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Articoli

Sebbene illuminato, apparir come scemo: è questo il segreto essenziale

29 Agosto 2020 by Francesco Vignotto Lascia un commento


Mi è capitato per caso di incontrare la sentenza che appare come titolo a questo articolo, mentre leggevo una vecchia traduzione del Tao Te Ching (Daodejing) attribuito al ritroso Lao Tsu (la leggenda narra che lo compose perché vi fu costretto, per pagare pegno a un doganiere).

La sentenza è contenuta nel capitolo 27, intitolato ch’iao yung (letteralmente “(della) furbizia (l’)uso” o anche “L’uso dell’abilità”) e la traduzione è quella, meravigliosa per la sua lingua ‘alta’ eppure a tratti estremamente diretta, del sinologo Alberto Castellani, risalente al 1927. È in assoluto la prima versione in italiano dell’opera e proprio in questo capitolo differisce in maniera sostanziale da tutte le altre traduzioni da me consultate.

Il nostro Castellani ammette la licenza giustificandola con una maggiore fedeltà alla prospettiva taoista nel suo complesso, interpretazione che come vedremo ha qualche freccia al proprio arco, anche se non ho competenze per stabilire quanto sia plausibile sul piano filologico. Tuttavia, è abbastanza affascinante da meritare una lettura. Entriamo dunque nel testo.

La prima parte del capitolo, in realtà, non si discosta dalle traduzioni canoniche:

Un buon camminator non lascia impronte
buon parlatore non offende alcuno
buon contator non bisogna di macchine da conti
buon serrator non adopra né sbarre né contrafforti
eppure è impossibile aprire
buon legator non adopra né corde né nodi
eppure è impossibile sciorre

“Esiste nel mondo un’azione invisibile che ha spesso più valore di quella visibilmente professata” commenta Castellani. Ed è l’azione – o meglio la non-azione – di chi si muove in armonia con il Tao. A differenza di altri, il nostro traduttore legge l’intero capitolo – dato che ci servirà anche in seguito – in chiave polemica con la dottrina di Confucio (di cui Castellani stesso tradusse i Dialoghi), il quale assieme a Lao Tsu (semmai quest’ultimo sia realmente esistito) visse in tempi di decadenza politica e sociale, e come Lao Tsu si appellava alla saggezza degli antichi.

Ma se Lao Tsu guardava ai regnanti dell’epoca d’oro, era per risalirne all’estrema essenza che può prescindere da qualunque orpello (il progressus ad originem che coincide con il regressus ad futurum, come rappresenterà con meraviglioso umorismo Bohumil Hrabal in Una solitudine troppo rumorosa); Confucio, dal canto suo, cercava di ritornare all’antica perfezione attraverso l’ortodossia formale e l’azione esteriore.

Questa premessa ci serve per comprendere meglio i passaggi successivi del nostro capitolo 27, dove il nostro traduttore esce decisamente dal coro. Diverse traduzioni, infatti, descrivono qui il saggio intento ‘attivamente a salvare il mondo’ senza mai respingere alcuno che chieda il suo aiuto; l'”uomo non buono” è anzi materiale di formazione per l’uomo buono, e il capitolo si conclude, un po’ catechisticamente, con l’invito a onorare il proprio maestro.

Ebbene, forse è proprio per lo stridore con il Lao Tsŭ, maestro dell’arretrare e del non-agire, che emerge dal resto del Tao Te Ching – oltre che dall’incipit del capitolo stesso – che trovo affascinante la versione eterodossa del Castellani, il quale interpreta sarcasticamente i versi successivi come una disamina del saggio Confuciano, condannato a rincorrere gli eventi e le persone (e per questo a dipendere da essi), nel tentativo di plasmare il mondo, che altrove (cap. 29) Lao Tsŭ descrive come un recipiente sacro, un meccanismo delicato che non si può cambiare, pena guastarlo:

indi il saggio che sempre trova bello salvare gli umani
per ciò non respinge gli umani
che sempre trova bello salvare le cose
per ciò non respinge le cose
ciò si chiama offuscare la luce

E ancora:

per questo l’uomo bono
non trova bello il farsi maestro degli altri
ma l’uomo non bono
trova ch’è bello il materiale degli altri
non dare prezzo d’essere il loro maestro
non amare di perderli come materiale

Chi si muove in armonia con il Tao è spesso descritto (cap. 66 ma anche 8) come il fiume che domina la valle proprio perché dimora nei luoghi più bassi che gli altri uomini aborrono (ma attenzione: domina proprio perché non possiede una persona (cap. 13)), come colui che governa senza che i governati ne avvertano la mano, tanto che può esclamare (cap 57): “Io non faccio eppur la gente da se stessa si trasforma/io sto calmo eppur la gente da se stessa si corregge”.

E dunque è proprio così che la sentenza finale del nostro capitolo 27 cade come una ghigliottina, non come un invito a tenere per sé segreti che potrebbero far perdere la propria posizione di vantaggio, ma indicando forse l’unica via per essere davvero utili a sé stessi e a questo mondo:

sebbene illuminato apparir come scemo
è questo il segreto essenziale

Ogni riferimento e ogni spunto di riflessione relativi all’oggi, è caldamente raccomandato a chi ha orecchie per intendere.


