedicandosi esclusivamente all’insegnamento individuale. Suo figlio TKV Desikachar, recentemente scomparso, è colui che meglio rappresenta l’eredità di questa seconda fase.
↑4 La foto, come quella successiva dello stesso, è tratta da T. Krishnamacharya, Il nettare dello Yoga (Yoga-Makaranda), Ubaldini, 2013
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Non saper respirare

27 Giugno 2017 by Francesco Vignotto 3 commenti

Vorrei che, alla fine della lettura di questo articolo, il suo titolo non suonasse più come un rimprovero, a differenza di quanto possa sembrare. Non intendo insomma somministrare la solita predica su quanto ognuno respiri male, perché proprio questi rimproveri sono responsabili di ancora più debiti di ossigeno di quanti ne intendano saldare.

A causa anche di questo, molte persone si presentano a un corso di yoga con il capo già cosparso di cenere e confessano con un certo senso di colpa di non saper respirare. Il respiro, al solo nominarlo, evoca spesso una competenza elementare che non si è acquisita abbastanza a suo tempo e che ci si vergogna di non padroneggiare, proprio come una regola grammaticale o le divisioni in colonna.

Oppure, il respiro suscita il fantasma di un impedimento oggettivo: io vorrei respirare, ma c’è qualcosa – un sigillo, una inadeguatezza fisiologica, una paura – che me lo impedisce.

La buona notizia è che, escludendo le vere e proprie condizioni patologiche, gran parte delle sommarie autodiagnosi da “diaframma bloccato” o da incapacità respiratoria non derivano affatto da un impedimento oggettivo o da scarsa padronanza tecnica, bensì da una soggettiva tendenza a mettersi i bastoni tra le ruote da soli. In altre parole, non ci manca niente per poter respirare, semmai c’è del troppo.

Perché non è possibile non saper respirare, per il semplice fatto che è il corpo a farlo per noi. E se respiriamo male (non troppo male da mettere a repentaglio la nostra vita ma abbastanza da comprometterne la qualità) è perché a quell’abile non sapere del corpo si è sovrapposto qualcosa di estraneo.

L’insegnante di yoga – o chiunque abbia a che fare con il respiro, il proprio o l’altrui – non può evitare di partire da questo dato: non ha senso mettere in pratica uno sforzo attivo, quando non si è ancora attivata l’attenzione al respiro fisiologico.

In caso contrario, nuovi condizionamenti andranno a sovrapporsi a quelli vecchi: il risultato sarebbe un corpo e un respiro doppiamente condizionati, ed è questa la situazione che è possibile osservare in molti praticanti di yoga, anche tra coloro che possono vantare numerosi anni di pratica: i muscoli addominali e il diaframma lavorano molto intensamente, la gabbia toracica si espande e contrae al massimo delle sue capacità, ma la quantità di respiro è appena una goccia che cade da un rubinetto aperto con grande fatica.

Respirare “come si respira nello Yoga” (come ci hanno detto di respirare) oppure come si respira nel Pilates, o con le maschere antigas, non fa molta differenza. Finché il respiro rimane qualcosa da fare, e non una presenza costante da interrogare e con cui interagire, finché non lo si ascolta visceralmente e al tempo stesso come fosse il respiro di un’altra persona, non si respira, e non si fa.

Modificare il respiro in queste condizioni è come pretendere di guidare un’auto bendati, ritenendo che sia sufficiente aver studiato la mappa stradale e che dare un’occhiata alla plancia di controllo sia superfluo. Peggio ancora, quando crediamo alla mappa per semplice autorità, perché qualcuno ce l’ha raccontata.

Spesso si sente dire nello yoga che il problema è che non siamo consapevoli del nostro respiro. Questo è verissimo, se per respiro consapevole intendiamo non un atto di controllo del respiro, bensì la consapevolezza del respiro fisiologico. Saper discernere il respiro dalla respir-azione (mi si perdoni il gioco di parole) è il primo passo perché anche la tecnica possa essere un esercizio fruttuoso di dialogo – non di coercizione – con il respiro. Per questo il sapere come respirare deve sempre radicarsi nella consapevolezza che non si sa respirare.

