
“Vorrei meditare, ma non sono capace di concentrarmi”: è una delle considerazioni più ricorrenti tra chi vorrebbe accostarsi alla meditazione, ma è intimorita dalla sua (apparente?) austerità.
In realtà, molto dipende da cosa intendiamo per concentrazione. Solitamente, infatti, riteniamo che concentrarsi richieda uno sforzo costante per evitare le distrazioni: sembrerebbe l’interpretazione più plausibile di espressioni tradizionali come “con la mente concentrata su un solo punto”.
Abbiamo, in altre parole, un’idea – e quindi un approccio – soprattutto negativi alla concentrazione: dobbiamo pensare a una cosa e combattere per non pensare a qualcos’altro. Quindi, come l’elefante, ‘qualcos’altro’ incombe sempre nei nostri pensieri.
Per questo, al termine di una seduta di meditazione, tendiamo spesso a scoraggiarci, notando più i momenti di distrazione che quelli in cui eravamo “sul pezzo”.
Intendiamoci: lo sforzo per riportare la mente distratta sull’oggetto è un ingrediente fondamentale della meditazione. Ci possiamo però facilmente rendere conto che, se fosse tutto qui, l’impresa sarebbe persa in partenza: siamo noi contro il resto del mondo. “Perché io sono solo, e gli altri sono tutti”, diceva l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij, condensando genialmente in una frase il problema fondamentale di esistere.
Proviamo ora a pensare invece a quei momenti in cui, dedicandoci a qualcosa che ci appassiona, abbiamo perso la cognizione del tempo: eravamo talmente ‘presi’ da quello che stavamo facendo che ci siamo dimenticati di tutto il resto. Eravamo perfettamente concentrati e non lo sapevamo. Eravamo talmente “dentro” l’oggetto che qualsiasi distrazione non arrivava nemmeno a sfiorare i nostri pensieri, perché non esisteva nient’altro che l’oggetto della nostra passione. Stavamo meditando senza saperlo? Probabilmente, quasi.
La stessa cosa, in negativo, accade quando riceviamo una notizia che ci sconvolge, o un pensiero fisso ci tormenta: in questo caso, vorremmo distrarci, ma non riusciamo proprio a pensare ad altro. Non riusciamo a lavorare, a volte nemmeno a mangiare. Quell’unico pensiero che tiene sotto sequestro la nostra mente ci sveglia addirittura la notte.
Abbiamo appena visto due casi in cui la concentrazione non è solo facile, ma è fuori discussione. Nel secondo caso, addirittura una condanna.
Nella meditazione, invece, è importante che ci siano distrazioni, affinché, da un lato, ci rendiamo conto della quantità di pensieri che affollano la nostra mente; dall’altro, di quanto l’intenzione e lo sforzo (eccessivi) di concentrarci possano essere addirittura controproducenti.
Ma, soprattutto, è importante per sviluppare la capacità di concentrarci anche in assenza di uno stimolo emotivo forte. Tuttavia, come dicevamo, se la concentrazione fosse solo o soprattutto sforzo, il gioco non varrebbe la candela. Sarebbe una gara di resistenza, una dieta molto punitiva, alla fine della quale non vedremmo l’ora di abbuffarci di cibo spazzatura.
E qui arriviamo al nodo fondamentale: in realtà, concentrarsi è più frutto del rilascio, che di uno sforzo.
Ma come, uno direbbe, se io mi rilasso mi addormento! E ha ragione: una certa dose di sforzo, almeno per pensare a una cosa sola, è necessaria. Ma occorre spegnere le luci nelle stanze non abitate, occorre cessare lo sforzo di pensare a qualcos’altro.
Ecco: non è pensare a una cosa sola a essere difficile, è tutto il resto, tutto ciò che pensiamo e agiamo costantemente, in ordine sparso e senza una vera ragione, a essere estremamente faticoso. Occorre innanzitutto percepirlo, quello sforzo non richiesto, quel sovrapprezzo che paghiamo (e ciò avviene soprattutto attraverso il corpo, ma questa è un’altra storia).
Forse non ce ne siamo accorti, ma abbiamo un’ottima notizia: lo sforzo richiesto per concentrarci è molto inferiore a quello che ci aspettavamo. Non siamo noi contro tutto il mondo: il mondo, altrimenti così nemico, se chiamato con la giusta disposizione d’animo, ci viene incontro.
Certo, con la meditazione dobbiamo imparare a cessare di fare: e la nostra mente non è abituata a lasciare andare. Anche cercando di smettere, fa. Per questo può essere così difficile perdere una abitudine o un vizio. Così, quando ci sentiamo tesi, cerchiamo di fare qualcosa che ci rilassi: il che può essere ottimo, ma alla lunga, se non impariamo ad arrenderci, diventa qualcosa in più oltre a quello che già facciamo. Anche in questo caso, è il corpo – semmai esiste un corpo contrapposto alla mente – che ci viene in aiuto.
Ora, in questo discorso che potrebbe apparire – ed è – soprattutto di buonsenso, si è in realtà affacciato qualcosa di più misterioso. Il gioco delle parti che abbiamo interpretato inconsapevolmente comincia a divenire più sfumato. Chi sono io e chi o cosa è il resto del mondo?
Come mai, dedicandomi a una cosa soltanto, non solo mi dimentico che siamo due entità separate, ma viene meno il senso di incompletezza, di separazione dal tutto che inconsciamente mi costringe sempre ad agire e a cercare qualcos’altro ancora?
E come mai a un certo punto la descrizione di questo ritrovarmi assomiglia almeno sulla carta a un naufragare? E perché, come ricorda il poeta e come assicurano tutti i meditanti, è così dolce?
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