RIFERIMENTI

Lao Tse, La regola celeste, a cura di Alberto Castellani, Firenze, Sansoni Editore, 1990, ristampa anastatica della prima edizione del 1927. (Nota: nel testo di questo articolo abbiamo mantenuto la lettura Lao Tsŭ (trascrizione Wade), utilizzata nel volume di Castellani, nonostante in copertina l’editore abbia preferito la lettura Lao Tse).

Sui rapporti tra Confucianesimo, Taoismo e Buddhismo, le tre tradizioni che convissero nella Cina classica, aveva già scritto a suo tempo Marco Invernizzi, in un articolo intitolato proprio Il mondo è un recipiente sacro e non si può governare, ma anche sì.

Bohumil Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa, Torino, Einaudi.

POST SCRIPTUM

L’immagine di copertina non è Albert Einstein, bensì John Malkovich.

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Archiviato in:Taoismo, Articoli Contrassegnato con: daodejing, Laozi, Tao te ching, taoismo, wei wu wei

Coronavirus e Teoria del Caos

30 Aprile 2020 by Giorgio Invernizzi Lascia un commento


“Può, il batter d’ali di una farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas?” fu il titolo della conferenza tenuta da Lorenz nel 1972 che portò un grande contributo a quella che oggi chiamiamo Teoria del Caos o Teoria della Complessità.

La Teoria della Complessità studia il comportamento dei sistemi complessi, così chiamati perché l’insieme dei molteplici elementi e connessioni da cui sono formati descrive una realtà che è superiore alla somma delle sue parti. L’aspetto più interessante dei sistemi complessi è l’adattatività che permette loro di apprendere continuamente con l’esperienza e perciò di evolvere nel tempo.

Lo studio dei CAS (Complex Adaptive Systems) ha prodotto algoritmi non lineari che sono oggi applicati con successo per descrivere le dinamiche di cellule, organismi, animali, uomini, organizzazioni sociali, politiche, economiche, intere civiltà.

E che cosa è questo Caos se non la danza frattale di un unico Sistema Vivente come da tempo immemorabile sostengono le Tradizioni Alchemiche?

E alla fine arrivò la farfalla caotica del coronavirus…

… svegliando col suo leggiadro battito d’ali un mondo rapito nel sogno dell’infinito progresso lineare, in realtà adagiato nel baratro da lui stesso scavato, in termini clinici una vera e propria psicosi.

Degli aspetti strettamente medici sul coronavirus c’è ben poco da dire perché è sotto gli occhi di tutti quanto la scienza medica si sia fatta cogliere impreparata a gestire una pandemia su cui peraltro si chiacchierava da tempo in prestigiosi congressi medici. Le caratteristiche che la pandemia ci mostra di giorno in giorno pongono infinite domande cui la scienza medica dovrà cercare di rispondere.

Comunque pare un dato assodato che l’infezione, anche se contagiosissima, non sia minimamente pericolosa per bambini e donne gravide, riservando ad anziani e persone con fragilità immunitaria i quadri più infausti fino alla morte.

In termini evolutivi per il genere umano non sembra quindi una minaccia ferocemente contraria alla vita e parlandone in linguaggio poetico, sembra più un gelido vento autunnale che una tempesta di primavera che distrugge i teneri germogli.

Da tutte le parti si sente dire che nulla nella nostra vita sarà come prima e forse, vista la catastrofe in atto, è la pura e semplice verità, ma la natura cataclismatica della pandemia si manifesta maggiormente in funzione delle reti sociali in cui si sviluppa, le grandi concentrazioni industriali del mondo civilizzato che qui manifestano tutta la loro fragilità, facendo saltare ogni tipo di bluff.

Peraltro, studiando le Civiltà come sistemi complessi appare chiaro che esse seguano percorsi simili a quelli di ogni vivente tra nascita e morte, vivendo giovinezze vitali e tumultuose, maturità splendenti e vecchiaia fragile e senza forze: l’algoritmo che le descrive è lo stesso dell’essere umano che a sua volta può accettare la sua storia evolutiva, oppure opporsi con ostinazione lineare alle leggi caotiche che la governano.

La differenza tra le due modalità di reazione è segnata da un sigillo cognitivo che trattiene alcuni nella visione lineare dell’infinito progresso materiale e concede ad altri la visione complessa del caos deterministico che è la Danza della Vita.

Le Civiltà generano sempre una visione di ordine sociale sostenibile ma quando in esse prevale l’aspetto dominatore e predatore sempre latente, nasce l’Impero che ha come suo principale obbiettivo la quantità a scapito della qualità, eliminando le contraddizioni e omogeneizzando la diversità umana per il massimo profitto. La visione che sostiene questa strategia è sempre basata su di un pensiero lineare che cerca l’immutabilità nel tempo, l’immortalità materiale: dal punto di vista clinico è una psicosi, dal punto di vista religioso è una idolatria.

Il sogno di eternità materiale dell’Impero si manifesta nel conferimento del nome: Sacro Romano, Britannico, Germanico, Sovietico, Democratico, ecc., rito ingenuo di immortalità che giustifica il termine Impero, in virtù della particolare eccezionalità di un dogma o di una etnia umana che si autoconferisce il privilegio di decidere della vita altrui.