Respiro consapevole e controllo della respirazione

Krishnamacharya che pratica pranayama con un una allieva

Un esempio della doppia faccia delle tecniche di controllo del respiro, di come possano essere abilitatrici oppure condizionanti, è il celeberrimo ujjaiy che caratterizza la pratica dello yoga.

L’ujjayi è una tecnica di respiro tipica dello yoga. La forma più comune in uso oggi consiste in una leggera restrizione dell’epiglottide, che produce un leggero suono sibilante, simile a un bisbiglio – che deve essere omogeneo e continuo – tra la gola e la cavità nasale e viene applicata sia come parte di altri pranayama, sia nella pratica degli asana, sia in alcune tecniche di meditazione.

L’ujjayi permette di estendere le fasi di inspiro e di espiro proprio perché regola il passaggio dell’aria, aumentando la pressione intrapolmonare e regolando di riflesso numerose funzioni. Può essere utilizzato sia per produrre intensità, sia per produrre rilassamento e concentrazione regolarizzando le fasi del respiro.

Il problema è quando l’ujjayi viene imposto senza aver dedicato del tempo all’ascolto di quel respiro. Siccome poi la regione della gola è sede di numerose tensioni, l’ujjayi diventa molto spesso un amplificatore di tensione. Il suo suono dovrebbe essere sottile come una lama che taglia la continuità dei pensieri, ma il più delle volte diventa rumore che cerca di coprire altro rumore. Rumore che si emette per non sentire, per non ascoltare, oltre che per non respirare. Sia quando si esegue una asana impegnativo, sia quando ci si siede a meditare.

Ogni controllo ha una fine

Lo Hathapradipika (1, 15) cita tra le cause che distruggono lo Yoga anche l’aderire alle regole. Questo è un aspetto che troppo spesso dimentichiamo e il respiro ne è un ottimo esempio. Tutte le tecniche di pranayama hanno come scopo non tanto il respiro, quanto la sua sospensione.

A sua volta, la sospensione del respiro volontaria, in ritenzione interna o esterna, è solo una preparazione alla vera sospensione che avviene spontaneamente. Non la si può controllare: può accadere – ma non è detto – al termine di una tecnica, ma anche in un attimo di stupore.

Tuttavia, anche senza addentrarci in percorsi fin troppo avanzati (eppure non così inaccessibili), rimane un fatto che dovrebbe essere chiarito fin da subito al principiante come al praticante esperto: il respiro non si controlla, se non per brevi tratti e in modo relativo. Pensare di controllare il respiro è assurdo quanto credere di controllare le maree navigando. Perché in fondo è di questo che si tratta: cavalcare il respiro, non possederlo.

A quanto detto è necessario inoltre aggiungere un corollario: in ogni tecnica di respiro, anche la più innocente e semplice, bisogna educarsi anche alla fase di abbandono. Abbandonare la tecnica è anzi importante almeno quanto saperla eseguire, altrimenti la tecnica diventa inconscia, il meccanismo si stabilisce sopra il meccanismo. Quando applico l’ujjayi, o qualsiasi altra tecnica, respiro in ujjayi. Ma quando cesso di applicarlo, devo abbandonarlo completamente e lasciare che il respiro naturale riprenda il suo corso.

Altrimenti, non si può evitare lo sgomento che coglie il meditante quando gli viene tolto l’ultimo sostegno, nella meditazione, del controllo del respiro: non sa più cosa fare, e si arrabatta tra respiri smorzati e tensioni.

Chi o cosa respira? Da dove origina il soffio? Le risposte tecniche e fisiologiche, a un certo punto, vanno accantonate. Bisogna, in altre parole, accettare che non sappiamo come respirare, e va benissimo così.

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