Il fondamento “scientifico” dell’Impero è la visione lineare che gli dà la sicurezza di poter violare la Danza della Vita, le leggi caotiche di nascita e morte, sognando la crescita infinita.

La fase agonica dell’Impero che ha segnato profondamente una Civiltà non è un fenomeno nuovo, almeno nell’arco della storia umana conosciuta. Quando la Danza della Vita sveglia bruscamente il sogno senile dell’Impero, tutto può divenire molto critico: l’assertività può diventare una farsa e il terrore generare solo sberleffi.

Anche la paura di morire affretta la fine del sistema con l’autoinganno che celebra una potenza ormai svanita e con il politically correct che impedisce risposte creative: tutti sentono l’odore del cadavere ma non se ne può parlare e soprattutto non si deve agire.

E se in questo momento la delicata farfalla sbatte le sue ali innocenti…

…allora la tragedia quotidiana già totalmente presente emerge come un tornado svelando ogni bluff lungo tutte le linee di faglia del sistema, condannato dalla cecità culturale a non risorgere dalle proprie ceneri.

E veniamo al nostro tornado nel cortile di casa.

Come è evidente a tutti, l’Impero Occidentale, ingolosito dalla sua avidità lineare (più guadagno, più potere), ha lanciato nella globalizzazione una massa critica di relazioni materiali e immateriali che per un momento ne ha mondializzato la dimensione, rendendolo attore unico e dominante. Questa unicità, grande e clamorosa vittoria (PNAC, Progetto per il Nuovo Secolo Americano) però ha rotto irrimediabilmente l’algoritmo che permetteva all’archetipo imperiale di mantenersi indefinitamente, cioè la compresenza di due o più imperi in lotta fra loro per il posto di etnia dominante, come nella Seconda Guerra Mondiale e nella Guerra Fredda.

Ma questo, per chi lo conosce, è uno dei segreti movimenti del Caos

È la qualità che emerge caoticamente dalla quantità.

Così al culmine della dominanza mondiale l’Impero Occidentale perde definitivamente la sua identità rompendo l’algoritmo che giustifica il dominio: vittorioso nella guerra, travolto dalla vittoria.

L’algoritmo che sostiene l’identità imperiale necessita infatti di un impero antagonista con cui perpetuare il sanguinoso schema lineare di scambio di dominio sugli stessi sudditi, fenomeno che abbiamo visto in azione nell’equilibrio politico mondiale da secoli.

Al culmine della vittoria, imprigionato nella visione quantitativa lineare, l’Impero ha sottovalutato le insidie del caos delocalizzando le imprese in Oriente ed è finito allegramente in fuori-gioco.

Nel frattempo la sua opposizione in Oriente si è organizzata in una reazione caotica non lineare, la cui manifestazione più importante è stata la generazione del progetto Via della Seta, incentrato non sulla conquista di territorio ma sul controllo delle reti di comunicazione, strategia e tattica che ha il suo fondamento nelle radici millenarie della cultura cinese: taoismo, buddhismo, confucianesimo.

Il Dao, la Via, è forse il concetto più pregnante alle radici del pensiero cinese e segnala la complessità delle leggi caotiche non lineari che regolano l’universo macro e microcosmico cui il saggio si adegua con intelligenza, con passione e con disciplina.

L’aspetto forse più significante è la differenza nel concetto di ordine sostenibile legato alle reti (la Via) e non al possesso (l’Impero) e nel metodo di relazioni win-win e non predatore-preda.

Vedremo se la Cina saprà resistere alla tentazione di subentrare nel Grande Gioco con un nuovo Impero Cinese oppure, ritagliandosi il ruolo di fedele custode della Via, accetterà di partecipare alla continua trasformazione caotica dell’evoluzione umana indicando al mondo il destino della fenice rossa taoista che risorge sempre dalle sue ceneri.

E mentre la farfalla innesca il tornado tra Imperi lineari e Vie caotiche perché non approfittare del vortice per guarire un po’ la nostra presente invalidità?

Potremmo cominciare con una riflessione generale: quanta illusione lineare alberga ancora nella nostra vita costruendo continui bluff e anestetizzando il sentire del cuore? Quanto dovremo ancora soffrire prima di riuscire a riabilitare il canale cognitivo con la Vita, la conoscenza esperienziale che ci porta verso il destino della vera immortalità?

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Archiviato in:Articoli, attualità

Diventare madri nell’era della ‘paura di vivere’

20 Aprile 2020 by Erika Pizzo Lascia un commento


In questa clausura causata dal coronavirus, un insieme di frustrazione, paura e isolamento invade un buon numero di persone, e tra queste le più facilmente colpite potrebbero essere le future mamme o le neo mamme.

Vivere l’evento della nascita in un momento simile significa un po’ andare contro la corrente del comune sentire. Per fortuna, mi viene da aggiungere. Ma viverlo senza la possibilità di condividere la gioia e le paure con familiari e amici, in isolamento totale, può in alcuni casi far emergere un senso di inadeguatezza e insicurezza più forte del previsto.

Si spera chiaramente nell’armonia dell’ambiente domestico, ma ciononostante non è possibile sfuggire del tutto alle emozioni che dilagano intorno a noi, assieme al pensiero della malattia e della morte. Emozioni che nell’isolamento del post parto potrebbero facilmente sfociare in depressione e tristezza.

Ragionandoci, non solo come insegnate di yoga in gravidanza, ma anche da donna incinta, mi rendo conto di come questa condizione di apparente maggiore fragilità sia in realtà anche una grande risorsa. Percepire la vita che prosegue nella sua crescita e formazione, apparentemente ignara di tutto ciò che accade fuori, è già di per sé un ottimo aiuto a veder positivo, a pensare al ‘dopo’, a intravedere in quel bambino in arrivo (o appena giunto) l’inizio della ricostruzione di un nuovo equilibrio.

Ma è il tempo propizio per abbandonare la visione della nascita fatta di cuoricini e nuvolette rosa o azzurre che ci propinano normalmente ovunque. E’ il tempo per guardare al parto con occhi diversi, più reali, senza gli occhiali a lenti colorate indossati negli anni ‘80 e mai più tolti.

Non posso infatti fare a meno di pensare anche all’ambivalenza vita/morte ed alla forza delle donne, il loro essere simbolicamente porte di passaggio tra i due mondi.

Penso soprattutto a concetti rappresentati e simboleggiati da varie divinità femminili quali ad esempio: Kali, Iside, Afrodite, Sheela na Gig e tutto l’infinito elenco di divinità femminili dal neolitico in poi. Appartengono ad epoche e culture differenti, ma tutte sono simboli della forza generatrice femminile: sia essa indirizzata a creazione fisica di vita, o a idee, progetti, progressione interiore e personale. (Nota: per quanto questa riflessione sia incentrata sulla gravidanza, in realtà è espandibile facilmente anche a contesti differenti).

Tutte queste divinità rappresentano figure femminili forti, istintive, che generano creazione e rinnovamento, ma al contempo morte e distruzione.

(Nel tantrismo e nello yoga, il concetto si sintetizza in Shakti: il femminile è energia, è la manifestazione stessa a livello universale e individuale).

Inanna Ištar
Inanna Ištar

Prendiamo l’ambivalenza della Dea Kali, ad esempio: in un caso è raffigurata nel gesto di partorire il mondo, mentre nell’altro, più comune e diffuso, è rappresentata nella sua espressione più terrifica. Non esiste il nuovo, se prima non si distrugge il vecchio. Così come non esisterebbe la luce senza il buio. Vita e morte sono legate in modo indissolubile.

Allo stesso modo, la donna incinta si trova a dover creare spazio dentro di sé, ad elaborare vecchi modelli e generarne di nuovi. Il parto stesso è un morire per rinascere: la paura che proviamo in quei momenti è legata inevitabilmente alla paura istintiva della morte/abbandono.

La trasformazione richiesta alla donna in questa fase e la fusione delle due espressioni del femminile, è ben esplicitata in uno dei poemi dedicati alla Dea Inanna-Ištar, una tra le divinità considerate protettrici delle partorienti ed ispiratrice di molti miti di epoche successive:

…Inanna, Regina del Cielo e divinità dell’amore, della fecondità e della guerra, scende alla scoperta delle profondità del Mondo Sotterraneo, dominato dalla sorella. Inizia il suo viaggio riccamente vestita e adorna di gioielli, ma dovrà attraversare sette porte: ad ogni porta le verrà chiesto di lasciare qualcosa. Giungerà così nuda nel mondo degli Inferi, dove verrà maltrattata, tramutata in cadavere e appesa ad un chiodo.

Tuttavia Inanna prima della partenza aveva lasciato ordini precisi ai suoi servitori perché la aiutassero. (…) Così, dopo tre giorni, due creature dal regno del Cielo scesero a loro volta nelle profondità della Terra nel momento propizio: la sorella di Inanna, Regina del Regno degli Inferi, era percossa dai dolori del parto. Le creature portarono sollievo alle sue pene, chiedendo in cambio la libertà della loro regina Inanna.

Inanna attraversò il percorso a ritroso, recuperando ad ogni porta le sue vesti e i suoi gioielli, ma dovette comunque pagare un prezzo per la sua discesa.

La sua integrità ritrovata risulterà rinnovata e arricchita dall’esperienza vissuta.

(Estrema sintesi e semplificazione del poema sumero Discesa di Ištar negli Inferi)

Questi modelli sono poco conosciuti nella nostra società, offuscati dalla sola visione della dolcezza e accoglienza dell’amore materno e femmineo. Ma i due aspetti possono e dovrebbero coesistere in ognuna di noi.

In questo periodo di reclusione e difficoltà personalmente sento molto la necessità di risvegliare quegli istinti forti e decisi. Perché la reclusione non ci trasformi in topi nascosti nella tana, ma sia l’occasione per dedicarci alla scoperta delle leonesse nascoste in noi, pronte a generare e crescere figli capaci di essere costruttori di un mondo nuovo e a gestire in totale autonomia paure e avversità.

Leggere di questi miti e divinità, o meditare su di essi, praticare āsana o prāṇāyāma che lavorino su questo tipo di energia sono alcuni dei metodi a nostra disposizione, offerti dalla pratica yoga, per risvegliare in noi quei lati sommersi.

Al contempo, l’acqua placa il fuoco eccessivo e così altri āsana, altri prāṇāyāma possono aiutare a non esasperarli e a trovare il nostro equilibrio.

Ci saranno posizioni che ci disturberanno. Accade. Non per una fatica fisica, ma per la difficoltà a “stare” in quella data forma corporea. Eppure proprio lì inizia la pratica yoga. In quel disagio. Lo stesso che si prova cercando di concentrarsi sul semplice respiro, finendo completamente altrove con la mente.

Non esiste una soluzione al problema, se non la costanza nel permanere. Prima o poi, qualcosa accade.

Praticare yoga è un po’ come mettersi sul divano con la mano in grembo, in ascolto del bambino: prima o poi, il calcetto arriva. Si tratta di aspettare, pazientemente, con l’attenzione posta nella giusta direzione, senza mai smettere di crederci.

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La continuazione dello yoga con altri mezzi

8 Aprile 2020 by Francesco Vignotto Lascia un commento


È passato un mese esatto da quando il nostro centro, come tante altre attività, ha chiuso fisicamente i battenti per i motivi che ben sappiamo. È stato solo un piccolissimo e quasi privato smottamento tra gli eventi che in pochi giorni hanno aperto un abisso tra il prima e dopo per tutti, e non sono qui per dolermene in pubblico.

Vorrei però raccontare quello che è maturato in questo mese dalle nostre parti, nella speranza di offrire qualche spunto sul tema della pratica dello yoga mentre le scuole di yoga sono in quarantena.

Quando Zénon ha chiuso, ci siamo presi qualche giorno per capire cosa fare, oppure cosa non fare. Oltre alle diverse circostanze personali che ognuno di noi stava (e tutt’ora sta) vivendo, c’erano alcuni dubbi che attendevano di essere sciolti.

I principali nodi riguardavano se fare un passo a lato: in un momento come questo, ha senso continuare? Esistono motivi validi per proseguire a insegnare yoga attraverso l’unica via praticabile, cioè internet? Intendiamoci: esistono motivi al di là della sopravvivenza di una realtà – Zénon – in cui crediamo fermamente?

Ma anche, e non meno importante: è fattibile, a modo nostro? Non si perde, con questo, lo spirito essenziale della pratica?

Nel frattempo, abbiamo visto scorrere i fiumi di tante iniziative, dirette in streaming pubbliche o ‘ristrette’, lezioni su Youtube, classi via Skype, via Zoom e non solo di yoga, spesso animate dalle migliori intenzioni; e abbiamo letto anche qualche critica, a volte argomentata, a volte meno. I partiti del ‘piuttosto’ e quelli del ‘niente’ hanno, a nostra opinione, uguali dignità, ognuno ha le sue ragioni.

Noi abbiamo deciso per il ‘piuttosto’. Beninteso: lo abbiamo fatto in modo molto privato inizialmente, e con una certa circospezione. Ma dal confronto con i nostri soci, ovvero con chi fino a pochi giorni prima praticava con noi nelle nostre sale, abbiamo ricevuto l’impressione che per i più non si trattasse semplicemente di dare continuità a un’abitudine, di “ovviare a un disagio”.

Rispetto al pre-quarantena, è emersa un’urgenza che scavalcava le questioni formali: si tratta di trovare delle fenditure, di trovare degli spiragli attraverso cui respirare. La differenza rispetto a prima è che questi spiragli non sono più un bene di lusso, ma di prima necessità.

Ebbene, nel corso di queste settimane, anzi e con la nostra stessa sorpresa, l’espressione ‘piuttosto che niente’ è risultata del tutto inadeguata, perché ingenerosa. Più che la necessità di preservare i rapporti, è apparso come alcuni legami, messi fisicamente alla prova dalla separazione, ne escano rafforzati. Devono diventare più autentici, oppure soccombere, come l’erba che sbuca attraverso la colata di asfalto.

È vero che lo yoga attraverso uno schermo, quando la connessione e l’ambiente casalingo lo permette, può non essere esattamente la stessa cosa. Ma questo dato, così come può indurre a maggiore superficialità, ci può anche spronare di andare direttamente al sodo.

Certo, anche noi eravamo prevenuti: pensavamo che i mezzi digitali funzionassero molto bene per mostrare come eseguire una procedura, meno bene per far passare ciò che sta oltre le parole. Il nostro giudizio non è cambiato del tutto (per questo ci siamo concentrati su lezioni in diretta, con interazione, invece che su lezioni registrate).

Eppure ci siamo sorpresi scoprendo che l’essenziale, ciò che importa veramente, passa comunque. Non per qualche dote straordinaria del mezzo (la nostra epoca idolatra i mezzi), ma per la ben più straordinaria affinità tra coloro che stanno ai due capi dello strumento, affinità che non può veramente essere isolata o soppressa da alcuna barriera. A volte bastano pochi cenni, e ciò che manca nella comunicazione si colma improvvisamente.

E qui si obietterà: se davvero è insopprimibile, se anche nella privazione più totale non siamo mai soli, perché attaccarsi a una connessione a internet? Obiezione legittima, ma spesso, nello yoga, si rischia di fare della cattiva filosofia, presupponendo un mondo ideale popolato da esseri tutti d’un pezzo.

L’isolamento che stiamo vivendo non è la scelta consapevole dell’asceta che si allontana volontariamente dal mondo, scelta peraltro che può competere solo a poche tipologie di persone. Il “mondo” non è mai stato così vicino, non ha mai fatto sentire la sua voce nel chiedere il conto, nello sbaragliare le illusioni di poter tenere sotto controllo, di prevedere, di programmare.

Per molti, questo ammutolire che è calato nelle strade non è silenzio, ma una palude di paure in cui si rischia di scivolare giorno per giorno. Mai come in questo momento – è ciò che abbiamo riscontrato – la capacità di “svuotarsi” è indispensabile per non essere travolti dalla situazione e affrontarla con lucidità.

E questa capacità, al momento, per molti è più abbordabile insieme – cioè con un segno, un sostegno percepibile – che da soli. Per insegnanti e allievi, ciò può significare veramente un salto qualitativo.

Lo yoga serve proprio a questo: a trovare l’essenziale non può essere portato via. E ci perdoneranno i professori se per imparare a fondo questa lezione, useremo all’occorrenza anche una connessione a internet. Almeno per ora.

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La meditazione può essere ‘usata’ per alleviare lo stress?

13 Febbraio 2020 by Francesco Vignotto Lascia un commento


E anche se arriverà sempre qualcuno più furbo degli altri a proporti qualcosa di più abbordabile, una risposta sensata alla domanda contenuta nel titolo potrebbe essere: occorre che si disimpari a usare; a fare per qualcosa; a prendere solo quello che serve, e a scartare quello che non sembra portare acqua al mulino.

È una non risposta, è vero. Ma non è possibile approcciare al tema della meditazione come un oggetto comune del discorso, se non per vie laterali. Meditare è un verbo ma ciò che indica non è un’azione né uno stato, non è una cosa, non è la tecnica che può essere insegnata, non sono le fasi descritte analiticamente nei libri per necessità didattiche.

La meditazione è confronto con il silenzio e il silenzio non è negoziabile, anche se possiamo essere più o meno permeabili, più o meno resistenti al silenzio e anche constatare la resistenza è già il silenzio. Ma anche questa è solo una formulazione, che come sempre non è da prendere alla lettera.

Se accostarsi alla meditazione insegna qualcosa, è che le delimitazioni sono solo delle idee, per quanto occasionalmente utili a raccogliere le energie disperse. Non è possibile stabilire fin dove si vuole arrivare, ed avere la garanzia di lì fermarsi: ad alcuni bivi si può decidere la direzione, ma una volta instradati in certe correnti, cedere diventa una virtù.

Da questa prospettiva, ciò che sperimentiamo come stress è proprio l’attrito lungo la frontiera, l’abuso di legittima difesa del sé nei confronti dell’altro da sé. Ciò che può suggerire la meditazione è che sono io ad aggredirmi nell’altro, e la mano rivolta contro di me sarà un invito a rimettere in discussione il confine stesso, anche se non necessariamente abolirlo.

Come scriveva proprio su questo sito Marco Invernizzi in Lo Zen e le neuroscienze:

Uno slittamento appena impercettibile quanto il passaggio dalla veglia al sonno, “niente di speciale”, che nulla cambia formalmente ma che proprio per questo è l’essenza di un vero ri-conoscimento: ovvero prendere atto della realtà così com’è, spoglia dalla pretesa di deformarla secondo la propria egocentrica immagine e somiglianza.

Una realtà che non è soppressione del sé in favore dell’altro, bensì una terza condizione estranea all’esperienza ordinaria ma che non nega l’ordinaria esperienza.

Perciò la meditazione volta ai conseguimenti mondani o spirituali, laica religiosa o agnostica, finalizzata al successo, alla salute, all’efficienza sul lavoro, ad accrescere l’autostima, sono delimitazioni di campo, nomi di imballaggio, laddove l’autenticità è proprio nello sgretolarsi delle linee, inoltrarsi nel non so.

Meditare è un non-atto rivoluzionario proprio perché significa dedicarsi a qualcosa che è radicalmente privo di utilità: forse questo è l’unico aspetto genuinamente terapeutico. Scegliere qualcosa che non ti renderà ricco anche se non hai soldi, non ti curerà da ogni male anche se sei malato, non migliorerà le tue prestazioni né ti salverà dal destino che attende tutti: scegliere quel niente ha qualcosa di eroico, è un soffio, ma è quel soffio per cui vale la pena vivere (e morire).

Sembrerebbe questo un discorso volto a scoraggiare, e invece è un avvertimento: c’è uno stadio ulteriore al disincanto, un senso che attraversa la mancanza straziante di senso, in cui ogni scheggia esplosa appare infine nella sua vera sede. È questo, ne sono convinto, il motivo di fondo, spesso inconscio, per cui la meditazione è un argomento che suscita un sincero interesse oggi, al di là delle mode e degli annunci sensazionali: c’è un bisogno primario e non alienabile di andare alla radice. Radice che è prossima, non privatizzabile.

Perciò, in questa sede, sono pressoché irrilevanti le questioni storiografiche o dottrinarie, ma conta solo l’urgenza: l’essere umano, l’inquietudine che lo accompagna, e una possibile via d’uscita.

Via di uscita che non può essere una via di fuga, altra illusione spesso ben mimetizzata e protocollata, ma un passaggio attraverso, estremamente disponibile in ogni momento: la questione, semmai, è imparare ad accettare tale disponibilità, anche quando si ha la casa in disordine e mai più si penserebbe di ricevere visite.

Tuttavia, sebbene a livello popolare si sappia che la meditazione ha a che vedere con la calma della mente, al tempo stesso sembra richiedere un impegno che è fuori della portata comune: ascoltare quando si vorrebbe parlare, stare immobili quando si vorrebbe scappare, concentrarsi a lungo su qualcosa quando si è continuamente distratti da altro, non grattarsi quando si prova un forte stimolo a farlo.

Tutto questo è in moltissimi casi una disciplina propedeutica indispensabile, ma può creare l’equivoco che la questione sia resistere, resistere a oltranza in una guerra di trincea senza tregua contro le proprie inclinazioni; invece, una volta acquisiti e interiorizzati gli strumenti, è d’obbligo capovolgere la prospettiva: la meditazione è la tregua.

Stabilire perché i combattimenti si siano arrestati proprio in quel momento, è simile al triste compito del sondaggista che all’indomani delle elezioni si trova a spiegare perché le sue previsioni sono state smentite dalle urne.

Per questo, la meditazione non è il discorso, ma il punto che riassorbe nel silenzio tutte le parole dette. Un punto che però non arriva per esigenze grammaticali, ma che per ragioni estranee al testo interrompe le trasmissioni, e ci si trova all’aperto quando neppure ci si ricordava di essere segregati.

Se l’attenzione restasse sulle parole, se l’accento rimanesse su ciò che facciamo, dal sederci al respirare o al cantare estaticamente, allora sarebbe una triste pantomima, un tastare nel buio alla ricerca di qualcosa che porterà a qualcos’altro ancora senza fine, è un tardo rituale che ha perso il senso originario di ciò che rappresentava: non è la formula salvifica ma l’aguzzino sotto un nuovo travestimento.

Certo, nonostante ciò e proprio per questo, vale la pena sedersi a meditare: ma consapevoli che lo sciogliersi della riserva probabilmente non arriverà durante la lezione settimanale, né di fronte a un tramonto sulla spiaggia, né durante il ritiro di vipassana; magari nei miasmi mattutini di un autobus affollato, o al culmine di una rovinosa litigata, o di fronte a una discarica abusiva.

E sarà di una semplicità talmente sconvolgente, che forse nemmeno sarà riconosciuto. Se la lotta sembrava persa in partenza davanti allo scalino troppo irto del silenzio, in realtà tu stai reggendo la parete, il silenzio è inevitabile.

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La cognizione del dolore negli yogāsana

7 Novembre 2019 by Francesco Vignotto 3 commenti

…imponderabile in un mondo di pesi…
…………..
…dismisura in un mondo di misure…

Marina Cvetaeva

Avevamo parlato già qualche tempo fa, degli eccessi che provocano infortuni nello yoga, perché tutto ciò che può fare molto bene, può fare anche molto male. Soprattutto quando uno pensa, con molta leggerezza, che sia possibile piegare alle proprie pretese energie che sono tanto creative quanto potenzialmente distruttive, e molto più capillari di quanto si possa immaginare.

Proprio in questi giorni il sito della BBC ha pubblicato un articolo dal titolo Gli insegnanti di yoga ‘rischiano seri problemi alle anche’, che a dispetto del titolo sensazionalistico è piuttosto equilibrato nel fornire un quadro di una situazione-limite, anche se a livello aneddotico: Benoy Matthews, un fisioterapista specializzato, sostiene di avere ormai moltissimi insegnanti di yoga tra i suoi pazienti, parte dei quali necessitano semplici interventi fisioterapici, mentre altri sono costretti a ricorrere alla chirurgia per la sostituzione totale dell’anca.

Matthews individua la causa non nello yoga in sé, ma nell’attitudine diffusa a forzare ripetutamente il corpo in posizioni “prescritte”. In altre parole, quando l’āsana è uno standard assoluto a cui conformarsi (ne abbiamo già parlato qui) è molto facile entrare in conflitto con particolarità anatomiche del proprio corpo che non sono compatibili con quegli standard (e l’articolazione dell’anca è particolarmente soggetta a importanti differenze da corpo a corpo).

Il problema è quindi in primo luogo di attitudine, incoraggiata (è un parere mio) da un certo approccio massimalista allo yoga, per cui lo yoga farebbe bene a prescindere e che la pratica sia in grado di riparare ai suoi stessi danni (secondo una visione distorta della massima “practice and all is coming”), senza contemplare la necessità di aggiustare il tiro.

Per cui, il buon Matthews afferma che è molto facile per il praticante confondere il dolore articolare, che indica la necessità di arrestarsi, con la rigidità, contro cui si è stati educati a combattere.

Differenti gradi di torsione della testa del femore. Una delle tante variabili anatomiche che determina la mobilità dell’articolazione dell’anca.

L’articolo è molto interessante, perché aiuta a comprendere come la pratica degli āsana non sia un gioco innocuo e di come il praticante di yoga possa soffrire del male paradossale comune a molti sportivi: perdere la salute per eccesso di zelo facendo qualcosa che in realtà servirebbe a preservarla.

Ma se vogliamo andare oltre il più ovvio invito alla moderazione (esiste anche la pecca di eccessiva arrendevolezza, e per questo è difficile dare delle indicazioni assolute), possiamo cogliere l’occasione per indagare qualche aspetto più profondo, ovvero: la “via mediana” non intesa come mediocrità tra gli estremi, ma come la possibilità fattiva di penetrare negli interstizi delle cose.

La maggior parte delle persone (forse tutti, almeno nella cultura industrializzata occidentale, se non educati altrimenti) si percepisce e si regola solo tramite gli estremi. È facile abbuffarsi e non è nemmeno troppo difficile digiunare: basta mangiare fino a non poterne più, oppure non mangiare affatto. Proprio per questo, tutti noi sappiamo quanto richieda attenzione (un’attenzione che non tutti sono disposti a investire) mangiare invece il giusto, solo quando si ha veramente fame e smettere prima di essere satolli: bisogna sentirsi, non basta aspettare di collidere con il limite: è lo stesso motivo per cui – è l’emergenza del nostro tempo – anche le idee si appiattiscono spesso su posizioni estremistiche, perché è molto più difficile articolare un’opinione ponderata.

Così, tornando al nostro corpo, nel movimento percepiamo poco più del punto di partenza e di quello di arrivo, un po’ come quando si parcheggia urtando la macchina avanti e quella dietro. Tutte le gradazioni intermedie, tutte le zone grigie che non possono essere catalogate sotto uno o l’altro estremo sono delle frequenze al di fuori della nostra capacità percettiva. A meno che, ovviamente, non inciampiamo nel mezzo in qualcosa, in special modo di doloroso (con tutta la problematica che riguarda la definizione del dolore e il suo margine soggettivo di sopportazione).

Eppure, con buona pace dei massimalisti, le tecniche dello yoga si muovono proprio in quella zona di mezzo tra gli estremi, che solitamente è attraversata di fretta e sovrappensiero come un corridoio buio popolato di esseri ripugnanti. Ecco, lo yoga deve mostrare che il mostro è una leggenda.

Ciò richiede di non eccedere nella forza, con una certa nonchalance, ma nemmeno di rinunciare del tutto alla fisicità. Come il tocco del percussionista, se è troppo lieve non produce suono, se è troppo ‘materiale’ è un colpo sordo.

Molto di quello che si vede oggi sotto il nome yoga, purtroppo, è un colpo sordo. È un colpo sordo insegnare il modo più veloce per raggiungere lo stadio finale di una posizione, non il modo più in accordo con la propria fisiologia e con la possibilità di un ascolto approfondito, ma soprattutto è un colpo sordo non cogliere e non educare a discernere la differenza. Per cui, anche il praticante di yoga, finché non incappa nel fine corsa delle proprie possibilità – correndo il rischio di sviluppare, col tempo, dolore – non sarà portato a sentirsi e non avrà raffinato in alcun modo la propria capacità percettiva.

Occorre avere ben chiaro cosa è possibile fare, e cosa non lo è. Ma anche: perché dovrei farlo? Perché dovrei ‘aprire’ ulteriormente le mie anche? Non sto sostituendo forse il mezzo con il fine? La domanda è universale, ma è ancora più urgente per lo yoga, che è solo secondariamente un contenitore di mezzi, e ancora prima battuta un fine che non è un(a) fine.

Porre degli obiettivi, come eseguire una posizione o padroneggiare una tecnica, è certo un espediente: serve come scintilla di accensione, altrimenti non ci sarebbe spinta iniziale. Ma nello yoga tutti particolari che si presenteranno nel percorso, le necessarie deviazioni e gli adattamenti, persino la manifesta impossibilità di esecuzione possono essere in realtà la destinazione, perché yoga è esperire direttamente che la destinazione è in ogni punto.

A un certo punto, la posizione finale potrebbe essere persino dimenticata. Ciò che è limitante è che il limite sia considerato come una restrizione di cui necessariamente fare ammenda. Il limite si oltrepassa da sé quando le mie anche strette, la mia posizione imperfetta non impediscono il risvegliarsi dell’energia, che avviene per ragioni poco ponderabili, non in un momento prescritto né quando né perché sono stati fatti tutti i compiti. Allora la necessità di aprire le anche per sentirmi libero è come la necessità di acquistare un televisore da quaranta pollici per sentirmi felice.

Forse, se ci facciamo caso, nello yoga come nella vita, potremmo rintracciare infinite occasioni in cui un raccoglimento particolare mentre si cercava altro, un silenzio, una raffinata sensibilità sono stati calpestati sul nascere dall’improvviso pensiero che vi fosse una posizione, una sequenza ancora da portare a termine, una parola ancora da dire, una nota da cantare.

Sarebbe bello, se nelle lezioni di yoga si cadesse in questi silenzi come si cade addormentati.

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